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La riabilitazione del concetto di phýsis

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 56-60)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

2. Uomo e natura

2.1. Natura e natura umana

2.1.2. La riabilitazione del concetto di phýsis

2.1.2. La riabilitazione del concetto di phýsis

Il punto di partenza della proposta risolutiva di Spaemann è il recupero del concetto classico di natura come phýsis e si situa sempre all'interno del progetto della

Rehabilitierung, nel quale alla rinascita esplicita della filosofia pratica di Aristotele è

indissolubilmente connessa anche la ripresa della concezione unitaria di uomo e natura, tipica del pensiero antico.

Quella che si potrebbe definire la pars destruens del programma filosofico di Spaemann è la critica alla contrapposizione odierna di umano e naturale, oggi rinvenibile come luogo comune sia nei discorsi degli scienziati, sia tra i teologi cattolici e facilmente spiegabile appunto come conseguenza più o meno latente di un modo di pensare ancora fortemente cartesiano. Di contro a tale visione Spaemann ricorda come originariamente, ossia nel pensiero antico, la concezione dell'uomo venisse sviluppata all'interno della filosofia naturale, pur senza essere tuttavia una concezione naturalistica, ma anzi riconducendo l'uomo nella sua definizione di

animal rationale ad un rapporto puro con l'Assoluto. La spiegazione di una simile

realtà, che potrebbe apparire alla luce di quanto abbiamo visto finora paradossale, sta semplicemente proprio nell'assenza di alcun paradosso: “naturale” nel pensiero antico non era un concetto da intendere in maniera naturalistica. Il paradosso, se vogliamo trovarne uno, sta piuttosto nel passaggio tra questa visione e quella moderna, nel cui caso – viste le posizioni addirittura contrapposte – è maggiormente appropriato parlare di un vero e proprio 'salto'.

Per Aristotele infatti la natura “è precisamente ciò che si distingue dalla pura esteriorità”66. La phýsis, parola greca che effettivamente nella traduzione delle lingue moderne in “natura”, “Natur” o “nature” ha come spesso succede sacrificato parte

65 Ivi, p. 20; Natura e ragione, p. 25. 66 Ivi, p. 21; Natura e ragione, p. 25.

della sua ricchezza concettuale, non indica nell'antichità l'ambiente circostante, o i regni vegetale e animale, ma proprio quello che noi oggi indichiamo con il termine di “soggettività assoluta”, nel senso di un soggetto agente che non dipende nella sua attività da null'altro da sé, perché ha in sé il proprio principio d'essere, il proprio inizio. Natura, per gli antichi, corrisponde quindi a ciò che Kant parlando della libertà trascendentale nella sua Critica della Ragion Pura chiama “spontaneità assoluta”67.

Spaemann sottolinea subito come una tale concezione di natura non sia comprensibile se non da un punto di vista antropomorfico: se noi uomini possiamo capire cosa significhi per la natura avere in sé il proprio principio, è solo perché noi stessi ci riconosciamo come portatori di tale principio, cioè perché noi stessi siamo un sé capace di un inizio assolutamente spontaneo. Ciò significa che nella filosofia greca proprio l'uomo è preso a paradigma di ciò che vive ed esiste “per natura” (phýsei).

Ed è proprio in questo antropomorfismo che Spaemann vede il punto di rottura tra il pensiero antico e moderno. Per i moderni qualsiasi visione antropomorfa della natura è irreale e perfino dissacrante, perché l'idea che ciò che è stato creato si autodetermini liberamente e spontaneamente al di fuori del Creatore appare un'usurpazione della facoltà divina, soprattutto agli occhi dei teologi del sedicesimo secolo, per i quali la Creazione era vista come la costruzione di una macchina determinata in ogni sua singola struttura dalla volontà di Dio. Inoltre l'antropomorfismo attribuisce a tutte le cose una finalità interna, un essere in sé, offrendo un'interpretazione della realtà che risulta inaccettabile da parte degli empiristi, i quali al contrario descrivono tutto ciò che esiste soltanto sulla base di ciò che si può oggettivamente osservare tramite la percezione sensibile68.

67 KANT I.,Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1967, p. 382.

68 Gli empiristi, infatti, ritengono che l'uomo nella sua interpretazione sul mondo non debba mai andare oltre ciò che può esperire direttamente tramite gli strumenti della sua conoscenza sensibile. David Hume scrive per esempio: “è pur sempre certo che non possiamo mai spingerci oltre l'esperienza” (HUME D., Trattato sulla natura umana, trad. it. P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, p. 21). A questo proposito ricordo anche la posizione radicale dell'empirista George Berkeley, secondo il quale non esiste nient'altro al di là di ciò che viene percepito (esse est percipi) e quindi non esiste realtà al di fuori di quella che noi vediamo, tocchiamo o sentiamo. Cfr. BERKELEY G., Trattato sui principi della conoscenza umana, trad. it. M.M. Rossi, Laterza, Roma 1984, pp. 33-34: “Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti quei corpi che formano l’enorme

Rifiutare in toto la visione antropomorfica è però per Spaemann controintuitivo e conduce ad un atteggiamento che a lungo andare si autocontraddice. In Ende der

