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L'inverso della questione: tutte le persone sono uomini?

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 151-154)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

2. Cosa vuol dire “persona”. La differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”

2.3. Tutti gli uomini sono persone?

2.3.5. L'inverso della questione: tutte le persone sono uomini?

Nelle ultimissime righe del suo Personen, Spaemann introduce tuttavia un discorso che rimane ambiguo e che, pur non compromettendo l'essere persona di ogni uomo, sembra mettere in dubbio la restrizione dell'essere persona al genere umano.

Quando egli spiega la differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, ammette infatti la difficoltà nel trovare una collocazione corretta in una di queste due categorie all'essere, per esempio, di un cane. Un cane, infatti, secondo Spaemann, non è qualcuno nel senso di un uomo, ma non possiamo nemmeno dire che sia qualcosa. Un cane o un altro animale domestico, soprattutto agli occhi del suo padrone o di qualcuno che lo conosce bene, presenta degli aspetti che sembrano andare oltre la pura animalità istintiva: riconosce le persone con cui ha maggiori contatti, mostra affetto nei loro confronti, sembra ascoltarle, comprenderle e in diversi casi le aiuta in maniera spontanea, correndo in loro soccorso. Egli si comporta quindi come un membro della famiglia in cui vive e ciò che stupisce maggiormente è che questo

feeling non avviene, come tra i membri umani della famiglia, tra esemplari della

stessa specie, bensì tra specie diverse. Ci si può allora chiedere: è possibile che alcuni esseri viventi non umani siano persone? La domanda non è banale, anzi è già stata posta da altri autori come, nuovamente, Peter Singer116, ed è sicuramente venuta in mente almeno una volta a chiunque abbia una relazione di vicinanza o di amicizia con un cane o un altro animale capace di legarsi in maniera profonda alla specie umana.

Il modo in cui Spaemann risponde a questa domanda non è però soddisfacente, perché lascia la questione aperta e mostra a mio parere come per l'autore non sia in realtà di grande interesse, per lo meno in questa sede, trattare il caso dell'essere degli

animali e appaia di gran lunga più importante invece per prima cosa specificare l'universalità dell'essere persona tra gli uomini. Egli infatti dice: “la specie, a cui attribuiamo l'essere persona, si chiama 'uomo', senza voler escludere con questo che al di fuori degli uomini vi possano essere altre persone”117. E alla fine del libro, in conclusione alla riflessione sui diritti umani, si legge: “i diritti delle persone sono diritti umani. Ma quando si dovessero trovare nell'universo altre specie naturali, viventi e in possesso di un'interiorità capace di sentire e i cui esemplari adulti disponessero di razionalità e autocoscienza, allora dovremmo riconoscere come persone non soltanto coloro che hanno queste qualità ma tutti gli esemplari di questa specie e dunque, forse, per esempio, tutti i delfini”118.

Da un lato sembrerebbe quindi che non esista alcun motivo per cui si dovrebbero escludere le altre specie animali dalla possibilità di essere persone, dall'altro Spaemann appare restio a sancire il passaggio da questa 'possibilità' alla conferma della sua realizzazione: se per lui altri esseri viventi dotati di interiorità, razionalità e autocoscienza possono essere persone, e i delfini sembrano rispondere a questi requisiti, perché allora egli non abbandona la forma del condizionale quando si tratta di riconoscere questi effettivamente come persone? Per Spaemann i delfini sono persone oppure no? Alla domanda diretta postagli da Paulin Sabuy Sabangu in un'intervista Spaemann risponde parimenti in maniera poco chiara, dicendo che pensa di no, ma che “se vi sono in essi delle qualità attraverso le quali si riconoscono le persone, dovremmo smettere di uccidere i delfini”119. La ripresa di questi passi mi sembra senza uscita; come si fa a veder se nei delfini ci sono quelle qualità in cui si riconoscono le persone? Questa domanda è fuorviante perché rischia di far rientrare 'dalla finestra' quell'atteggiamento empirista che Spaemann ha cercato fino ad ora di cacciare dalla porta, ossia la mera valutazione empirica della presenza o meno di certe qualità per il riconoscimento della persona.

