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La critica al fondamento della morale in Kant e l'evidenza della

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 189-192)

III. L'ESSERE COME PROBLEMA PRATICO: BENEVOLENZA,

1. L'amore come amor benevolentiae e l'etica della riuscita della vita

1.1. Benevolenza come riconoscimento della realtà dell'altro e promozione del

1.1.5. La critica al fondamento della morale in Kant e l'evidenza della

L'amor benevolentiae, ossia, la percezione della realtà in quanto tale è quindi nell'etica di Spaemann il fondamento ultimo dell'agire morale. Questa idea urta però contro la morale kantiana, secondo cui invece alla base della moralità sta indiscutibilmente l'esigenza di imparzialità, come elemento fondativo di ogni altra fondazione. Spaemann lancia a questo proposito una provocazione: se l'uomo non esce dalla sua prospettiva istintiva e si trova bene nell'elementare soddisfazione dei propri bisogni e nella percezione di ciò che gli è utile senza necessità di ulteriori considerazioni, cosa dovrebbe spingerlo a cercare un fondamento del suo agire? Che senso ha parlare di una fondazione ultima se nessuno ha l'interesse né il volere nel riconoscerne il valore e rispettarlo?

Secondo Spaemann dunque l'esigenza di imparzialità, cioè l'esigenza di giustizia, cade nel nulla se si fonda soltanto su se stessa, perché il fatto che essa non venga colta immediatamente da tutti come necessaria annulla la possibilità di una sua

46 Ivi, p. 139; Felicità e benevolenza, p. 137. 47 Ivi, p. 140; Felicità e benevolenza, p. 138.

validità universale. Diversamente accade invece là dove essa si basa a sua volta “su un'evidenza percepita, sull'evidenza della realtà dell'altro e della propria in quanto soggetti e non soltanto oggetti dell'istinto”48. Solamente la scoperta della realtà in sé ci può portare infatti a fondare un'obbligazione morale, in quanto ci spinge fuori dal solipsismo e ci apre alla prospettiva di ciò che non è 'per me', ma 'in sé' e dunque per tutti, universale; allo stesso modo soltanto la percezione degli esseri razionali come verità reali e non come pure ipotesi metafisiche, ci può permettere di dare un oggetto a tale obbligazione morale.

Il quadro della fondazione etica di Spaemann però non è ancora fin qui completo: l'evidenza della realtà dell'altro può risultare ad alcuni meno evidente che ad altri, nella misura in cui ognuno può decidere se accettare o meno determinate ipotesi metafisiche, ed ha quindi bisogno di essere fondata in virtù di una qualche pretesa universale di verità. Il problema di tale fondazione risulta assai complesso perché ogni tentativo di risolverlo, per esempio per via discorsiva, ricade inevitabilmente nel presupposto del riconoscimento reciproco a priori delle persone in quanto tali, che è proprio la pretesa di verità che si vuole fondare.

Spaemann riconosce quanto sia difficile preservare questa evidenza metafisica da ogni forma di dubbio e ricorda a questo proposito la radicalizzazione della potenza dubitativa a cui era giunto il pensiero di Nietzsche. Nietzsche aveva infatti mostrato come il dubbio possa scardinare ogni nostro assioma metafisico e addirittura mettere in questione il senso di ogni espressione linguistica. Tuttavia con questa constatazione egli non intendeva assolutamente rinnegare in toto la metafisica, ma anzi la difendeva, affermando che essere in grado di attentare alla validità di ogni verità non significa che sia bene farlo. La conclusione di Nietzsche in questi termini è condivisa anche da Spaemann, il quale spiega infatti che “la necessità di affermare la realtà dei viventi non deriva da una cogenza teoretica, ma è dello stesso genere dell'evidenza morale”49; nel momento in cui costruiamo un rapporto con una persona, la amiamo e la consideriamo un nostro amico, non possiamo infatti dubitare della sua realtà. La persona che ci sta davanti, che ci parla e che confronta le nostre visioni su di lei con le proprie, rendendoci partecipi del suo essere-sé in una dimensione che

48 Ivi, p. 132; Felicità e benevolenza, p. 130. 49 Ivi, p. 133; Felicità e benevolenza, p. 131.

alla nostra percezione solipsistica rimane invece celata, esiste realmente e assolutamente, è una forma irripetibile di manifestazione dell'Assoluto, che per questo non può essere confusa con il concetto astratto di un essere generale fittizio o sognato. Il dubbio sulla realtà di una persona rompe il nostro rapporto di amicizia con essa, lo nega, dal momento che l'amor amicitiae non ammette alcuna sospensione dell'essere, alcuna esitazione o tentennamento sul suo esserci concreto, ma implica anzi necessariamente “un'affermazione ontologica”50.

Il rapporto di amicizia, nella forma rinnovata che Spaemann ha elaborato partendo dal pensiero di Aristotele, è tuttavia, come abbiamo visto, la forma più elevata di amor benevolentiae e quindi di apertura alla realtà dell'altro; là dove il rapporto tra due persone non possieda l'intensità del rapporto di amicizia, la pretesa morale resta al livello di un postulato metafisico, il postulato del riconoscimento dell'altro come essere-sé, come essere reale. L'accoglienza della dimensione incondizionata della realtà è sempre allo stesso tempo nient'altro che un atto di libertà, come Kant per primo ha affermato, una libertà propria del soggetto concreto, che chiude gli occhi e apre il cuore, lasciandosi trasportare dal movimento trascendente del destarsi della propria ragione. Colui che non vuole aprirsi alla realtà, è sempre libero di non farlo; ciò non priva in alcun modo la realtà del suo esserci e del suo essere reale, ma sospende piuttosto al singolo individuo la possibilità di vederla. Il rifiuto della realtà, per quanto libero, è al contempo paradossalmente il rifiuto della libertà stessa, intesa come quello spazio incondizionato in cui ciò che è viene 'lasciato-essere', cioè viene accolto per come è al di là della nostra percezione soggettiva di esso.

L'accettazione del reale è per Spaemann, in altre parole, un atto di 'fedeltà' da parte dell'uomo in quanto essere razionale, ossia implica l'accoglienza fiduciosa della verità dell'essere e delle parole dell'altro, il fatto che noi crediamo in lui, riconoscendo la dignità della sua persona e provando rispetto per la dimensione assoluta che in lui ci si mostra, che ci viene incontro. Riassumendo in una frase il nodo concettuale più profondo insieme della sua ontologia e della sua etica, Spaemann scrive:

l'uomo è il luogo dell'apparizione dell'essere: il rispetto incondizionato per l'uomo coincide con l'adesione alla realtà51.

Il mostrarsi della realtà all'uomo benevolente, cioè la benevolenza stessa, infine, viene descritto da Spaemann come un dono, “il dono che sta a fondamento di ogni dovere possibile”52; e questo dono, in ultima analisi, non è altro che la felicità, la pienezza del proprio essere, che sentiamo in noi nel momento in cui percepiamo la nostra vita come una 'vita riuscita'.

In queste ultime espressioni si ritrova quindi la sintesi ultima del significato etico che Spaemann riconosce all'amore, ossia la tesi secondo cui l'amore, come spiega Boomgaarden, “non è solo il motivo principale dell'agire morale, bensì anche il suo compimento”53.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 189-192)