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L' AMPIO SPETTRO DELLA TEATROLOGIA DELLE ORIGINI U NA PROSPETTIVA DIALETTICA

1. O RIGINI DELLA NUOVA TEATROLOGIA

1.4 DINAMICHE DEL PARADIGMA DISCIPLINARE.

1.4.1 L' AMPIO SPETTRO DELLA TEATROLOGIA DELLE ORIGINI U NA PROSPETTIVA DIALETTICA

Si è visto, sia in questa breve premessa che nelle parti precedenti dell'indagine, come un tratto fondante per la teatrologia delle origini sia la cruciale apertura del campo di studio: dovendo perimetrare un nuovo specifico disciplinare, i primi studiosi si trovano a decidere cosa includere e cosa escludere dai propri orizzonti di studio, a stabilire i criteri di scelta, a sperimentare metodologie adeguate. Queste pratiche di interrogazione e messa in discussione del proprio oggetto sono già attive nella primissima fase che abbiamo inquadrato, a individuare nel fatto spettacolare il discrimine dello specifico disciplinare; ma esse procedono anche in seguito, nel momento in cui sia sul piano interno – attraverso lo studio di oggetti come la teatralità rinascimentale o barocca – che su quello esterno – nelle relazioni con le avanguardie della pratica scenica coeva – sembra profilarsi tutta un'altra idea di teatro che, ben oltre i limiti dell'oggetto-spettacolo, si propone più che altro nei termini di un fenomeno di ampia afferenza socio-culturale, che richiede dunque di essere diversamente inquadrato (abbiamo visto la messa a punto di nozioni e concetti come quello di festa, luogo, città) e studiato (con il ricorso a discipline di matrice socio-antropologica). La grande apertura della nuova teatrologia, fra anni Sessanta e Settanta, conduce gli studiosi ad accogliere nei proprio orizzonti oggetti nuovi, anche non strettamente considerati teatrali (almeno rispetto alle convenzioni storiografiche vigenti), e metodi inediti, che si ricombinano insieme all'interno della pratica storiografica.

Sarà opportuno procedere subito a sgombrare il campo da un eventuale equivoco: introducendo in questi termini le condizioni l'elemento dell'apertura costitutiva della teatrologia italiana, verrebbe di pensare a quella, per certi versi simile, dei performance studies statunitensi, che ne hanno fatto addirittura un tratto fondante del proprio paradigma, con la definizione del “broad spectrum

approach” (“approccio ad ampio spettro”).227 In apparenza può sembrare che uno dei tratti distintivi

– forse il maggiore – fra le teatrologie continentali (inclusi gli anglosassoni theatre studies) e lo slittamento di paradigma concretizzato dai performance studies si possa rinvenire nell'“ampio spettro” della performance istituito da questi ultimi a fondamento della propria (anti-)cornice epistemologica. Per non cadere nella tentazione di prospettive troppo omologanti e per non rischiare allo stesso tempo isolamenti indebiti, sarà opportuno a questo punto richiamare la misura dell'ottica comparativa e così allargare temporaneamente il campo, tornando ancora una volta ad osservare il caso italiano nella sua collocazione sugli scenari internazionali.

La prossimità, va detto subito, esiste: sia per ragioni teoriche che storiografiche, la dimensione di apertura, così come l'hanno immaginata e sperimentata le diverse teatrologie nazionali fra anni Sessanta e Settanta (e per come l'hanno rielaborata in seguito) va a inserirsi a pieno titolo in quel piano di concordanze e ricorrenze che disegnano il profilo unitario della disciplina nella sua dimensione transnazionale. Ma le cose non funzionano allo stesso modo nelle diverse geografie teatrologiche della rifondazione: tenendo ben saldo l'orizzonte epistemologico condiviso cui si è fatto cenno, procederemo ora a tentare di individuare le motivazioni specifiche e dunque i differenti esiti di quell'originario dato di apertura così come si manifestano nel caso della nuova teatrologia italiana.

È interessante, su questo fronte, seguire il ragionamento di Erika Fischer-Lichte, che ha dedicato ai rapporti fra teatro e realtà un intero volume dal titolo The show and the gaze of theatre.228 La

studiosa tedesca intitola emblematicamente la propria introduzione Theatre Studies from an European Perspective, come a segnalare la sostanziale differenza che segna gli sviluppi delle teatrologie continentali: la tesi – le cui prove a sostegno sono disseminate lungo tutto il volume in una panoramica che attraversa diverse epoche – è che la storia teatrale europea sia costellata di episodi di incontro, quando non addirittura di reciproco scambio fra la scena e la vita, fra il mondo del teatro e quello esterno. La prospettiva di Fischer-Lichte è qui utile a lasciar emergere l'ipotesi che la teatralità (e la teatrologia) europea si ponga, fin dalle origini, nei termini di un “ampio spettro” che mette in giustapposizione i fatti spettacolari a eventi di altra natura – siano essi di carattere religioso, socio-politico, culturale o di intrattenimento.

