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Ragione e vita

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 111-122)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

1. Ragione, vita e realtà. La vita cosciente come paradigma dell'essere

1.2. Ragione e vita

1.2.1. La ragione come “forma della vita”

Anche nei confronti della vita la ragione sembra porsi inizialmente in un rapporto di contrapposizione, di antagonismo. Mentre la vita nasce e si sviluppa nella natura, la ragione sembra infatti provenire da una sfera soprannaturale, di origine divina, che permette appunto all'uomo di elevarsi al di sopra degli altri esseri viventi.

Spaemann prende le mosse dal pensiero di Aristotele, ricostruendo la storia di questo rapporto nei termini del dualismo antico di anima e spirito. L'anima è infatti per Aristotele il principio della vita, la forma dei viventi e quando egli la definisce come il fine degli esseri viventi, intende dire proprio che essi aspirano a perdurare nell'esistenza, cioè alla propria autoconservazione. Ciò che distingue gli uomini dagli altri animali è invece la razionalità, l'intelletto, che non può essere già presente nell'anima, ma deve evidentemente avere una provenienza 'esterna' (thýrathen)17.

Come abbiamo già visto nel primo capitolo, Tommaso d'Aquino cerca di risolvere questo dualismo ricomprendendo lo spirito come interno e descrivendo l'anima come sinonimo sia della vita che dello spirito. Spaemann recupera nella

223.

propria riflessione questa provenienza 'interna' della ragione, riconoscendole poi la capacità di trascendere la vita per ricomprenderla da una prospettiva ulteriore. Così come l'anima aristotelica è la forma del corpo, la ragione è per lui la “forma di un organismo vivente”18, cioè la forma della vita. Ma cosa vuol dire trascendere la vita, da cui pure si proviene?

Certo anche la ragione possiede di fatto un suo motivo d'essere nella natura prettamente 'genetica' dell'uomo, cioè un suo ruolo pratico al pari di altre caratteristiche specifiche di ogni essere vivente: come ciascun animale possiede determinate proprietà fisiche che gli permettono di difendersi dai predatori o al contrario di essere particolarmente abile nella caccia, l'uomo è dotato della ragione, grazie alla quale può ideare le proprie armi di attacco o di difesa o pensare a come relazionarsi con i suoi simili o con gli altri esseri. Nel caso della ragione, però, a differenza che nelle altre facoltà o proprietà animali, la sua origine si distingue secondo Spaemann dalla sua validità19.

Spaemann spiega questa differenza tracciando un'analogia con la concezione dello Stato di Platone e Aristotele: per i due filosofi antichi lo Stato nasce in vista delle necessità della vita e ha ivi quindi la sua origine; poi però volge la sua esistenza alla vita felice, cioè esercita la sua validità per un fine che va oltre la propria origine. Similmente accade per la ragione: essa compare sì nell'uomo come mezzo per la sopravvivenza, ed appare quindi nella sua origine come una caratteristica genetica, ma poi la sua validità supera la dimensione naturale in senso stretto e va oltre la prospettiva dell'essere vivente, aprendosi a quella dell'incondizionato, mediante la riflessione. A differenza degli altri animali, l'uomo può infatti riflettere sul carattere condizionato dei suoi istinti e nel momento in cui lo fa si accorge di essere già oltre essi, perché è solo da una posizione incondizionata che è possibile cogliere il carattere condizionato delle cose20.

18 SPAEMANN R., Glück und Wohlwollen. Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1990 (2. ed.), p. 117; Felicità e benevolenza, trad. it. M. Amori, Vita e pensiero, Milano 1998, p. 115.

19 Cfr. SABANGU P.S., Persona, natura e ragione, cit., p. 110.

20 Similmente si legge in Hegel del carattere infinito della ragione: la ragione che si sa come finita è in realtà infinita, perché nel momento in cui riesce a vedersi come tale è già fuoriuscita dalla sua finitezza e ha raggiunto l'infinito. Al contrario le scienze davvero finite non riescono a cogliere la propria finitudine perché vi sono invischiate e non godono di quella distanza dal finito che è necessaria per poterlo riconoscere. Per questo la filosofia viene definita da Hegel nell'Enciclopedia

