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Cosa ci spiega la teoria dell'evoluzione sulla negatività e in che

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 47-51)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

1. Il confronto con la scienza moderna tra scientismo e teoria

1.2. Un dialogo diretto con la teoria dell'evoluzione

1.2.3. Cosa ci spiega la teoria dell'evoluzione sulla negatività e in che

influisce sulla concezione dell'uomo di se stesso?

La domanda che rimane in sospeso alla fine del paragrafo precedente introduce la questione della negatività, nei termini visti sopra di ciò che “non-è”, in rapporto alla quale Spaemann individua quello che secondo lui è lo scacco forse più evidente del modo di ragionare proprio della scienza moderna e in particolare della concezione evolutiva della realtà. La negatività, infatti, non è mai riducibile completamente a spiegazioni funzionali, seppur vi si presti parzialmente. Riprendendo per un attimo il discorso sulla logica bivalente, per esempio, possiamo effettivamente pensare che l'alternativa obbligata di “vero” e “falso” possa essere un

risultato funzionale all'adattamento, perché presenta apparentemente una strada positiva, indice di un buon adattamento (il “vero”), e una negativa, indice di un cattivo adattamento, e quindi di una estinzione prossima (il “falso”). In realtà, però, dal punto di vista della natura “vero” e “falso” sono entrambi segni positivi, dal momento che “ci sono” e la valenza negativa può essere attribuita ad uno dei due solo “da un osservatore vivente che possieda già in sé la dimensione del negativo”48. Per far comprendere meglio la sua posizione Spaemann presenta le tre forme in cui il negativo si manifesta e il ruolo che esse possono assumere in una civiltà evoluzionistica49.

La prima forma della negatività è il dolore. Il dolore può sicuramente essere interpretato in maniera funzionalistica, in quanto il suo manifestarsi ha in sé l'utilità di avvertire il soggetto in cui si manifesta della presenza di un'alterazione di uno stato dell'organismo che bisogna riportare alle sue condizioni normali o di un oggetto pericoloso da cui bisogna tenersi lontani, e quindi favorisce la conservazione della vita e della specie. Colui che lo percepisce, tuttavia, lo interpreta come il negativo, ossia come ciò che non dovrebbe essere, e regola il proprio comportamento di conseguenza. Essendo una realtà ontologicamente diversa da quella del soggetto che lo riscontra nella propria esperienza, il dolore inteso nel significato negativo che gli viene attribuito non può essere ridotto né ad un comportamento di un certo tipo (ciò che invece vorrebbero affermare i behavioristi), né ad uno stato neurofisiologico. Per questi motivi secondo Spaemann il dolore non può essere spiegato esaurientemente in maniera naturalistica, come avviene per qualsiasi cosa noi intendiamo dire quando ci riferiamo ad una realtà aliena.

La seconda forma, o come dice Spaemann, il secondo “livello” in cui il negativo si presenta è la non-identità, il non-io, quindi ciò che comunemente intendiamo per diversità. L'autore riporta in questo contesto un esempio a lui caro, a cui ricorre spesso anche per spiegare, nella sua etica della persona, cosa contraddistingua un'esperienza reale da una non reale: l'esempio della passeggiata sognata con un amico. Se una persona sogna di fare una passeggiata in compagnia di un amico, in un momento successivo potrebbe non ricordarsi se la passeggiata è stata

48 Ivi, p. 61; Natura e ragione, p. 56. 49 Cfr. ibidem.

solo sognata o si è verificata realmente50. Sogno e realtà si fondono spesso nella memoria e non esiste un criterio scientificamente rintracciabile per distinguerli, come un qualche predicato o il grado di intensità dell'esperienza, perché l'esistenza non è un predicato reale e tanto meno è misurabile per gradi. L'unica differenza significativa e anzi assolutamente decisiva è il fatto che nel caso in cui la passeggiata sia reale anche l'amico ne ha fatto esperienza diretta e quindi l'evento non è più vero solo per la prima persona ma anche per la seconda. L'amico viene visto allora in questo caso non solo come altro da me, ma come altro in quanto altro, in sé, cioè come un soggetto che esiste per sé, non solo dal punto di vista di me che lo percepisco, e che anzi può vedere a sua volta me come suo oggetto, ossia può vedermi 'per sé'. Anche questo atto di riconoscimento in cui una persona concepisce l'altro come un 'in sé' e se stesso come un 'per l'altro' può essere interpretato come utile alla sopravvivenza e quindi sottostare ad una visione funzionalistica51. Un riconoscimento che si esaurisce però solo nel mero scopo della conservazione di se stessi o della propria specie risulta per Spaemann altamente limitativo, perché non coglie la dimensione etica e aprioristica più profonda che si cela in questo atto (di cui parlerò in maniera più esaustiva nel terzo capitolo) e perde nel linguaggio evoluzionistico il nocciolo della sua essenza.

Nella sua terza dimensione manifestativa il negativo appare infine come assoluto. In questo caso Spaemann offre una spiegazione più breve del perché anche a questo proposito la descrizione naturalistica sia destinata ad andare incontro al fallimento, mostrando come l'idea di assoluto, pur avendo una funzione positiva per la conservazione della specie umana non sia tuttavia definibile attraverso tale funzionalità: in essa è infatti contenuta la negazione di ogni relatività, e questo carattere totalizzante la fa portatrice di una forma di senso che precede ogni possibile fine, come anche per esempio la sopravvivenza.

