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La persistenza del dualismo e la comparsa del “soprannaturale”

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 60-63)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

2. Uomo e natura

2.1. Natura e natura umana

2.1.3. La persistenza del dualismo e la comparsa del “soprannaturale”

Nella sua presentazione Spaemann non vuole tuttavia condannare totalmente la visione di Rousseau in favore di un'accettazione senza resto della definizione aristotelica dell'uomo, ma analizza criticamente entrambi i punti di vista, giustificandoli alla luce del contesto storico-culturale in cui sono nati e rilevando allo stesso tempo in essi delle difficoltà.

Partiamo da Rousseau: il dualismo che troviamo in Rousseau manifesta quella che Spaemann definisce la “doppia verità dell'antropologia moderna”77. Questa definizione mi sembra lasci intendere che quanto emerge dall'atteggiamento dicotomico dell'epoca moderna non sia del tutto sbagliato, ma rappresenti semplicemente un modo scorretto di coniugare due aspetti riguardanti l'essere dell'uomo che andrebbero invece interpretati nel loro rapporto reciproco in modo diverso. Persona e natura sono comprensibilmente due realtà tra loro incommensurabili, se vengono valutate a posteriori una a fianco all'altra, come fattori tra loro indipendenti. Quando Spaemann ricostruisce il modo in cui Rousseau descrive la fuoriuscita dell'uomo dalla natura che dà inizio al processo di

76 Il termine tedesco “vernünftig”è sempre difficile da tradurre in italiano in una sola parola, perché con la parola “razionale” si rischia di indicare specificamente il carattere matematico, ordinato, che si contrappone al “passionale” o anche al “sentimentale”, mentre l'aggettivo “ragionevole” viene usato solitamente per indicare “ciò che appare opportuno” o “moderato”, relativamente soprattutto all'ambito pratico. Questo del resto è anche il motivo per cui Tuninetti nella traduzione del titolo

Das Natürliche und das Vernünftige ha preferito utilizzare i sostantivi corrispondenti “natura” e

“ragione”. Quello che intende Spaemann con “vernünftig” è perciò più vicino in italiano a ciò che si esprime con la perifrasi ”secondo ragione” o “ciò che l'uomo fa in virtù della ragione”.

77 SPAEMANN R., Das Natürliche und das Vernünftige, cit., p. 26; Natura e ragione, cit., p. 29 (corsivo A.F., in Spaemann virgolettato).

umanizzazione della storia, concorda con lui sul fatto che le condizioni di possibilità di questa fuoriuscita debbano trovarsi in qualche modo all'interno della natura umana stessa, in particolare sotto forma di quella qualità che Rousseau chiama “perfectibilitè”. Tuttavia, mentre Spaemann sarebbe portato ad intendere questo termine secondo il suo significato letterale e quindi in senso teleologico, Rousseau lo utilizza per indicare semplicemente la presenza nell'uomo di “un'apertura istintuale”78, ossia di una libertà soltanto negativa, che rende possibile – ma non necessario – uno sviluppo in senso storico, il quale accade – se accade – per motivi casuali. Il fatto che sia solo un carattere di contingenza a permettere il passaggio da una dimensione all'altra fa cadere miseramente l'idea che possa esistere un legame forte tra storia e natura e presenta le due alternative in un rapporto di alienazione dell'una dall'altra.

Passiamo allora alla seconda posizione: come abbiamo visto, per Aristotele nella natura umana è già compreso lo sviluppo storico dell'uomo, e il fatto che per sviluppare le sue capacità comunicative e sociali egli abbia bisogno degli altri non è altro che una conferma del carattere comunitario del suo essere più proprio. A questo proposito Spaemann cita più volte l'affermazione aristotelica sull'amicizia per cui “le cose che avvengono tramite gli amici in qualche modo avvengono per mezzo nostro: infatti il principio è in noi”79. Dopo averci affidati ad Aristotele come rifugio contro il dualismo che vede incompatibili natura e storia, o natura e ragione, Spaemann ci mette però in guardia da un'altra dicotomia che si cela secondo lui dietro la descrizione stessa che Aristotele fa dell'uomo come animal rationale. L'essere dell'uomo si trova infatti secondo Aristotele interamente nella natura, l'anima non è separata dal corpo, ma ne costituisce la “forma” in senso concreto80, in un'unità organica che funziona solo in quanto intero. Ma in questi termini l'uomo è mortale, finito, può essere compreso solo all'interno del mondo. L'elemento che permette all'essere umano di partecipare del divino è invece il noũs poietikόs, l'intelletto attivo

