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Le varie forme della differenza da sé propria dell'essere

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 138-142)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

2. Cosa vuol dire “persona”. La differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”

2.2. Perché nel rapporto con le persone abbiamo a che fare con “qualcuno”

2.2.3. Le varie forme della differenza da sé propria dell'essere

Come Spaemann ha sottolineato più volte, la particolarità della persona sta nel suo possedere la propria natura e quindi nel poter prendere internamente distanza da essa. Questa “differenza da sé” che si viene a creare nella persona può riconoscersi in più forme e rappresenta nel pensiero del nostro autore il perno, girando sul quale siamo in grado di cogliere a partire da più prospettive il perché l'essere della persona non si possa ridurre alla presenza effettiva delle sue qualità razionali.

Una prima riflessione che esemplifica ciò consiste in un'analisi dell'utilizzo da parte dell'uomo del pronome “io”. La persona è secondo Spaemann un essere “reale potenzialmente capace di autodesignazione, cioè di autorappresentazione”85 e nel

81 Vangelo di Giovanni, 3, 19.

82 SPAEMANN R., Personen, cit., p. 30; Persone, cit., p. 22. 83 Ibidem; Persone, p. 23.

84 Vangelo di Giovanni, 15, 22.

85 SABANGU P.S., Natura, persona e ragione: un'impostazione antropologica, “Ideazione”, IX (2), 2003, pp. 204-209, qui p. 208.

momento in cui si rappresenta o si designa, lo fa con il pronome “io”; essere 'io' però non significa essere soltanto coscienza, né presuppone necessariamente una conoscenza del proprio essere o della propria collocazione spazio-temporale, bensì si riferisce ad un livello più profondo di autoidentificazione. Chi dice “io” non è “un io (ein Ich)”86, inteso in termini filosofici come pura soggettività, bensì un essere vivente, che si presuppone come un qualcuno così-e-così esistente in un determinato luogo e tempo, ma che tuttavia non coincide con queste determinazioni, rimanendo, indipendentemente dal loro variare, innanzitutto “io”87. A causa di un incidente o di uno specifico disturbo neurologico, qualcuno può infatti perdere la memoria e non ricordarsi chi egli sia, né dove si trova e in quale epoca, ma, come insegna il cogito cartesiano, egli sa primariamente che è, cioè che esiste. Egli dice “io” anche se non sa ancora chi è, chiede agli altri “chi sono?” o “dove sono?”, ma non “chi sono io?” o “dove sono io?”, perché il suo 'essere io' è indiscutibile. Questo esistere, che viene designato dall'“io”, è indipendente da ogni determinazione qualitativa poiché la precede, mentre questa è per così dire una sua proprietà, nel senso che è da esso posseduta. “Io so di avere un essere in qualche modo determinato [...] ma io non

sono immediatamente questo essere”88.

La questione dell'io e della coscienza immediata di una propria identità che precede l'essere-così di qualcuno è ciò a cui ci conduce secondo Spaemann anche il

topos letterario della metamorfosi. Nei racconti sulla metamorfosi di autori di tutti i

tempi, da Ovidio a Kafka fino a nomi più recenti come Guimarães Rosa, il mutamento descritto non è mai di tipo sostanziale, come direbbe Aristotele, ma accidentale: ciò che muta sono solo le determinazioni esteriori dell'essere, ma non il soggetto che le possiede, che rimane sempre lo stesso uomo che dice “io”. In tutte le

86 SPAEMANN R., Personen, cit., p. 18; Persone, cit., p. 12.

87 A questo proposito è interessante ricordare come Ernst Tugendhat, nel discorso della persona e della propria identità, preferisca evitare i termini sia “persona” che “soggetto”, e si esprima piuttosto proprio con la locuzione “Ich-sager”, per indicare cioè il referente della propria personalità come “colui che dice 'io'”. Secondo la sua teoria, una tale definizione non è per nulla limitante o poco chiara, perché, “colui che dice 'io' non esaurisce il proprio sé nel semplice dire 'io', ma esercita una forma di “autoattivazione permanente” (permanente Selbstaktivierung): egli riconosce cioè che la sua vita gli appartiene, che egli esiste [...] sotto le condizioni di un autodisciplinamento di una rigidità prussiana”. Da MÜLLER O., Ich empfehle für mich das

Bodhisattva-Ideal, “Berliner Zeitung”, XXIX, 2003. Cfr. anche TUGENDHAT E., Egozentrizität und Mystik. Eine anthropologische Studie, Beck, München 2003.

storie di questo tipo infatti, è sempre un essere umano ad acquisire altre forme di esistenza, non il contrario, e nell'esperienza di ogni altro modus essendi, egli mantiene sempre la propria identità con se stesso e si percepisce come sé nonostante cambi il suo modo di adeguarsi alle proprie sembianze e soprattutto la prospettiva in cui viene visto dagli altri e quindi la sua interazione con l'esterno. Il paradosso della metamorfosi, al di là del suo essere finzione, sta nel fatto che l'identità personale è puramente numerica e astrae dalle caratteristiche qualitative tipiche della specie umana, nonostante sia proprio in virtù di esse che nell'uomo è possibile un tale processo di astrazione. “Chi noi siamo, non è evidentemente identico a ciò che noi siamo”89.