Il superamento nei confronti della vita non è però un'alienazione, ma piuttosto quella che Spaemann chiama “quell'eccesso della ragione (Überschuß an Vernunft) che in nessun modo si lascia interpretare in modo appropriato a partire da una prospettiva strumentale”21. La ragione quindi eccede la vita naturale, ma non se ne distacca completamente, perché la presuppone, dal momento che comunque ha nell'uomo una forma finita e dipende dalla ricettività, che a sua volta presuppone un rapporto causale, non concettuale, con l'altro, un rapporto cioè che si realizza nella non-coscienza. “La ragione finita − dice Spaemann − non è sostanza ma un accadimento, è il divenire-sostanziale di un processo organico”22 e riprende in questa sentenza la concezione della monadologia leibniziana, che, in accordo con l'angelologia medievale, riteneva impossibile pensare la ricettività come connessa ad una coscienza pura, cioè una coscienza che non si concepisse come forma di un organismo vivente.

1.2.2. L'analogia con la vita cosciente

L'istintualità, la vita non cosciente, l'anima per Aristotele, è dunque l'elemento di somiglianza dell'uomo con gli altri esseri viventi, mentre la ragione, la vita cosciente, è la novità, l'elemento di 'eccedenza' che tuttavia non sopprime la somiglianza, ma la mantiene come presupposto del suo superamento23. L'uscita dall'autoreferenzialità tipica del vivente, dalla sua prospettiva centrata su se stessa e dall'istinto non porta all'annullamento di questi caratteri e quindi all'annullamento della vita, ma al contrario alla loro scoperta e al loro riconoscimento24. La vita non cosciente si può concepire come vita, infatti, secondo Spaemann, solo attraverso l'analogia con la vita cosciente, così come l'ente non vivente si può concepire come 'essente' solo in analogia con il vivente, ossia riconoscendogli una phýsis come

della libertà”. Cfr. HEGEL G.W.F., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio

(Heidelberg 1817) Par. 5, a cura di F. Biasutti et al. , Verifiche, Trento 1987, p. 14.

21 SPAEMANN R., Glück und Wohlwollen, cit., p. 112; Felicità e benevolenza, cit., p. 111. 22 Ivi, p.117; Felicità e benevolenza, cit., p. 116.

23 Mi sembra doveroso – anche se quasi superfluo – di fronte a questo passaggio concettuale riconoscere nel pensiero di Spaemann una forte influenza hegeliana.

principio teleologico interno di un movimento specifico. “L'essere è un derivato della vita – si legge nel capitolo sulla trascendenza in Personen, e dopo poche righe segue l'affermazione – vita cosciente è pienezza dell'essere”25.

La metafisica della triplice analogia di essere-vita-pensiero, come tre momenti della realtà, è propria della filosofia di Platone e si protrae poi nella tradizione platonica fino a Plotino. Essa permette di comprendere come il pensiero sia solo un modo di essere, non coincida con l'essere e rappresenti quindi la sfera della possibilità di contro alla realtà. L'essere a sua volta può essere reale solo se è di volta in volta determinato come essere-così, come essere concreto, e l'esistenza di un essere-così è il significato della vita. La vita è non è una forma, ma un accadere unico, un evento che come tale non può essere o non essere, perché essa è essere.

Il passaggio dal pensiero all'essere è quindi fondamentale per comprendere la vita: “qui non intelligit non perfecte vivit” dice Tommaso d'Aquino, e Spaemann vi aggiunge: “qui non vivit non perfecte existit”26, indicando come la vita esista soltanto come essere di un determinato vivente, come attualizzazione di un modo possibile di essere, ossia come vita vissuta.

Nell'epoca moderna l'analogia di essere, vita e pensiero è andata disgregandosi con la concezione dualistica di Cartesio. Per lui il pensiero e l'essere come clarae et

distinctae perceptiones sono marcate dall'univocità e il loro passaggio non può essere

garantito quindi se non da Dio, che toglie il dubbio iperbolico. La realtà è allora solo interiorità ed esteriorità, e in questo quadro ontologico la nozione di vita non trova più il suo spazio. Soltanto l'accezione della ragione come 'forma della vita' è quindi adeguata al fine spaemanniano di presentare il destarsi della ragione come un destarsi della realtà, perché ci trasmette un modo di interpretare la vita che ne preserva l'unitarietà, in cui solo essa può esistere in quanto tale, cioè in quanto 'vivente'. La pienezza della realtà e il suo essere in sé e raggiungibile inoltre solo dalla ragione, ossia attraverso un atto di autotrascendenza da parte della natura umana, che coglie così se stessa e le altre nature nella loro verità.