78 Ibidem.

79 ARISTOTELE, Ethica Nicomachea III, 3, 1112b 27-28, a cura di C. Natali, Laterza, Roma – Bari 2003, p. 91.

80 Nota bene: “forma”, dicevano gli scolastici, è ciò che “dat esse rei”, cioè ciò che fa essere le cose, quindi un principio ontologico, non solo un'apparenza esteriore, come si intende invece oggi nella maggior parte dei contesti il termine 'forma'.

e produttivo, che non è contenuto nell'anima ma che l'uomo riceve “dall'esterno” (thýrathen)81. Abbiamo in questo modo un nuovo dualismo.

Spaemann riconosce i tentativi più degni di nota di combattere questa dualità nella filosofia di Tommaso d'Aquino, uno dei pensatori di cui si sente debitore. Tommaso nega che il noũs poietikόs sia in tutto e per tutto una sostanza separata dall'uomo e giustifica la sua teoria avvalendosi dell'argomentazione della compiutezza della natura umana: “natura non deficit in necessariis”82. Se l'intelletto attivo fosse separato dall'uomo – dice Tommaso – l'uomo sarebbe manchevole di qualcosa, mentre la compiutezza della sua natura esige che egli abbia in sé o sia in grado di procurarsi tutto ciò che gli è necessario. L'obiezione a questa risposta è evidente: perché allora l'uomo per sua natura non può raggiungere l'eudaimonía, la felicità, che è il suo fine ultimo e più necessario? Tommaso riutilizza nuovamente l'argomento di prima per spiegare che nell'uomo la natura ha provveduto anche a questo, perché gli ha dato il libero arbitrio, con cui può convertirsi a Dio e ricevere da lui la forma più alta di felicità umana, cioè la beatitudo.

Il problema nella tradizione cristiana introduce quindi inevitabilmente la sfera del “soprannaturale” e riprende in considerazione la nozione di “autotrascendenza” della natura umana, un'idea già nota presso gli antichi, che riconosceva nell'uomo la presenza di una pulsione verso l'infinito, verso Dio, come luogo della piena realizzazione di sé. In questo senso la dimensione naturale e soprannaturale non vengono concepite in forte contrapposizione l'una con l'altra, perché rappresentano piuttosto l'una il completamento ultimo dell'altra, grazie ad un movimento che è già inscritto nella costituzione teleologica della natura e che produce nell'uomo qualcosa che è di più di se stessa, qualcosa di “più nobile” – nobilior – come dirà Tommaso. Già in Aristotele appare chiaro che la partecipazione del divino (in greco méthexis) è in realtà il fine di tutti gli enti, in vista del quale essi si muovono e agiscono nella misura in cui la propria natura permette loro. L'uomo però è l'unico ente in grado di riconoscere questo fine come proprio e quindi di portare la propria natura alla più vera manifestazione di sé, perché solo in lui questo “tendere-a” insito tacitamente in

81 ARISTOTELE, De generatione animalium, B, 3, 736b 27-29, a cura di H.J. Drossaart Lulofs, Oxford University Press, Oxford 1972, p. 61.

ogni natura si rivela esplicitamente come “libero volere e libero riconoscimento di un motivo e di un fine non posti da sé”83.

2.1.4. L'autotrascendenza in senso teleologico come unica fuoriuscita dal dualismo

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 60-63)