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L'uomo: fine istintuale o fine in sé? La sacralità della vita e la

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 172-175)

III. L'ESSERE COME PROBLEMA PRATICO: BENEVOLENZA,

1. L'amore come amor benevolentiae e l'etica della riuscita della vita

1.1. Benevolenza come riconoscimento della realtà dell'altro e promozione del

1.1.1. L'uomo: fine istintuale o fine in sé? La sacralità della vita e la

ringraziamento

Per supportare con motivazioni valide la tesi secondo cui quel cambio di prospettiva tipico del destarsi alla realtà della nostra ragione, in cui si attua l'amor

benevolentiae, non è deducibile dal punto di vista dell'istinto, Spaemann sviluppa

un'analisi sulla funzione del principio di autoconservazione dell'uomo, considerandolo l'esemplificazione più significativa dei nostri moti istintuali.

L'identificazione dell'autoconservazione come fine delle nostre pulsioni è possibile, spiega Spaemann, soltanto grazie ad un atto riflessivo della nostra ragione. “Nella condizione di vita incosciente, istintuale, non esiste il fine istintuale dell'autoconservazione; esiste la paura, la fuga dal nemico o la ricerca del nutrimento”13. È solamente dal punto di vista del nostro essere razionale che siamo in grado di leggere tali reazioni, quali la paura o la fuga, come funzionali alla preservazione della nostra vita o della nostra specie, e di riflettere sull'esistenza del

nostro io e sulla possibilità della sua scomparsa. Se lasciamo che la spiegazione di tutti i nostri sentimenti e delle nostre azioni si esaurisca nello scopo del nostro automantenimento e giudichiamo questo scopo come il nostro fine ultimo, perdiamo di vista quella che è la nostra realtà trascendente e restiamo incatenati completamente all'istinto. Una visione di questo tipo è quella per esempio sostenuta da Schopenhauer: per lui l'io è effettivamente soltanto il fine dell'istinto di autoconservazione ed è perciò da esso condizionato in ogni sua espressione. Secondo Spaemann però all'interno di un tale quadro ontologico il destarsi alla realtà dell'io non porterebbe ad altro che alla sua scomparsa: “l'istinto non può essere la ragione della sua propria libera affermazione”14, perché non lascia al soggetto la possibilità di scelta e di riflessione di fronte ad eventuali alternative di azione o di risoluzione di determinate circostanze. Parimenti, “neppure l'istinto dell'altro può costituire una ragione per rispettare la sua esistenza”15. Se il valore di un uomo è determinato soltanto dal suo istinto di autoconservazione, una volta che la sua vita cessa, cessa pure quell'unico 'io' che poteva avere un interesse − sempre istintuale − per essa; e allora quale argomento potrebbe valere contro l'omicidio indolore di un uomo, per di più in assenza di parenti (i quali potrebbero al massimo rivendicare il proprio attaccamento al famigliare come a qualcuno di 'appartenente' a loro)?

A Spaemann la risposta appare chiara: nessuno. Dal punto di vista puramente istintuale la vita dell'uomo possiede solo un valore relativo, che per questo non le garantisce alcun rispetto necessario da parte di coloro che non condividono la medesima prospettiva.

Come avevo già spiegato nel primo capitolo16, l'unico elemento che può assicurare all'uomo un rispetto incondizionato da parte di se stesso e degli altri è per Spaemann invece soltanto il riconoscimento della sacralità della sua esistenza, cioè la sua considerazione come fine in sé, come portatore di un significato che non ha valore, perché è superiore a qualsiasi valore attribuibile, ed è appunto ciò che chiamiamo dignità. Questo argomento sostiene l'inevitabilità di una visione religiosa della realtà, sia da un punto di vista ontologico che morale. “Il sacro è [infatti]

14 Ibidem; Felicità e benevolenza, p. 124. 15 Ibidem.

l'incommensurabile, ciò che non può essere dedotto o fondato in maniera funzionale, il 'bene' inteso come predicato univoco”17. Il superamento di qualsiasi funzionalismo e l'incontro con il bene assoluto si hanno soltanto là dove l'uomo fuoriesce dalla sua centratura su se stesso e abbandona la prospettiva istintuale, quindi proprio in quella dimensione di accoglienza del reale in cui abbiamo visto abitare la benevolenza.

Ogni manifestazione dell'amor benevolentiae nella nostra vita, sia nella misura in cui ne siamo gli artefici sia nel momento in cui lo riceviamo da un altro in quanto suoi beneficiari, così come ogni incontro con la realtà in sé dell'altro, nel suo libero darsi, costituisce per noi dunque un'esperienza del sacro, dell'Assoluto. La modalità con cui ci relazioniamo a questa dimensione incondizionata è per Spaemann quella di un'adesione totale, di un'adesione senza condizioni e quindi libera, non forzata, che “ha il carattere del ringraziamento, del ringraziamento per ciò che si mostra nella sua pura assolutezza, per ciò che nel linguaggio delle religioni di origine biblica si chiama 'gloria'”18. Il ringraziamento, o meglio la gratitudine (Dankbarkeit), che Spaemann riprende come tema filosofico probabilmente dal collega e amico Dieter Henrich19, è allora proprio quell'atteggiamento con cui l'uomo spontaneamente si rivolge alla dimensione dell'Assoluto, non appena lo percepisce come tale; anzi, ciò che caratterizza l'essere specifico dell'uomo è proprio la fusione perfetta della comprensione di quella realtà nel suo carattere incondizionato con il desiderio immediato di renderle grazie e di rispettarla in maniera assoluta. Il rispetto, in particolare nella forma della ri-verenza (dal latino re [iterativo] + verére [= avere riguardo di]), è infatti un sentimento che viene suscitato in noi solamente da qualcosa di sacro, di religioso, perché indica quella cura e quell'osservanza continua e costante propria del fedele che onora e ha un riguardo incondizionato per la divinità.

Ora, l'ente che riesce a cogliere la realtà nella sua vera assolutezza, ossia colui che è in grado di pensare l'idea dell'Assoluto e che di fronte all'infinità di tale idea sente crescere in sé un sentimento di rispetto così profondo nei suoi confronti da essere grato del suo mostrarglisi, rivela al contempo di essere esso stesso degno di

17 SPAEMANN R., Glück und Wohlwollen, cit., p. 127; Felicità e benevolenza, cit., p. 125. 18 Ivi, p. 128; Felicità e benevolenza, p. 126.

19 Cfr. HENRICH D., Gedanken zur Dankbarkeit, in LÖW R. (a cura di), ΟIΚΕIΩΣIΣ. Festschrift

quella assolutezza che sta onorando e di portarne in sé l'immagine, la rappresentazione. L'uomo, la vita cosciente, è quindi manifestazione di quell'Assoluto che solo egli, a differenza degli altri esseri viventi, è capace di comprendere, in quanto, nel momento in cui lo comprende, egli è già oltre la realtà relativa in cui si trova come essere naturale, e partecipa già della realtà in sé. Egli scopre allora quella sostanzialità che sta a fondamento di ogni oggettualità e la riconosce nel suo carattere incondizionato in se stesso e in tutti gli altri esseri razionali, imponendosi il dovere di rispettarla e il divieto di disporne arbitrariamente come puro mezzo o materialità.

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 172-175)