Si può chiamare a caso esemplare, qui, quello della nascita e dello sviluppo dei performance studies americani: spesso considerati un caso (e una storia) a parte, condividono con le altre teatrologie nazionali consistenti punti di contatto, soprattutto per quanto riguarda i tratti della loro fondazione –

227 Il processo di ampliamento del campo di quelli che diventeranno poi i performance studies fino alla strutturazione

della nozione di “broad spectrum” si svolge lungo tutta la seconda metà del Novecento. Richard Schechner, nella seconda parte degli anni Sessanta lavora su tale linea di dilatazione, introducendo ad esempio la dimensione inclusiva della categoria della performance in un suo testo pubblicato su «Tulane Drama Review» nel 1965, in un'idea che comprende l'insieme dei comportamenti performativi umani, come il gioco, lo sport, ecc. (Cfr. R. Schechner, Approaches to Theory/Criticism, «The Tulane Drama Review», 10.4, summer 1966, pp. 20-53; ora in Id.,

Performance Theory, Routledge, London-New York 20032 (1988), pp. 1-25; trad. it. Approcci, in Id., Magnitudini

della performance (a cura di Fabrizio Deriu), Bulzoni, Roma 1999, pp. 53-94). In particolare, il concetto di “broad

spectrum approach” viene sviluppato in un testo successivo che gli studiosi di performance (incluso lo stesso Schechner) considerano fondativo: pubblicato su «TDR» alla fine degli anni Ottanta, rende anche conto della contestuale situazione epistemologica e accademica, sancisce la necessità di «treating the performative behavior, not just the performing arts, as a subject» («trattare il comportamento performativo, non solo le arti performative, come una materia», p. 4) e di espandere dunque la prospettiva – teoricamente e accademicamente – ad altre aree di studio, come la politica, la religione, la medicina, ecc. (R. Schechner, Performance Studies: The Broad Spectrum Approach, «TDR», 32.3, fall 1988, pp. 4-6).

Per approfondire l'origine del concetto, i suoi sviluppi e il suo utilizzo all'interno del campo di studi, si rimanda inoltre al manuale metodologico di R. Schechner, Performance Studies: An Introduction, Routledge, London-New York 2002; e al successivo volume antologico curato da Henry Bial esplicitamente ricalcandone la struttura: H. Bial (ed.), The Performance Studies Reader, Routledge, London-New York 2004.

228 Erika Fischer-Lichte, The show and the gaze of theatre: an European perspective, Iowa University Press, Iowa City

la definizione di un nuovo campo di studi in termini di sovversione (dunque di negazione o opposizione) rispetto alla tradizione esistente, anche in relazione alla pratica artistica e alle avanguardie delle scienze umane e sociali coeve –, che dei successivi riassetti di paradigma (ad esempio, con un ammorbidimento degli estremismi teorici e l'istituzione di territori di dialogo con altre correnti di studio). Le diverse teatrologie nazionali – performance studies inclusi – condividono, ancora più nello specifico, le modalità con cui viene messo in crisi e riassettato il paradigma: abbiamo visto come il dibattito si inauguri con l'inclusione di oggetti prima esclusi dai territori di indagine, il che invoca l'introduzione di nuovi apparati teorico-metodologici; in seguito, queste spinte vengono riassorbite e si indeboliscono, fino a diventare parte del repertorio di materiali e strumenti che compone il canone disciplinare. È uno schema che ricorre dall'uno all'altro capo della teatrologia del Novecento, dall'avventura semiologica a quella antropologica, dalla storia dell'attore a quella delle donne, fino alle più recenti sperimentazioni psicologiche e neuroscientifiche, all'espansione del campo iconografico o interculturale.

