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La perdita della nozione di vita

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 99-106)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

3. L'inversione della teleologia

3.3. La perdita della nozione di vita

la consapevolezza di un possibile “essere altro”. La capacità di pensare l'altro permette ad un organismo cosciente di definire in sé identità e non-identità, a cui invece i processi puramente meccanici sono indifferenti, e quindi anche di tendere, in quanto sistema, al proprio mantenimento. Per questo la considerazione di ogni sistema autoconservativo suggerisce sempre, secondo Spaemann, un'interpretazione teleologica157.

Non è dunque la teoria dei sistemi a far derivare da sé il concetto di vita, ma al contrario è la vita umana-cosciente ad essere presupposto per la qualifica del più semplice dei sistemi come sistema.

Un discorso simile si può fare anche in relazione all'informazione: per parlare di informazioni è necessaria l'esistenza di un soggetto delle informazioni, che struttura la materia attraverso le informazioni “come l'eídos struttura la hylê”158. Parlare di informazioni vuol dire secondo Spaemann, quindi, darsi proprio a quell'essenzialismo e a quell'idealismo platonico o hegeliano che la teoria dell'evoluzione non può comprendere in sé e puntualmente rifiuta.

3.3. La perdita della nozione di vita

L'interesse di Spaemann si concentra ulteriormente sulla nozione di vita, che la teoria evolutiva pretende di spiegare secondo lui illusoriamente attraverso un approccio antiteleologico. Comprendere cosa sia veramente la vita è per Spaemann il compito più difficile della nostra epoca e l'impresa a cui la filosofia dovrebbe destinare tutti i suoi sforzi. La scienza cartesiana infatti, introducendo il dualismo di

res cogitans e res extensa, ha distrutto tale nozione, che non può essere ritrovata né

nell'interiorità né nell'esteriorità, perché è antecedente alla loro separazione.

Spaemann prende le mosse ancora una volta dalla definizione “scientifica” di vita che si tramanda nel linguaggio ormai condiviso di molti giornali quotidiani: “un

157 Cfr. ivi, p. 251.

sistema vive, se è capace di evolversi attraverso mutagenesi”159.

La domanda che si pone Spaemann è la seguente: è davvero la definizione che si dà del concetto di vita che ci permette di risolvere il problema della distinzione tra vivente e non vivente o si devono guardare piuttosto i ragionamenti e le riflessioni che a tale definizione conducono? In altri termini, sono i biologi che si adattano alla definizione o è la definizione che viene adattata alle conoscenze dei biologi? Chiaramente la risposta giusta è la seconda e il problema per Spaemann sta proprio nel fatto che i biologi moderni hanno adattato così tante volte la definizione di vita al loro stato di conoscenze, che hanno finito per togliere alla vita la sua vitalità. Ciò che è stato nominalisticamente definito come “vita” non vive più, non ha quasi più nulla a che fare con ciò che originariamente esperivamo della vita e del vivente, cioè con ciò che percepivamo come la “nostra” vita. La nozione di vita non può essere compresa senza la considerazione in prima persona del vivente che la vive. Per questo essa non può essere spiegata solo come un “iperciclo”160, il quale può spiegare soltanto come strutture autoreplicative possano essere comparse sotto determinate condizioni all'interno di un ampio margine di probabilità. Queste strutture sono sì

conditiones sine quibus non, cioè sono certamente necessarie alla vita, ma non sono

esse stesse viventi.

Da queste premesse Spaemann giunge alla conclusione che l'unico criterio sicuro per capire cosa vuol dire vita è il “nostro vivere la vita, la nostra esecuzione di essa” (unser Selbstvollzug des Lebens)161. Dalla nostra esperienza di vita possiamo poi capire la vita degli altri esseri viventi per analogia, anche se questi hanno funzioni diverse dalle nostre. Alla nostra esperienza di esseri viventi appartiene per Spaemann sia l'essere cosciente di questa esperienza, sia la dimensione della moralità: ridurre la vita in noi all'esecuzione dell'organico rappresenta un'astrazione che può essere molto utile dal punto di vista liberamente scientifico-medico, ma noi non dobbiamo dimenticare che la vita ha un valore in sé, e noi non la abbiamo da noi stessi né, al di là della genesi fisica, dai nostri genitori, che non sono più in grado di noi di spiegare come essa sia comparsa.

