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I NTERMEZZO D AL CRINALE DELLA DOPPIA ROTTURA TEATRALE DEGLI ANNI S ETTANTA

2. S VILUPPO DELLA NUOVA TEATROLOGIA

2.2 CRONACHE: IL CONSOLIDAMENTO DELLA DISCIPLINA

2.2.2 I NTERMEZZO D AL CRINALE DELLA DOPPIA ROTTURA TEATRALE DEGLI ANNI S ETTANTA

A fianco della declinazione del fenomeno del teatro di gruppo poi denominata Terzo Teatro, si muovono altre linee di tendenza estremamente diverse, eppure con orientamenti su certi punti simili: basti pensare alla dinamica oppositiva che ha legato (e separato) quest'area della teatralità da quella della cosiddetta Postavanguardia, che si affaccia agli orizzonti della scena più o meno negli stessi anni (Giuseppe Bartolucci, il critico che più ha seguito il movimento, ne inquadra la nascita nel 1977). Le due tendenze sono ben distinte, l'una caratterizzata da un investimento sulla dimensione del gruppo e sull'allenamento quotidiano dell'attore, l'altra presa da una ricerca multidisciplinare sull'esistenza umana metropolitana; ma, a distanza di anni, pur rendendo giustizia alla vivacità di dibattito che si instaura fra i due versanti, si possono cogliere anche diversi punti di

314 Taviani ha l'occasione di rispondere sul numero successivo di «Scena», del febbraio 1977 (l'intervento è il già citato

“Terzo Teatro”: vietato ai minori, «Scena», II, 1, febbraio 1977, pp. 12-18), seguito da una immediata ribattuta di

Siro Ferrone (Il teatro invisibile, «Scena», II, 1, febbraio 1977, pp. 19-20).

315 F. Taviani, “Terzo Teatro”: vietato ai minori, cit., p. 17. 316 S. Ferrone, Il teatro invisibile, cit., pp. 19-20.

incontro. È su questi che sarà bene soffermarsi un momento, prima di procedere ad analizzare le trasformazioni in opera nei primi anni Ottanta, per comprenderne a pieno le premesse e il contesto. Il punto, ad oggi, è valorizzare le prospettive che abbiamo osservato – necessariamente tendenziose e militanti, e anche preziose per queste loro caratteristiche – rispetto a un contesto più ampio. Questa è l'opinione di Piergiorgio Giacché, antropologo con interessanti e sistematiche frequentazioni col teatrale, a metà degli anni Novanta:

«A nostro avviso, quelle che erano apparse, almeno in Italia, come insanabili divisioni tra le “parate” del “terzo teatro” e le “installazioni” dei gruppi postmoderni, si possono oramai rileggere come opzioni estreme di uno straordinario fermento unitario che ha interessato e coinvolto più di una generazione di giovani attori e spettatori».317

Giacché fonda l'ipotesi di questa linea di convergenza sulla centralità che assume, alla fine degli anni Settanta, l'azione fisica, nel contesto di un più ampio processo di sottrazione del teatrale all'egemonia dell'ideologia dominante, quella del teatro ufficiale. Che sia protagonista di un approfondimento fondato sull'allenamento quotidiano e sulle possibilità della dimensione relazionale, oppure che venga sperimentato come spazio in cui interagiscono i molteplici stimoli (anche tecnologici) della società, il corpo dell'attore, in questi anni, diventa secondo Giacché il punto di incontro fra tendenze performative per il resto inconciliabili. Ma queste due aree della teatralità, che si sviluppano in Italia nella seconda metà degli anni Settanta e sembrano andare entrambe ad esaurirsi con la chiusura del decennio, condividono anche il contesto più generale dell'avvento della nuova cultura giovanile, tema di cui parla diffusamente Giacché nel suo intervento e su cui abbiamo visto concentrarsi anche parte del volume di Marco De Marinis dedicato al teatro degli anni Settanta: si osservano le modalità di eccezionale diffusione trasversale della cultura teatrale come le condizioni espressive, culturali, politiche di una critica dall'interno alla “società dello spettacolo”, logica all'epoca in fase di altrettale diffusione. Sono accomunate, sembra, anche da uno stesso nemico: «un teatro, che rischiava di essere assimilato alla letteratura drammatica e annullato dalla concorrenza di altri più potenti mezzi spettacolari».318