Ma se la vocazione inclusiva è un tratto comune delle diverse teatrologie occidentali, cosa determina, allora, la percezione di differenza che accompagna – o, almeno, ha accompagnato fino alla fine del Novecento – le vicende dei performance studies? Una indicazione – su cui sarà opportuno soffermarsi a più riprese in seguito – viene da Marvin Carlson, studioso statunitense che ha voluto tornare più volte a riflettere sullo stato dell'arte e sulle linee di sviluppo della propria tradizione teatrologica e di quelle internazionali. Introducendo un altro volume di Erika Fischer- Lichte, lo studioso prova a individuare le specificità e le condivisioni fra teatrologia continentale e statunitense:

«The field of Theaterwissenschaft (the study of the theatre), established in early 1920s by Max Herrmann, defined itself, like the parallel early theatre programs in the United States, in opposition to traditional study of literary text (Literaturwissenschaft), but since Herrmann based this opposition on the study of theatre as a social event and a process of embodied action rather than the communication of a literary text, his version of theatre studies was far more compatible with the concerns later developed by modern performance studies. Thus German programs in Theaterwissenschaft, like that headed by Fischer-Lichte, never suffered from the tensions and divisions between theatre and performance that are frequently felt in the United States».229

È così che in Germania – ma, si potrebbe aggiungere, in buona parte delle teatrologie continentali – l'approccio dei performance studies viene introdotto come «a natural extension of an already well established field» e non nei termini dell'istituzione di un nuovo paradigma disciplinare, come invece è stato considerato nel contesto di studi statunitense. Lì, continua Carlson, non solo ci si trova a fronteggiare un canone teatrologico ben diverso, seppure di simile impostazione – la theaterwissenschaft che l'austriaco Alois Nagler ha importato a Yale conserva soprattutto, della matrice originaria, la vocazione ricostruttiva di carattere storico-filologico –, ma anche a rapportarsi a una cultura teatrale profondamente differente, in cui lo scarto fra vecchio e nuovo teatro, scena commerciale e di ricerca, mainstream e arte non è così fondante e fondativo.230

229 «Il campo della Theaterwissenschaft (lo studio del teatro), fondato nei primi anni Venti da Max Herrmann, si è auto-

definito, come i contemporanei primi insegnamenti negli Stati Uniti, in opposizione allo studio tradizionale del testo letterario (Literaturwissenschaft). Da quando Herrmann ha fondato tale opposizione sul teatro come evento sociale e processo di incarnazione dell'azione, piuttosto che di comunicazione di un testo letterario, la sua versione degli studi teatrali divenne compatibile con gli elementi sviluppati in seguito dai moderni performance studies. Così, i corsi tedeschi di Theaterwissenschaft, come quello diretto da Fischer-Lichte, non hanno mai sofferto delle tensioni e divisioni fra teatro e performance che invece sono state spesso percepite negli Stati Uniti». Marvin Carlson,

Introduction. Perspectives on Performance: Germany and America, in E. Fischer-Lichte, The Transformative Power..., cit., p. 4.

Un'indicazione altrettanto illuminante si trova in un lavoro comparativo prodotto da Willmar Sauter con il proposito di raccontare la situazione degli studi teatrologici scandinavi: nel ricostruire le vicende e le tendenze che hanno trasformato la disciplina negli ultimi anni, lo studioso rileva molti tratti che egli stesso giudica concordanti rispetto alla sfera d'attenzione dei performance studies americani; tuttavia, riflette lo studioso, nella cultura teatrologica nordica non si porranno mai le basi per una conversione del consolidato campo storico-teatrale in una sua più ampia versione performativa: «the European tradition has alwais included a broad range of performative activities under the label of “theatre”».231 Per Sauter, il campo di studio delle teatrologie continentali, dunque,

è già geneticamente aperto, teoricamente inclusivo per tradizione. Di più, questo “ampio spettro” tutto europeo, si è visto come in Italia si proponga nel contesto di una solida impostazione critico- filologica, cui tutti gli studiosi rimandano, nelle loro testimonianze, quando si trovano a descrivere le ragioni e le modalità di tali aperture teoriche e tematiche.

Ciò non significa, naturalmente, la possibilità di appiattire le profonde differenze culturali che distinguono i singoli saperi teatrologici nazionali in un unicum di più facile gestibilità, quanto piuttosto agisce nell'ottica di restituire agli scenari teatrologici i loro possibili piani di concordanza, per poi andare a scavare, con maggiore precisione, la specificità del nostro oggetto di studio: sullo sfondo di una generale e generica “apertura” dello spettro della teatrologia occidentale del secondo Novecento, che va a proporre in diversi modi e a diverse altezze una concezione più ampia e complessa del fatto teatrale e, dunque, la considerazione di un sempre più esteso continuum performativo che include oggetti inediti – l'esempio del caso americano si fa eclatante nel caso dello sport e del comportamento animale, in quelli continentali ad esempio con le pratiche celebrative –, si staglia la possibile specificità operativa di quella italiana. Proveremo ora a capire come, anche perché lo scopo, qui, non è quello di tracciare concordanze e differenze fra le diverse tradizioni di studio; le osservazioni tratte da questo piano di ricerca sono utili al nostro scopo, in quanto contribuiscono ad arricchire – quando non addirittura a illuminare diversamente – l'indagine entro i confini stabiliti dai propositi di questa ricerca e, infatti, verranno utilizzate per comprendere il funzionamento del paradigma disciplinare negli sviluppi che ha manifestato nello specifico della nuova teatrologia italiana.