159 Ivi, p. 255 (trad. it. A.F.). 160 Cfr. ibidem.

La vita è antecedente a qualsiasi nostro ragionamento che la riguardi: noi, infatti, in primo luogo viviamo e poi possiamo definire la vita od operare delle astrazioni su di essa. Ma nessuna operazione in cui ci cimentiamo ci permette di togliere il presupposto della nostra vita cosciente. È proprio per sorvolare questa difficoltà che, secondo Spaemann, la tradizione nominalistica ha cercato di evitare di parlare di “vita” ed è ricorsa piuttosto ad espressioni come “sistemi viventi”, riconoscendo come proprietà basilare per la definizione del vivere o meno di un sistema il “programma genetico”. Una simile definizione risulta per Spaemann totalmente superflua, perché si raggiunge soltanto dopo un'analisi precedente della classe degli oggetti viventi, alla quale si sarebbe arrivati anche senza la precisazione del programma genetico. Naturalmente Spaemann non nega l'indispensabilità del programma genetico come condizione necessaria alla vita, ma ammonisce chi tende confondere le condizioni necessarie all'esistenza di un fenomeno con il fenomeno stesso.

La nozione di vita deve allora, a parere di Spaemann, recuperare quell'interezza con cui veniva compresa già dagli antichi e venir intesa senza astrazioni, per ciò che essa è nel vivente e per il vivente: “vivere viventibus esse”, diceva Aristotele, il che significa che il vivere è proprio dei viventi, è il loro principio, il loro essere, e così l'essere è difficile da definire se non si guarda prima a se stessi, nella propria condizione di vivente162.

Nella vita allora noi non siamo né solo esteriorità né solo interiorità, né estensione né pensiero, ma siamo entrambi allo stesso tempo. L'epoca moderna non è in grado secondo Spaemann di integrare queste due prospettive: essa tiene separati da un lato naturalismo dall'altro spiritualismo, portando a compimento quella che è la dialettica più complessa del nostro tempo, dal momento che presenta due realtà che non si escludono a vicenda, ma si accordano l'una con l'altra perché sanno di poter proseguire parallelamente per la propria strada senza turbarsi vicendevolmente. Nel momento in cui animali e uomini vengono considerati come sistemi meccanici, il

162 La ripresa del tema aristotelico del vivere viventibus esse rappresenta un altro grande nodo concettuale delle riflessioni di Spaemann, che egli riprende sia in ambito metafisico, sia in ambito scientifico, come dimostra per esempio lo scritto Seelen, in HERMANNI F., BUCHHEIM T. (a cura di), Das Leib-Seele-Problem. Antwortversuche aus medizinischnaturwissenschaftlicher,

soggettivismo si trasforma infatti immediatamente in oggettivismo e la dimensione interiore rimane pura apparenza nei confronti di una realtà unica e materiale. La scomparsa della nozione di vita non è dunque figlia di una tendenza di pensiero piuttosto che dell'altra, ma della loro scissione.

La vita come interiorità ed esteriorità coincide inoltre in Spaemann con l'essere della persona, che è vita ancora prima di essere pensiero e anche dopo il pensiero163. Il pensiero non è l'essere dell'uomo ma solo un suo modo di essere, un modo di vivere, ossia un'esperienza. È solo a partire da questa precisazione che Spaemann ritiene possibile, per esempio, discutere sulla differenza tra uomo e computer, contrapponendosi alle teorie del funzionalismo e dei suoi derivati, che, traducendo il pensiero nella capacità di operare calcoli computazionali, lo attribuiscono come capacità anche alle macchine164. La differenza tra uomo e computer relativamente alla facoltà di pensare si situa infatti, secondo Spaemann, su un livello vitale, coscienziale, che non è concepibile sul piano logico: l'uomo sente di pensare, mentre il computer no, perché non vive e un processo non vissuto non dovrebbe secondo il nostro autore meritare il nome di “pensiero”.