Gli enti non viventi e gli esseri viventi non razionali, hanno bisogno quindi secondo Spaemann, per essere colti nella loro realtà vera, di essere concepiti secondo

25 SPAEMANN R., Personen, cit., p. 80; Persone, cit., p. 70. 26 Ibidem.

l'analogia della vita cosciente, il che significa per Spaemann ritornare ad una visione antropomorfica. Solamente l'antropomorfismo ci permette infatti di capire la vita non cosciente a partire dalla nostra, senza privarla purtuttavia del suo carattere 'non-umano'.

Nel paragrafo successivo mostrerò dunque perché Spaemann difende l' antropomorfismo, tanto osteggiato dalla cultura moderna e illuminista, e perché secondo lui un ritorno a tale visione sia in realtà non solo la strada più appropriata, bensì, addirittura, quella necessaria per salvare il concetto di vita e poter cogliere nel suo aspetto più concreto l'essere vero, il reale (das Wirkliche).

1.3. Il destarsi alla realtà e la necessità dell'antropomorfismo 1.3.1. Libertà come “lasciar-essere”

Per Spaemann l'essere reale può svelarsi solo alla ragione, che è in grado di cogliere gli enti per come essi sono e non per come noi li vediamo. La prospettiva in cui si muove la ragione è in realtà una non-prospettiva, cioè una dimensione libera da prospettive, in cui la cosa può mostrarsi per ciò che è al di là delle condizioni che la rendono oggetto per altri. La libertà allora in questo senso è per Spaemann intesa in senso negativo come “libertà da” e più precisamente come libertà dalla natura, cioè dal carattere di autoreferenzialità di ogni essere naturale. In termini positivi essa significa “lasciar-essere” (Seinlassen)27, ossia indica la capacità dell'uomo di rinunciare alla propria tendenza naturale di dominio e far-essere ciò che è, riconoscerlo come soggetto di se stesso e del mondo. Scrive infatti Spaemann:

Lasciar essere è l'atto della trascendenza e tale atto è il segno specifico della personalità. Le persone sono esseri per i quali l'altro essere-se-stesso diventa reale e il cui essere-se-stessi è divenuto reale per gli altri28.

27 SPAEMANN R., Personen, cit., p. 87; Persone, p. 76. 28 Ibidem.

La rinuncia alla propria visione egocentrica è incontestabilmente un atto morale e segue ad una decisione libera dell'uomo, possibile ma non necessaria, che ci apre alla dimensione della benevolenza (Wohlwollen), in cui noi ci liberiamo da noi stessi e possiamo apprezzare l'altro nel suo essere sé. La benevolenza, o amor

benevolentiae, infatti, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, è la forma più

intensa di trascendenza dell'essere, in cui l'uomo oltrepassa la sua tendenza naturale all'egocentrismo per riconoscere l'altro nel suo essere sé, nel suo mostrarsi libero e reale, come soggetto di azioni e aspettative proprie. Senza dubbio all'essenza della libertà appartiene anche la possibilità che l'uomo rifiuti questo atto di benevolenza e si ritragga nella curvatio in seipsum, cioè nella sua dimensione autocentrata, dalla quale vede l'altro e ciò che lo circonda soltanto come oggetto del proprio ambiente, di cui egli può in ogni momento e in ogni misura disporre per soddisfare le proprie esigenze vitali. Secondo Spaemann, però, questo restare nella pura naturalità dell'uomo non è esso stesso naturale, bensì innaturale, perché infondato, in quanto non esistono motivi razionali (nel senso che fino ad ora abbiamo descritto, cioè come

vernünftig) per considerare se stessi più importanti di chiunque altro.

La vera libertà, ossia la capacità di verità dell'uomo, non è allora per Spaemann l'autonomia, bensì il suo contrario, cioè “è il passo verso l'aperto, il passo in ciò che è

libero, dove l'essente si mostra in noi come sé stesso”29. La libertà in quanto autonomia rappresenta invece la “libertà di”, cioè la libertà nella sua accezione positiva, ed è la “libertà del volere”, che racchiude in sé la possibilità dell'uomo di compiere il male, ossia di rifiutare senza un motivo fondato l'accesso ad un ambito libero, all'ambito del lasciar-essere.