Modernität, Spaemann spiega infatti che, là dove si abbandona l'antropomorfismo e

si ricorre di contro all'antropocentrismo, l'interesse per l'utilizzo spietato di tutto ciò che esiste in favore dell'uomo finisce per rivoltarsi contro l'uomo stesso, e ridurre anche lui ad elemento naturale, cioè analizzabile e disponibile per altri scopi, allo stesso livello della natura. La scienza della natura – cioè – in quanto sapere per il dominio, resta indifferente di fronte alla distinzione tra uomo e natura69. Come conseguenza di ciò, l'uomo perde la propria dignità perché acquisisce solamente un valore euristico, al punto che anche “il parlare dell'uomo in quanto tale finisce per apparire come una caduta nell'antropomorfismo”70. La visione antropomorfa ritorna dunque proprio come effetto della estremizzazione del suo divieto, ponendo il metodo scientifico moderno in una situazione di autocontraddittorietà. Da queste considerazioni Spaemann trarrà la conclusione della ineliminabilità e anzi della necessità assoluta dell'antropomorfismo per la comprensione della realtà, di cui parlerò nel secondo capitolo71.

Tornando al discorso sulla concezione antica della natura, il concetto teleologico di phýsis è quindi, secondo Spaemann, l'unico in grado di preservare sia l'uomo che la natura da un atteggiamento riduzionista che li considererebbe entrambi come puri mezzi al servizio di progetti di dominio arbitrari; la sua profondità di significato permette infatti di intendere ogni essere naturale non come pura materia né come soggettività astratta, bensì come principio concreto del proprio essere e del proprio agire, come capacità di svilupparsi da sé secondo una forma di libertà, che, come direbbe Spinoza, coincide con la “necessità” della sua natura72.

Alla luce della diversità concettuale tra antichi e moderni riguardo alla

impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finché non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente né in quella di qualunque altro spirito creato, non esistono affatto”.

69 Cfr. SPAEMANN R., Ende der Modernität, in Philosophische Essays, cit., pp. 232-260, qui p. 237.

70 SPAEMANN R., Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 102; Natura e ragione, cit., p. 88. 71 Cfr. sotto, Cap. II, Par. 1.3.3.

72 Cfr. SPINOZA B., Etica I, Def. VII, a cura di G. Gentile, G. Durante e G. Radetti, Bompiani,

concezione della natura, Spaemann risolve anche la contrapposizione estemporanea tra Rousseau e Aristotele sulla natura dell'uomo. Mentre per Aristotele l'uomo è “per natura” un essere politico e dotato di linguaggio, Rousseau interpreta la costruzione di legami socio-normativi e comunicativi da parte dell'uomo come fattori “positivi”, non naturali, in quanto derivanti da una convenzione originaria, che ha fatto uscire l'uomo dal suo stato di natura, caratterizzato dalla totale assenza di legami e da una ricerca primitiva del necessario per la sopravvivenza73. La vita in società, quindi, rappresenta per Rousseau una situazione extra-naturale, in cui l'uomo si è sviluppato qualitativamente dal punto di vista culturale, politico e professionale, al prezzo però della propria libertà74.

Spaemann ci fa notare come la lettura di Rousseau si trovi in realtà perfettamente in linea con la concezione che abbiamo oggi del termine natura: linguaggio e politica non sono effettivamente qualcosa di “naturale”75. Una persona non comincia da sé a parlare, ma lo impara dagli altri, così come non crea da sé in maniera naturale un'organizzazione comunitaria istituzionale come quella della polis, ma si unisce ad altri suoi simili al massimo in forme aggregative più semplici, come le tribù. La lingua e la strutturazione di uno stato sono rette da regole che nascono in maniera convenzionale dall'accordo di più uomini e si dicono per questo “positive”, cioè poste dall'esterno, non emerse spontaneamente come facoltà innate del singolo individuo. In questo modo però Rousseau pretende di considerare la natura 'pura', cioè isolata dallo sviluppo storico che l'uomo – inteso come umanità – ha comunque vissuto e nel quale tuttora si forma ed è se stesso. Quindi la sua concezione dell'uomo naturale è ancora poveramente naturalistica, perché si limita a quegli aspetti puramente animali del vivere umano, come appunto la soddisfazione dei bisogni fisiologici e la lotta primitiva per la sopravvivenza, mentre designa come anti-naturale, positivo, artificioso, tutto ciò che riguarda la storia, la società, la cultura, la comunicazione, l'arte, la religione; in una parola: la ragione.

Aristotele invece non tralascia mai l'aspetto “razionale” dell'uomo, pur

73 Cfr. SPAEMANN R., Rousseau. Bürger ohne Vaterland. Von der Polis zur Natur, Piper, München – Zürich 1980.

74 Cfr. ROUSSEAU J.J., Il contratto sociale, trad. it. R. Carifi, Mondadori, Milano 1997, p. 24: “L'uomo è nato libero, e ovunque è in catene”.

riconoscendolo membro del regno animale, e questo significa che la ragione è parte essenziale della sua natura, la sua specificità propria, non un qualcosa che vi si contrappone. E la ragione è essenzialmente storica. Il processo di astrazione di tutte le componenti che sono “secondo ragione” (vernünftig)76 dalla natura dell'uomo non può essere allora che fittizio, perché toglie alla descrizione dell'uomo una dimensione fuori dalla quale egli, come lo intendiamo nella sua interezza, non è concepibile.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 56-60)