163 SABANGU P.S., La persona come paradigma dell’essere. Intervista a Robert Spaemann, cit., p. 220.

164 Il funzionalismo è una delle teorie principali tra quelle sviluppatesi nel '900 nell'ambito delle scienze cognitive e della filosofia della mente. Esso si basa sull'idea che gli eventi mentali sono qualificati da funzioni, ossia da ruoli operazionali o causali, anziché da una specifica costituzione materiale. Parte integrante del funzionalismo così inteso è l'analogia mente-computer, secondo cui la mente, in quanto strumento di manipolazione formale di simboli, starebbe al cervello come il software sta all'hardware. Da ciò segue la conclusione che, se il pensiero è un modo di operare in maniera computazionale, anche una macchina – essendo in grado di calcolare – può pensare. Dal funzionalismo derivano altre teorie di tipo riduzionista, come ad esempio, la teoria rappresentazionale della mente, secondo cui le rappresentazioni sono simboli di un linguaggio interno in cui avvengono i fenomeni mentali umani, o il connessionismo, che spiega la computazione attraverso teorie di calcoli che si applicano alle attività del sistema nervoso.

II.

IL CONTRIBUTO DI SPAEMANN AL CONCETTO DI PERSONA. RAGIONE, VITA, LIBERTÀ E IL PASSAGGIO ALLA SFERA MORALE

L'interesse per il rapporto tra uomo e natura, per l'ontologia della vita umana e per il tema dell'esperienza morale in chiave teleologica conduce Spaemann a quella sua profonda riflessione sul concetto di 'persona' che ha inciso sul panorama culturale tedesco al punto da renderlo una voce assai autorevole nei dibattiti di bioetica odierni.

Partendo dalla definizione classica di Boezio secondo cui “persona est naturae

rationabilis individua substantia”, Spaemann cerca di approfondire i singoli concetti

di natura, ragione e persona, per capire cosa significhi essere persone e soprattutto perché il concetto di persona si sia trasformato da nomen dignitatis a termine di discriminazione1. Nella nostra società l'idea che gli uomini in quanto “persone” appartengano ad una sorta di status ontologico che conferisce ai suoi membri una dignità particolare si è rovesciata nella concezione che la nozione di persona rappresenti una carica sociale che non spetta a tutti e che quindi gli uomini non godano di diritti universali e inviolabili in quanto uomini, ma solo nella misura in cui sono persone. Questa 'scrematura' tra persone e non persone poggia sull'interpretazione della persona comune nel filone del pensiero moderno,

1 Cfr. SPAEMANN R., Personen. Versuche über den Unterschied zwischen „etwas” und „jemand”, Klett-Cotta, Stuttgart 1998 (2. ed.), p. 10; Persone. Sulla differenza tra „qualcosa“ e „qualcuno“, a cura di L. Allodi, Laterza, Bari 2005, p. 4.

affermatosi soprattutto con John Locke e protrattosi poi nel pensiero anglosassone fino alla filosofia analitica contemporanea di Peter Singer e Derek Parfit, che identifica l'essere persona con il possesso e l'utilizzo concreto di specifiche facoltà razionali, come l'autocoscienza o l'intenzionalità. Chi non è in grado di esprimere il proprio sapersi o la propria volontà viene allora estromesso dalla comunità delle persone e così dal riconoscimento di diritti propri, tra cui il diritto alla vita e alla libertà.

La posizione di Spaemann è segnata innanzitutto da un netto distacco rispetto a questa linea di pensiero. Ad una definizione di persona che estranierebbe dalla comunità degli aventi diritto una gamma potenzialmente vastissima di uomini, comprendente embrioni, neonati, malati in stato comatoso, disabili gravi, anziani che hanno perso la propria lucidità mentale e individui affetti da ogni patologia neuronale che privi il soggetto temporaneamente o definitivamente di una concezione di sé nel tempo e nello spazio, il nostro autore allarga infatti l'orizzonte dell'essere persona fino a farlo coincidere perfettamente con la classe degli esseri umani.

L'appartenenza alla specie homo sapiens rappresenta per lui, infatti, l'unico criterio che sfugga all'arbitrarietà di stabilire chi è persona e chi non lo è e richiama allo stesso tempo il carattere 'naturale' dell'essere dell'uomo, cioè il carattere proprio di quella natura specifica che è in grado di autotrascendersi e di oltrepassare la sfera prettamente fisica, corporea, purtuttavia non negandola, ma anzi, completandola ed arricchendola con la dimensione spirituale2. L'essere persona procede di pari passo con l'essere uomo, nasce e muore con esso, dal momento che non esisterebbe alcun criterio sicuro in grado di individuare nel corso della vita umana un momento preciso della comparsa o della scomparsa della 'personalità', né nel primissimo sviluppo embrionale, né nell'infanzia, né nella vecchiaia, e neppure nel nascere o nel progredire di disturbi o handicap che riducono la capacità di un uomo di intendere e di volere.