Chi rifiuta la libertà dell'essere rifiuta l'atto della trascendenza che è il segno proprio della personalità e quindi sfigura sé come persona, restando mala fide nella semplice prospettiva della vita incentrata su di sé. Il bene, per lui esiste solo nel senso del bene 'per-me' ma non in senso assoluto.

1.3.2. Il mondo reale come mondo comune

In netta contrapposizione con l'atteggiamento della scienza moderna, che rifiuta ogni forma di antropomorfismo rivendicando l'esigenza di conoscere la vita non umana non secondo la somiglianza con noi, ma juxta propria principia, Spaemann sostiene invece proprio la tesi secondo cui la concezione antropomorfica è l'unica capace di rendere giustizia alla vita e di coglierla nella sua realtà, e perciò non soltanto essa può, ma deve essere recuperata30. Vediamo perché.

Per prima cosa credo sia lecito chiedere a Spaemann: che cos'è la realtà? Cosa distingue il reale da ciò che non lo è? La risposta di Spaemann è ben nota al pensiero occidentale: “per coloro che sono svegli esiste un mondo unico e comune [...] invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mondo”31. Per Spaemann la realtà si schiude solo nel rapporto con l'altro, nella condivisione di un mondo comune, nel confronto con le esperienze nostre e altrui. “Il mondo vero è il mondo comune (die

gemeinsame Welt)”32. Spaemann ripete a questo proposito l'esempio della passeggiata in montagna con un amico, che avevamo già incontrato nel primo capitolo33: se ricordo di aver fatto una passeggiata in montagna con un amico, ma non riesco a ricostruire nella mia mente se tale passeggiata era reale o solamente frutto della mia immaginazione onirica, solo la testimonianza dell'amico può fornire un criterio sicuro per risolvere la mia situazione di impasse e distinguere la realtà dal sogno.

Non ci sono altri elementi che possano dimostrare la realtà di un evento passato che si presenta nella mia mente come un ricordo. Non basta la mia convinzione che esso sia reale perché anche lo stesso fatto che io ora sia sveglio ed affermi a me stesso che la passeggiata era reale può in effetti essere un sogno ancora in atto. Tra sogno e realtà non esiste alcuna differenza percepibile, perché la realtà non è una caratteristica, che aggiunge qualcosa a ciò che c'è, ma essa è o non è. Secondo Max Scheler il reale si rende riconoscibile dal sogno attraverso l'opposizione, la

30 “Wir müssen es [das außermenschliche Leben] antropomorph betrachten, wenn wir ihm gerecht werden wollen”. SPAEMANN R., Wirklichkeit als Anthropomorphismus, in NISSING H.-G. (a cura di), Grundvollzüge der Person. Dimensionen des Menschseins bei Robert Spaemann, Institut zur Förderung der Glaubenslehre, München 2008, pp. 13-36, qui p. 13.

31 ERACLITO, Frammento B89, in REALE G., FUSARO D. (a cura di), I presocratici, Bompiani, Milano 2006, p. 363.

32 SPAEMANN R., Wirklichkeit als Antropomorphismus, cit., p. 16 (trad. it. A.F.). 33 Cfr. sopra, Cap. I, Par. 1.2.3.

resistenza. Ma per Spaemann ciò non è vero, perché “anche nel sogno noi viviamo l'esperienza di un ostacolo, di una minaccia, di una sopraffazione”34.

La descrizione del mondo reale come il mondo comune può però andare incontro ad un fraintendimento: come Spaemann spiega, essa non significa che la realtà è ciò che da tutti gli uomini viene vissuta e riconosciuta come tale, dal momento che un consenso universale effettivo non potrebbe mai essere raggiunto. Un'affermazione sulla realtà è piuttosto vera se ha la capacità di ricevere un consenso universale, e in quel caso, non la riterremmo vera perché passibile di un consenso, ma al contrario la considereremmo passibile di consenso in quanto vera35.

