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La duplice sfida della teoria dell'evoluzione

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 44-47)

I. NATURA E INVERSIONE DELLA TELEOLOGIA. LA MINACCIA

1. Il confronto con la scienza moderna tra scientismo e teoria

1.2. Un dialogo diretto con la teoria dell'evoluzione

1.2.2. La duplice sfida della teoria dell'evoluzione

1.2.2. La duplice sfida della teoria dell'evoluzione

Secondo Spaemann la teoria dell'evoluzione rappresenta per il modo cristiano di concepire l'uomo una sfida che si articola in una “duplice pretesa”43: in primo luogo essa vuole ricostruire per la prima volta all'interno di una scienza a-teleologica la genesi di quella soggettività attiva e non oggettivabile di cui parla Kant e in secondo luogo vuole dare di questa ricostruzione un'interpretazione realistica.

Il realismo teoretico risulta però pericoloso se applicato all'interpretazione della soggettività, perché toglie nuovamente questa dallo stato di immunità nei confronti

42 Ibidem; Natura e ragione, p. 42. 43 Ivi, p. 51; Natura e ragione, p. 48.

dell'analisi oggettivante in cui Kant l'aveva fatta rifugiare e rischia di trascinarla parimenti nell'ambito omogeneo delle cose, un ambito in cui tutto viene reso indifferente e banalizzato.

Spaemann spiega come nell'epoca contemporanea questa banalizzazione della soggettività venga riconosciuta essa stessa come assolutamente 'non-banale' e sia posta come oggetto di attenzione di discussioni ideologico-politiche di rilevanza pubblica. Ciò che lo stupisce è il fatto che a prendersi cura della questione delicata della soggettività non siano gli anti-evoluzionisti, quanto al contrario i nuovi teorici del paradigma evolutivo. Nel loro progetto essi sembrano inoltre avvertire l'esigenza di un rapporto di convivenza serena con la sfera della religiosità, la quale, una volta liberata dalle sue ambizioni conoscitive, appare “essa stessa un elemento essenziale della macchina della sopravvivenza ricostruita dalla teoria”44. In generale la nuova scienza evolutiva, ancora coerente con le sue pretese iniziali, ma armata di una metodologia più matura, non lascia più la soggettività al di fuori del suo campo d'azione come un qualcosa di irriducibile, e d'altro canto non la vuole nemmeno eliminare o ridurre a pura materia, ma cerca di integrarla nel suo progetto interpretando lei stessa, come tutti gli aspetti biologici e fisiologici dell'uomo, una funzione utile alla sopravvivenza. È questa ambizione per così dire 'onnicomprensiva' che riapre la strada alla minaccia dello scientismo: la conoscenza è intesa solo come conoscenza scientifica, non nel senso di una riduzione dei campi del sapere ma piuttosto nel senso di un'estensione del metodo scientifico a tutti i campi del sapere. “Non c'è un soggetto della scienza che sia in grado di comprendere se stesso al di fuori della scienza”45, dice Spaemann, e cita indirettamente Quine che a questo proposito parla esattamente di “olismo scientista”.

La scienza nel suo insieme appare come l'unico processo esistente e il suo carattere strumentalizzante investe anche il linguaggio comune, come succede per esempio per i concetti di “buono” e “bene”, che vengono tradotti dal linguaggio scientista sempre in significati relativi come “buono per qualcuno, se questo qualcuno vuole quel qualcosa” o “bene in vista di quel qualcosa”, significati che vengono trasferiti in modo corrispondente anche nell'etica. Spaemann critica questa

44 Ivi, p. 53; Natura e ragione, p. 49. 45 Ivi, p. 54; Natura e ragione, p. 50.

distorsione del linguaggio etico e di conseguenza dell'etica stessa: interpretando in termini funzionalistici l'incondizionato – ossia i concetti puri di “buono” o di “bene” – in vista del mantenimento di un qualcosa di condizionato come la vita terrena dell'uomo, la teoria dell'evoluzione toglie all'incondizionato la sua incondizionatezza. Utilizzando l'incondizionato e facendo della sua utilità il suo essere, essa cancella questo suo stesso essere. A difesa del carattere dell'assoluto Spaemann afferma che c'è una cosa che la scienza comunque non potrà mai fare pur servendosi dell'etica, e cioè “far derivare da altro la forma specifica dell'etica umana, la forma dell'incondizionatezza che si esprime nell'uso della parola “bene” in un senso non-relazionale”46. In questo senso la teoria dell'evoluzione potrà sì funzionalizzare la morale, ossia indicare ogni suo precetto come utile alla sopravvivenza, ma non ricostruirne un'origine a sua volta funzionale, ossia attribuire alla presenza dell'etica un fondamento in una certa misura condizionale.

Un altro aspetto della teoria dell'evoluzione nei confronti del quale Spaemann mostra di avere delle riserve è la tesi per cui tutto ciò che riguarda l'agire dell'uomo e le sue facoltà non è altro che un prodotto specifico dell'adattamento del nostro organismo all'ambiente. La struttura del nostro apparato respiratorio è allora, per esempio, prodotto di adattamento del nostro organismo all'ambiente, il nostro modo di mangiare pure, così come l'esigenza che ci spinge a socializzare con i nostri simili. Fin qui effettivamente nessuna obiezione. Spaemann però fa notare che, se tale regola si estende a tutte le facoltà umane, deve investire anche la facoltà del pensiero. Questo ci porta secondo lui ad una situazione più complicata. Vediamo cosa intende.

Il pensiero è innanzitutto l'attività del cervello, organo nato anch'esso evidentemente come prodotto di un adattamento dell'organismo all'ambiente. Il pensare in un certo modo piuttosto che in un altro deriva a sua volta da un adattamento specifico del cervello, che si muove secondo determinate leggi logiche che gli permettono di rapportarsi al mondo esterno. Secondo la logica bivalente, per esempio, possiamo ragionare pensando ogni nostra proposizione soltanto come vera o come falsa. Le leggi logiche a loro volta possono esistere solo in quanto esistono esseri pensanti che sono in grado di regolare il proprio pensiero su di esse. Ma allora

– si chiede Spaemann – “la logica bivalente è anch'essa soltanto un prodotto specifico dell'adattamento del nostro cervello al mondo esterno?”47. Questa domanda agli occhi di Spaemann ci porta in un circolo vizioso: se rispondiamo di sì infatti, ci viene spontaneo chiederci subito: la nostra risposta affermativa è stata anch'essa il prodotto dell'adattamento? Se rispondiamo invece di no o sosteniamo una proposizione falsa, questa sarebbe indice al contrario di un errore evolutivo, ossia rappresenterebbe un carattere debole, che ostacolerebbe la nostra sopravvivenza.

Spaemann pone a questo punto un'interessante questione: sostenere una proposizione falsa significa avere un'immagine falsa di uno o più aspetti della realtà, cioè vedere le cose come esse non sono, diverse da come esse sono e quindi vedere qualcosa che in verità non c'è. Ma come è possibile che ci si possa creare l'immagine di qualcosa che non esiste, in un mondo fatto solamente di condizioni materiali? Nel nostro cervello possono certamente nascere delle immagini di natura associativa che sono per noi rappresentazioni di qualcosa; per esempio, possiamo avere l'immagine di un fulmine come nostra rappresentazione di un temporale. Ma perché questa immagine del fulmine dovrebbe essere per noi rappresentazione di un temporale, che “non è” realmente, fisicamente, questa rappresentazione?

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA F (pagine 44-47)