L'ultimo aspetto che Spaemann ritiene rilevante per il suo confronto ideologico

50 Ivi, p. 62; Natura e ragione, p. 56. La medesima questione si ritrova per esempio anche in SPAEMANN R., Wirklichkeit als Anthropomorphismus, in NISSING H.-G. (a cura di),

Grundvollzüge der Person. Dimensionen des Menschseins bei Robert Spaemann, Institut zur

Förderung der Glaubenslehre, München 2008, pp. 13-36, oppure in SABANGU P.S., La persona

come paradigma dell’essere. Intervista a Robert Spaemann, “Ideazione”, IX (2), 2003, pp.

217-227.

e personale con la teoria dell'evoluzione riguarda l'influenza che la moderna

Weltanschauung esercita sulla concezione dell'uomo di sé. In primo luogo l'autore

evidenzia in maniera consapevole che il paradigma scientifico dell'evoluzione è in sé neutrale sotto questo punto di vista e che ciò che gli conferisce un'impronta nettamente più perturbante è il suo legarsi ad una determinata interpretazione filosofica quale l'evoluzionismo. D'altronde, commenta Spaemann, se la teoria dell'evoluzione fosse rimasta scevra da qualsiasi corrente di carattere ideologico non si potrebbe capire il movimento di propaganda che cerca tutt'oggi di diffonderne i concetti di base invece che limitarsi a testare la sua efficacia come progetto di ricerca52. Già lo stesso termine di “evoluzione” indica la presenza di uno sviluppo, di una trasformazione che avviene per gradi, per modifiche parziali od esteriori che agiscono sulle proprietà contingenti di qualcosa, ma mantengono identico il suo sostrato. Il significato che ne deriva è che quindi ogni uomo è una forma discendente dei propri genitori, rappresenta uno stato successivo rispetto a loro di uno stesso sostrato omogeneo, sottostante. In prospettiva i singoli individui, ossia le varie modifiche generazionali del sostrato, si susseguono l'uno dopo l'altro in maniera neutra, senza agire l'uno sull'altro, ma presentandosi uno ad uno come istanze singole di fronte alla sfida della natura, ossia di fronte ad un ambiente, per vivere nel quale i caratteri peculiari di ciascun fenotipo saranno adatti in diversa misura.

Ma in una simile idea degli individui di una specie che fine fa la concezione da parte dell'uomo della propria identità e di quella degli altri? Il rapporto che c'è tra un padre e suo figlio, spiega Spaemann, non è quello di due organismi sviluppatisi l'uno dall'altro, “ma quello che c'è tra due individui indipendenti”53, che agiscono l'uno sull'altro in uno scambio reciproco di pareri e di esperienze, dando luogo ad una comunicazione che si sviluppa su vari livelli e che è fondamentale per la crescita dell'uomo stesso in quanto uomo. E in secondo luogo: se nell'idea dell'evoluzionismo generazione e corruzione tendono a venir sussunti sotto il concetto di cambiamento, come si rapporta l'uomo con i temi della nascita e della morte? Per Spaemann, in linea di principio, assimilare i concetti di cambiamento da un lato e di generazione e corruzione dall'altro è scorretto puramente da un punto di vista ontologico: il primo

52 Cfr. ivi, p. 64; Natura e ragione, p. 58. 53 Ivi, p. 68; Natura e ragione, p. 61.

concerne infatti l'essere in un certo modo o in un altro, mentre gli altri due riguardano l'essere e il non-essere di una cosa, il suo esistere o l'aver cessato di esistere. Ora, cessare di esistere non può essere identificato concettualmente come un cambiamento, perché mentre il cambiamento conosce due stadi diversi di una stessa sostanza, una sostanza che cessa di esistere non entra in uno stadio diverso, ma non è più54. Tale visione “ignora la direzione temporale dell'esistenza perché ignora che per l'uomo vivere significa lo stesso che esistere”55.

In ultima istanza, l'evoluzionismo vede solo un continuum che prosegue all'infinito, non concepisce l'esistenza di unità discrete che siano identiche a sé e differenti dagli altri: gli uomini sono scimmie evolute, così come le scimmie sono discendenti a loro volta di primati meno evoluti di loro, e così all'infinito, o meglio, fino alla comparsa delle prime forme di vita, indicazione comunque insoddisfacente per una riflessione sull'uomo e sulla sua identità irripetibile.

Se la comunità degli uomini vuole invece continuare – o tornare, a seconda dei punti di vista – a concepire i propri membri come soggetti unici e liberi e a restituire un senso alla nozione di dignità umana, è necessario secondo Spaemann ricostruire un'ontologia adeguata, che sia in grado – parafrasando una nota espressione di Hegel – di concepire i soggetti come sostanze.

2. Uomo e natura

La domanda “Che cos’è l’uomo?” è di un'altra natura rispetto alla domanda “Che cos’è un fringuello?”. A questa seconda domanda noi rispondiamo elencando le caratteristiche in base alle quali identifichiamo certi uccelli come fringuelli. La domanda su ciò che rende l’uomo uomo non serve invece a classificare gli oggetti, ma, in quanto domanda sull'”essenza”, è parte di un processo storico nel corso del quale gli uomini comprendono se stessi e affermano se stessi di fronte a sfide

54 Cfr. SPAEMANN R., Personen. Versuche über den Unterschied zwischen „etwas” und „jemand”, Klett-Cotta, Stuttgart 1998 (2. ed.), pp. 15-16; Persone. Sulla differenza tra „qualcosa“ e

„qualcuno“, a cura di L. Allodi, Laterza, Bari 2005, pp. 9-10.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 47-51)