1.3.3. La realtà come antropomorfismo

La teoria del mondo reale come mondo comune può valere per comprendere l'essere reale o meno delle nostre esperienze; ma cosa significa capire la realtà degli altri esseri viventi? Come possiamo attribuire un essere reale a ciò di cui parliamo, al di là di quello che noi vediamo e sperimentiamo di esso dal nostro punto di vista? E come ci rapportiamo invece agli esseri non viventi?

Nel caso degli altri in quanto persone, la base per la comprensione della loro realtà è la comunicazione. Il dolore dell'altro, per esempio, sia nella forma fisica che psicologico-spirituale, è una realtà che da solo non posso assolutamente percepire e di cui non posso fare alcuna esperienza diretta. Io non ho accesso attivo all'essere dell'altro, ma lo posso conoscere solo tramite un atteggiamento ricettivo di ascolto, in cui lascio che egli mi parli di sé e accetto le sue affermazioni come vere. Solo il soggetto di sensazioni è consapevole della realtà delle proprie sensazioni e può condividerle con altri, che però non le vivranno mai in prima persona e non se ne potranno mai appropriare. Per questo Spaemann afferma che “si danno persone solo al plurale”36, perché esse possono essere solo nel rapporto tra loro le une per le altre

34 SPAEMANN R., Wirklichkeit als Antropomorphismus, cit., p. 14 (trad. it. A.F.). 35 Cfr. ibidem.

“oggettive soggettività”37. Inoltre ognuno di noi può venire a sapere dall'altro anche ciò che questi vede e percepisce di lui, ma non lo accetterà come reale senza un confronto critico con ciò che egli stesso sente di essere e sarà comunque cosciente di essere un qualcosa che va oltre ciò che gli altri pensano di lui. Io posso sì pensare l'altro come un mio sogno, ma, in accordo con il cogito ergo sum di Cartesio, non posso pensare me stesso come sogno di un altro.

Questa consapevolezza sta alla base di ogni riconoscimento della realtà al di là dell'oggettività. La scoperta della soggettività in noi costituisce il passo fondamentale che ci permette di riconoscere una realtà interiore cosciente per analogia non solo alle altre persone, ma anche agli esseri viventi dotati di un sistema nervoso centrale. Come scrive Rolf Schönberger, “ogni esperienza di sé diventa per Spaemann [...] paradigmatica per la comprensione del reale, in quanto, quando comprendiamo che qualcosa ha un'esistenza e un senso propri, lo comprendiamo in analogia con il nostro essere”38. Per questo motivo parliamo agli animali e approviamo delle leggi per la loro tutela, che limitano il potere dell'uomo nei loro confronti.

Certamente, a differenza dell'essere persona che ci accomuna agli altri uomini, non potremo mai sapere come è essere un certo animale, per esempio un cavallo; tuttavia riconosciamo al cavallo un 'essere determinato', che egli ha in comune con noi, ossia la vita. Questo “avere in comune l'essere”, è ciò che Spaemann denomina come “Mitsein”, “essere-con”, utilizzando lo stesso termine che Heidegger utilizza in

Essere e Tempo per indicare l'intersoggettività, l'essere con altri che caratterizza il

nostro essere nel mondo (in-der-Welt sein).

Il Mitsein diventa per Spaemann proprio il paradigma della realtà, che ci permette di cogliere questa a partire dall'essere della persona fino all'essere delle cose inanimate: “l'essere reale è essere-con o non è reale”39. Anche l'essere materiale, non vivente, ha infatti una realtà, che già il pensiero arcaico aveva considerato in maniera antropomorfica, cioè in analogia con l'essere vivente: gli elementi dell'acqua e del fuoco sono spesso oggetto dell'appellarsi religioso dell'uomo, così come San

37 SPAEMANN R., Wirklichkeit als Antropomorphismus, cit., p. 20 (trad. it. A.F.).

38 SCHÖNBERGER R., Robert Spaemann, in NIDA-RÜMELIN J. (a cura di), Philosophen der

Gegenwart in Einzeldarstellungen. Von Adorno bis Wright, Stuttgart 1991, pp. 571-575, qui pp.

573-574 (trad. it. A.F.).

Francesco chiama sorelle e fratelli gli enti della natura, che ringrazia per la loro esistenza e che sente partecipi di un mondo comune. Spaemann non nega il fatto che

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