La terza prospettiva da cui Spaemann guarda al fenomeno tipicamente umano della distanza da sé è quella della differenza aristotelica tra zen e eu zen, ossia tra vivere e vivere bene. Mentre per le entità puramente fisiche vale secondo il nostro autore il detto scolastico “agere sequitur esse”90, per cui una cosa esprime il proprio essere attraverso il suo agire, tutti gli esseri viventi hanno una costituzione teleologica caratterizzata da un “tendere a”91 (in tedesco Aussein-auf), la quale fa sì che essi non siano soltanto ciò che risulta dalla loro esteriorizzazione e che quindi esista una differenza tra il loro essere “di fatto” (comprensibile esternamente) e il loro essere “propriamente” (determinato invece dall'interno, da questa finalità)92. Uomini e animali possono di conseguenza 'mancare' in una certa misura il loro essere, presentare delle anomalie rispetto al loro essere proprio che non soddisfano ciò per cui essi sono e quindi trovarsi meno bene nella propria nicchia ecologica. Il “trovarsi bene [o] trovarsi male”93 nel proprio essere è per Spaemann l'indicatore della differenza da sé e gli uomini sono gli unici viventi che sono consapevoli di questa differenza in quanto tale, cioè gli unici esseri che non soltanto la vivono nella propria esperienza, ma che sono in grado di andarvi oltre, di considerarla da una certa distanza, di riflettervi a riguardo e prendere posizione rispetto ad essa. Il dolore per esempio costituisce un'espressione della differenza tra l'essere-per e l'essere di

89 Ivi, p. 19; Persone, p. 13. 90 Ivi, p. 20; Persone, p. 14.

91 SPAEMANN R., Glück und Wohlwollen, cit., p. 112; Felicità e benevolenza, cit., p. 111. 92 Cfr. SPAEMANN R., Personen, cit., p. 21; Persone, cit., p. 14.

fatto, ma, mentre l'animale vi risponde istintivamente in maniera immediata con una strategia di difesa o di riparazione, l'uomo ha la capacità di inframmettersi per così dire tra esso e le proprie risposte istintive, di mediare con la riflessione e assumere risposte diverse, come abbandonarsi consapevolmente alla sofferenza o considerare la stessa come condizione della vita e rigettare in toto la propria esistenza.

L'uomo quindi non solo non è soltanto ciò che è, ma può desiderare di essere diverso da come è e vive un rapporto interiore complesso con la propria non-identità, che lo pone quotidianamente di fronte ad una sfida che è quella del riconoscimento e dell'accettazione di sé, intesa come accettazione di questa differenza nei confronti della quale possiamo porci in maniere diverse.

La differenza inoltre può essere descritta secondo Spaemann sia come un movimento di entrata in se stessi, ciò che indichiamo con il nome di “riflessione”, sia come un movimento inverso, ossia un “uscire da sé”94, ciò che avviene per esempio quando l'uomo parla di sé in terza persona. Parlare di sé in terza persona significa assumere una posizione esterna rispetto a se stessi, da cui in qualche modo il soggetto si auto-oggettiva e auto-relativizza. È soltanto in questa prospettiva che può esistere il linguaggio: utilizzando il linguaggio l'uomo si distanzia dalle sue esternazioni naturali vitali, oggettiva il suo dolore e lo descrive a parole anziché attraverso le grida, che sarebbero invece la risposta soggettiva immediata. “Il

medium della comunicazione qui non è [dunque] affatto qualcosa di naturale”95 – spiega Spaemann – cioè, la lingua non è una risposta istintiva; tuttavia – continua, rifacendosi ancora una volta ad Aristotele96 – “essa è già sempre presupposta, nel momento in cui gli uomini entrano in quell'evento comunicativo attraverso il quale si

94 Ivi, p. 23; Persone, p. 16.

95 Ivi, p. 24; Persone, p. 17. In altra sede, Spaemann scrive inoltre riguardo al linguaggio: “la lingua è il medium diretto dello spirito umano”, per evidenziare come la comunicazione sia un aspetto che attiene all'uomo in quanto dotato di ragione, non in quanto espressione immediata dei propri istinti naturali. SPAEMANN R., Gut und böse, relativ? Über die Allgemeingültigkeit sittlicher

Normen, IBK, Freiburg/Br. 1982 (2. ed.), p. 13.

96 Aristotele ritiene che la razionalità dell'uomo, e quindi la parola e la capacità di vivere in comunità, facciano parte della sua natura, e che quindi siano in lui 'naturali' anche se l'uomo deve prima imparare a svilupparli e anche se in singoli casi possono non manifestarsi. È comunque inscritto nella natura dell'uomo, infatti, secondo la tesi aristotelica, la potenzialità di comunicare e di inserirsi in una società. Cfr. ARISTOTELE, Politica, I, 2, 1253a 2-18, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, Milano 2002, p. 77.

realizzano come ciò che sono, come persone”97.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 138-142)