La difficoltà credo consista proprio in questo: nelle riflessioni finora riportate è risultato chiaro come il problema della persona sia di fatto un problema etico,

117 Ivi, p.253; Persone, p. 232. 118 Ivi, p. 264, Persone, p. 242.

119 SABANGU P.S., La persona come paradigma dell’essere. Intervista a Robert Spaemann, cit., p. 227.

pratico, e come ciò che caratterizza le persone in quanto tali sia principalmente l'interrelazionalità che le lega tra loro in una comunità originaria, in quello spazio in cui ognuno occupa un posto e che esiste solo in quanto vi sono altri che a loro volta possiedono il loro, ossia lo spazio in cui ha luogo il riconoscimento. Ma questa relazionalità specifica rende l'essere persona un essere che va al di là di quanto possiamo vedere negli animali e che si riferisce propriamente all'uomo, all'umanità: è solo la comunità delle persone 'umane' che ha costruito una propria storia, un proprio mondo e che ha prodotto culture e società. È solo l'essere umano che ha riflettuto su se stesso, sulla propria interiorità e i sui suoi sentimenti e che ha cercato di esprimerla all'altro tramite la letteratura e la poesia; è l'uomo dunque, che ha creato l'arte e il culto religioso, l'esistenza delle quali dimostra la sua partecipazione consapevole dell'eterno e del divino. La capacità di esprimere il proprio Assoluto, la propria incondizionatezza di spirito vanno secondo me ben oltre il possesso di una determinata qualità razionale o autocosciente e costituiscono ciò che caratterizza geneticamente la natura umana e nessun'altra.

Gli animali i cui atteggiamenti o caratteri denotano una capacità di amore e di affetto nei nostri confronti che va oltre il loro istinto materno − che dovrebbe esercitarsi solo nei riguardi degli individui della propria specie o al massimo dei piccoli di altre specie − hanno sicuramente qualcosa di 'personale', e non ha caso li definiamo con sorpresa 'umani', perché mostrano di superare ciò che è loro proprio e di sviluppare una capacità di relazione che solitamente attribuiamo solo all'uomo. Il fatto che noi però ce ne stupiamo indica come una tale profondità di relazione sia inusuale per la loro specie e manifesti in qualche modo una sorta di 'umanizzazione' dell'animale, che non è in esso genetica, ma promossa forse dall'intensità del rapporto creato a partire da coloro che se ne occupano, i quali per primi, se gli vogliono bene, sono chiamati a comportarsi con lui 'umanamente'.

Il fatto di non poter attestare − al di là delle sensazioni soggettive di ognuno di noi − l'essere persona di alcuni animali particolarmente vicini all'uomo, non ci dovrebbe tuttavia permettere di ucciderli senza una giustificazione valida120, per il discorso del Mitsein, dell'essere-con, di cui abbiamo parlato precedentemente in

120 Cfr. SPAEMANN R., Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 89; Natura e ragione, cit., p. 77.

riferimento alla necessità dell'antropomorfismo per la comprensione della realtà. Gli animali, in particolare quelli di cui parliamo, dotati di un certo grado di intenzionalità e di relazionalità, ossia di una certa “altezza nell'essere”121 − come accenna Spaemann nel suo Das Natürliche und das Vernünftige − sono soggetti delle proprie azioni e di una propria forma di interiorità, e soprattutto sono sensibili, capaci di soffrire sia a livello fisico che psicologico. Essi condividono con noi la vita, l'essere del vivente e guardandoli possiamo percepire la loro sofferenza e percepirla con dispiacere, conoscendo personalmente il dolore che essi provano.

Noi che siamo persone e che percepiamo più profondamente di loro la vicinanza con l'altro, il nostro essere-con, dovremmo quindi a maggior ragione rispettarli122 e giudicare indegno da parte nostra il recare loro sofferenza. Se un animale attacca un uomo, lo fa istintivamente, per paura o per fame o per aggressività, ma non compie un atto né ingiusto né cattivo, perché egli non è un essere morale; l'uomo invece ha la capacità di fermarsi di fronte ai propri istinti, di prendere distanza da essi, e paga questo plus nei confronti degli animali con la moralità, la quale non è solo un vantaggio, ma porta con sé il suo onere, che è quello della responsabilità: l'uomo è in grado di compiere il male, di provocare sofferenza senza una giustificazione 'naturale' nel senso di 'istintiva' e questo comporta per lui il dovere di rendersi responsabile davanti a se stesso e all'altro delle proprie azioni anche e soprattutto nei confronti di coloro che non si possono difendere, tra cui conto non solo gli animali, ma l'ambiente stesso e, richiamandomi all'“etica della responsabilità” o “etica del futuro” di Jonas, le generazioni future.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 151-154)