L'identificazione di uomo e persona, che Spaemann presenta non come punto di arrivo bensì già come punto di partenza della sua riflessione, rispecchia, prima ancora di addentrarsi in una speculazione tecnicamente filosofica, il modo di pensare

che è forse più vicino all'esperienza soggettiva della maggior parte di noi: ogni giorno nella nostra vita quotidiana vediamo infatti diversi uomini e donne con determinati deficit fisici o mentali, che hanno bisogno di essere accompagnati, accuditi o di usufruire di servizi o strutture adeguati alle loro mancanze, e tuttavia non ci viene normalmente spontaneo chiederci se esse sono persone e soprattutto se esse possiedono lo stesso diritto alla vita che abbiamo noi. Allo stesso modo ci relazioniamo con i neonati in una maniera che definiremmo 'normale' tra persone, parliamo con loro e ci preoccupiamo della loro salute, non li vediamo come esseri umani la cui esistenza per qualche motivo ha meno importanza di quella di individui adulti.

Al contrario, appare difficile al nostro pensiero immaginare nella nostra esperienza pratica e sociale una distinzione netta tra uomo e persona: cosa significa essere uomo ma non persona? Nella nostra vita ci siamo mai relazionati ad un uomo che non era persona? E se ci sembra di sì, egli non lo era 'per noi' o non lo era oggettivamente, 'in sé'? Come facciamo a stabilirlo? Da cosa abbiamo percepito il suo non essere persona, cosa abbiamo 'sentito' nel nostro rapporto con lui? Come abbiamo guardato negli occhi un uomo che non è persona? Il suono insolito di queste domande rivela come il separare l'essere persona dall'esistenza di un organismo umano, al di là delle varie teorie che lo giustificano, appaia controintuitivo sia al nostro modo di rapportarci con gli altri che alle nostre espressioni linguistiche. Perché allora la nostra cultura sente l'esigenza di rimettere in discussione concetti apparentemente ovvi e già affrontati, come la definizione di persona?

Questo fatto riflette l'essere in atto di una rivoluzione nel pensiero contemporaneo, conseguente ai continui progressi che si registrano a partire dalla metà del secolo scorso nel campo delle scienze biomediche. L'invenzione delle tecnologie che consentono il mantenimento artificiale in vita di un essere umano, come i respiratori o le macchine per la nutrizione e l'idratazione artificiali, ha infatti introdotto molto rapidamente nella nostra esperienza umana condizioni di vita inedite, situazioni che fino a sessant'anni fa erano impensabili e a cui l'uomo quindi, sia come singolo che come società, non è ancora in grado di rapportarsi in maniera chiara. Le forme di intervento attivo, tecnico, sulla vita umana ci costringono

inevitabilmente a rivedere il significato di quelle rappresentazioni dell'essere dell'uomo che noi prendevamo come paradigma della 'normalità' e vi affiancano nuove possibilità di esistenza che non sono più valutabili alla luce dei criteri classici etici e filosofici e che richiedono una rielaborazione della nostra scala di valori e con essa della nostra concezione di persona e di vita dignitosa.

L'intento di Spaemann è quello di insegnarci a non confondere le nozioni scientifiche avanzate con l'ontologia umana: il fatto che l'embrione consista nei suoi primissimi stadi di sviluppo in un agglomerato di cellule incapaci di atti intenzionali non significa che esso sia una vita priva di dignità, così come un uomo che non risponde a test neurologici che ne esprimono l'autocoscienza non smette per questo di essere persona. La persona nasce e muore con l'esistenza della vita umana, perché ne rappresenta l'essere, la natura autotrascendente che rende ogni uomo fine in sé unico e manifestazione irripetibile dell'Assoluto.

Nel presente capitolo analizzerò le riflessioni che Spaemann dedica al concetto di persona, partendo dall'analogia che egli traccia tra l'essere e la nozione di vita e attraversando la descrizione degli elementi che fanno essere la persona “qualcuno” e non “qualcosa”; il risultato finale svelerà l'indissolubilità di metafisica ed etica, ossia mostrerà che la nostra scoperta 'reale' dell'essere persona si attua solo nella pratica, nella morale, nel darsi vicendevolmente gli uni agli altri, mentre rimane celata nella conoscenza oggettiva delle cose naturali.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 99-106)