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La persona nei bambini piccoli. L'essere persone non è una

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 145-148)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

2. Cosa vuol dire “persona”. La differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”

2.3. Tutti gli uomini sono persone?

2.3.2. La persona nei bambini piccoli. L'essere persone non è una

La seconda e la quinta argomentazione di Spaemann rivendicano unitamente l'essere persona di ogni bambino a qualsiasi stadio del suo sviluppo e anzi già al momento del suo concepimento, di contro al pensiero diffuso tra gli empiristi,

102 Cfr. sopra, Cap. I, Par. 2.2.2., nota 104.

secondo cui embrioni, feti e neonati sono soltanto 'persone potenziali', che possono, ma non devono necessariamente attuarsi come persone a tutti gli effetti.

Secondo Spaemann “non esistono persone potenziali”104: l'essere persona non è una potenzialità che si può sviluppare fino a diventare effettiva; essa c'è o non c'è, perché, come abbiamo già visto, non esiste il passaggio da “qualcosa” a “qualcuno”, perciò, se la persona è qualcuno (e per Spaemann lo è) non può essere prima qualcosa. La persona si sviluppa, certo, fisicamente e mentalmente e ha delle potenzialità, cioè delle capacità che può con il tempo imparare a mettere in atto, tra cui per esempio l'intenzionalità; ma ogni suo sviluppo in questo senso presuppone già la persona stessa, perché essa è il soggetto di tali capacità, quel 'qualcuno' che le può realizzare. Non vi può essere un'intenzionalità potenziale se non c'è già una persona reale che può attuarla. Ciò non significa che essa debba effettivamente essere in grado di attuarla: alcune persone possono essere debilitate, non riuscire a sviluppare o realizzare una determinata potenzialità, ma non smettono per questo di essere tali; esse infatti prima di tutto sono, e il loro essere è essenzialmente l'essere di 'qualcuno'. La persona è dunque, nei termini aristotelici, prote energeia, sostanza prima; essa è la struttura che sottostà ad ogni mutamento del suo corpo, della sua mente e della sua interiorità, ma non il risultato di tali mutamenti. La persona è ciò che rimane al di là di tutti gli sviluppi che pure la riguardano e la coinvolgono: essa può crescere e diventare adulta, può invecchiare, può ammalarsi, può perdere coscienza, riacquistarla, cambiare il suo modo di pensare, di comportarsi e tuttavia è sempre se stessa ed è sempre una persona.

Il concetto di “persone potenziali” è vuoto, privo di senso, perché “il concetto di potenzialità in generale può sorgere soltanto nel presupposto della personalità”105, cioè di un qualcuno che è la condizione stessa e il luogo del loro realizzarsi; a ciò che è puramente possibile manca la condizione della sua realizzabilità, ed è per questo impossibile, mentre quando sono date tutte le condizioni esso è possibile, e a quel punto è reale. La condizione di possibilità della persona coincide quindi con il suo esserci stesso, ed essa è perciò sempre reale, non potenziale.

Lo sviluppo nella persona di quei caratteri che definiamo “personali” (sono i

104 Ivi, p. 261; Persone, p. 239. 105 Ivi, p. 262; Persone, p. 239.

caratteri ad essere definiti personali, non la persona ad essere definita in base ai suoi caratteri!) avviene nel migliore dei modi proprio se essa è riconosciuta e trattata come tale. Questo concetto risulta chiaro leggendo le riflessioni di Spaemann sul rapporto della madre con il suo bambino. Nella 'normalità', ogni madre si rivolge infatti al neonato come ci si rivolge a “qualcuno”, parlando 'a lui' – direttamente – e dandogli del “tu”. Non parla di una cosa da cui si svilupperà una persona; nemmeno si rivolge al figlio una volta grande dicendo frasi come: “portavo in grembo un organismo che poi sei diventato tu”, ma gli dice piuttosto: “ero incinta di te”106. Ed è proprio perché la madre parla direttamente al bambino, che il bambino impara a parlare, impara ad afferrare le parole, a comprenderne il significato e si sente chiamato piano piano a rispondere, a farsi coinvolgere da questo evento comunicativo, di cui fa già originariamente parte in quanto persona. Addirittura viene spesso naturale alla madre – o a chi per lei – 'regredire' nel dialogo con il bambino ad uno stadio relazionale infantile, abbassarsi al livello linguistico e comportamentale dell'altro per porsi sullo stesso piano e facilitare la reciprocità del rapporto.

Il fatto di parlare a qualcuno sapendo che egli non può ancora comprendere tutto ciò che diciamo e che non risponderà a tono alle nostre domande non ha però in sé qualcosa di falso, di costruito107, non è come parlare ad un oggetto; noi parliamo ad un neonato ed instauriamo con lui un rapporto umano, ciò che vediamo in lui non è un qualcosa che noi dobbiamo provocare perché esso si formi fino a diventare persona, ma già una persona che ci ascolta e con cui vogliamo comunicare. Sicuramente noi lo incoraggiamo e lo sproniamo a parlare perché egli sviluppi le sue capacità, ma questo nostro impegno pedagogico e didattico è successivo al nostro relazionarci 'personalmente' con lui e ha senso solo dietro al presupposto del suo essere persona.

Secondo Spaemann, dunque, “è soltanto perché il bambino viene trattato già come una persona che diventa ciò che egli era fin da principio e quale fin da principio era stato considerato. Chi divide l'essere persona dell'uomo dal suo essere un organismo vivente recide il vincolo dell'interpersonalità all'interno della quale

106 Cfr. SPAEMANN R., Quando l'uomo inizia ad essere persona?, cit., p. 302. 107 Cfr. SPAEMANN R., Personen, cit., p. 256; Persone, cit., p. 235.

soltanto le persone diventano ciò che sono”108.

Anche in relazione al processo di formazione delle proprie facoltà da parte di una persona è quindi essenziale l'elemento della pluralità, dell'interrelazionalità, l'essere persona in mezzo ad altre persone, l'occupare già originariamente un posto in nella comunità delle persone, che costituiscono concretamente l'umanità.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 145-148)