Per uscire dal campo della comparativistica, vediamo come affronta la questione dell'apertura dell'oggetto della teatrologia Fabrizio Cruciani, che in un suo testo della fine degli anni Ottanta scrive:

«Nella storiografia il teatro mi sembra sempre attuarsi come “teatro e altro”: e in questa relazione dialettica (teatro e...: istanze rappresentative, bisogni espressivi, società, commercio, utopia, comportamenti, forme, visioni, letteratura, musica, arti plastiche e figurative, estetica, pedagogia, ecc.) ho sempre trovato la fascinazione e la ricchezza conoscitiva degli studi teatrali».232

Dunque, la straordinaria ampiezza del campo di studio, qui, non viene percepita soltanto in se stessa, come una condizione o, anzi, un territorio, all'interno di cui poter muovere lo sguardo e spostare la prospettiva, di volta in volta, su oggetti nuovi; l'elemento si fa anche dichiaratamente teorico-metodologico, in quanto fondante la ricchezza stessa della disciplina. Di più – e qui, forse, si può cominciare a inquadrare una specificità teatrologica tutta italiana, almeno continentale –, la questione non è considerata soltanto nei termini della possibilità di aprire il teatrale ad altre sue dimensioni (il teatro è qualcos'altro), ma su un piano dialettico – dunque già relazionale – che lega lo specifico della teatralità a quelle sue diverse dimensioni (il teatro e qualcos'altro). Lo scarto è

231 «La tradizione europea ha incluso da sempre un'ampia gamma di attività performative nella categoria di “teatro”».

Willmar Sauter, Theatre Research in the Nordic Countries (2000-2008), «Theatre Research International», 34.1, March 2009, p. 80.

forse minimo, ma epistemologicamente fondante. Anche Cruciani si esprime esplicitamente su questi versanti, appena prima del passo citato:

«Se il teatro è sostanzialmente un insieme di relazioni, lo è anche il pensiero, la riflessione, gli studi sul teatro: la storiografia teatrale è, nel suo essere indagine storica, fondamentalmente pensiero dialettico. Nella storiografia il teatro non sembra mai essere conosciuto in sé e per sé: “che cosa è il teatro?” non è né la domanda né la risposta degli studi teatrali, ne è se mai – più o meno consapevolmente – un a priori, tecnicamente un pregiudizio operativo».233

La concentrazione sulla dimensione relazionale che si sviluppa intorno all'oggetto di studio, il porsi di una prospettiva dialettica, implica innanzitutto un mantenere saldo, nel ragionamento, il centro della teatralità stessa. Tale opzione – strettamente osservata nelle teatrologie continentali in generale e in quella italiana in particolare – potrà sembrare collaterale, ma la sua ricaduta epistemologica è sostanziale, perché, come sottolinea anche Fabrizio Cruciani, l'attenzione degli studiosi, in questo contesto non è (solo) sul cosa del teatro, dunque sulla definizione e ridefinizione del proprio oggetto, ma si sposta sul suo come. Lo spunto che nasce su questi fronti contribuisce non poco a delineare i tratti del paradigma della nuova teatrologia così come vengono disegnati alle sue origini, fondando un piano di corrispondenza originale fra il versante tematico (quello dell'oggetto di studio, del campo di indagine) e il versante teorico-metodologico (quello che costruisce la cornice epistemologica della disciplina). Lungo tutta questa parte, non solo andremo a verificare l'esistenza di questa possibilità, ma ne esamineremo anche le ricadute e le conseguenze, in quanto, qualora si dimostrasse un'ipotesi valida, potrebbe andare a fornire una base da cui partire per spiegare come sia possibile che alcuni dei caratteri specifici dello scarto della rifondazione – la spinta eversiva, la percezione di estraneità, lo stato di invenzione – non vadano poi a riassorbirsi durante il processo di consolidamento della disciplina, ma anzi ne vadano a determinare gli sviluppi, ponendosi sorprendentemente come elementi sempre fondanti (e rifondanti) il paradigma disciplinare.

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