Qui, infatti, non si tratta solo di aver permesso una ulteriore e più ampia specificazione della cartografia del fenomeno del teatro di gruppo alla fine degli anni Settanta, anche evocando la differenza e la pluralità delle linee di tendenza che la percorrono, quanto piuttosto di cominciare a focalizzare gli esiti teorici implicati da quelle pratiche, quelle sperimentazioni e quelle idee nel loro complesso.

Per farlo, torneremo ancora una volta ad utilizzare lo sguardo degli studiosi sulle vicende di quegli anni; ma se, fin qui, abbiamo approfittato della loro testimonianza “a caldo”, diretta, sulle mutazioni in corso fuori e dentro le scene degli anni Settanta, ora affronteremo il tema da tutt'altro punto di vista.

Diversi anni dopo gli eventi in questione, infatti, molti tornano sui fenomeni che abbiamo appena attraversato; i toni sono meno accesi, distanti, anche se di una lontananza non dovuta soltanto al naturale scorrere del tempo che separa la prospettiva dagli avvenimenti che osserva e in qualche modo la raffredda. Lungo gli anni Ottanta, fioriscono testimonianze “a freddo”, ma non perché sia passato così poi troppo tempo; è il 1982 – sono trascorsi solo cinque anni dalle polemiche che abbiamo letto sulle pagine di «Scena», dal fermento delle utopie che rappresentavano e dal cocente estremismo con cui le esprimevano –, quando Marco De Marinis, nell'introdurre il suo Al limite del teatro, lo definisce un libro su «un teatro che non c'è più».319 Quelle che vedremo, sono

testimonianze “a freddo” in quanto intrise di un senso di fine, di conclusione, di posteriorità; sono,

317 Piergiorgio Giacché, Un'equazione fra antropologia e teatro, «Teatro e Storia», X, 17, 1995, pp. 54-55. 318 Ivi, p. 54.

dunque, anche delle ipotesi di lettura di ampio respiro, delle interpretazioni complessive, più che delle vere e proprie testimonianze. Non che in qualche modo smarchino il proprio coinvolgimento dai fatti che raccontano, non che si diano opzioni in alcun senso revisionistiche o ricompositive; semplicemente, il distacco permette agli studiosi di formulare delle ipotesi capaci sia di rileggere gli sviluppi della neoavanguardia e del fenomeno del teatro di gruppo alla luce di quello che è venuto dopo, sia, appunto, di porsi a premessa per permettere a noi di tentare di leggere e interpretare quel “dopo”. Queste esperienze non sono centrali solo per comprendere ciò che è successo fra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – anche se il loro pregio e il loro interesse sta proprio nel tentare una lettura unitaria degli eventi e dei fenomeni di quegli anni, scollandosi dalla dimensione puramente événementiel e proponendo l'ipotesi dell'esistenza di uno stesso processo strategicamente in opera, seppure in diversi modi –, ma sono particolarmente significative per mettere in relazione – in prospettiva, si potrebbe dire – quegli eventi anche rispetto a quello che è accaduto successivamente. Qui, questo tipo di fonti vengono estratte da ambiti posteriori e successivi (di norma provengono dalla fine degli anni Ottanta), ma la loro decontestualizzazione si giustifica per tentare di comprendere, in una sorta di intermezzo nello scorrere della ricostruzione storiografica, quello che è avvenuto nel teatro e negli studi fra anni Settanta e Ottanta, e, naturalmente, anche per intravvedere già le premesse di quello che accadrà dopo. Ricorreremo al ragionamento di Ferdinando Taviani, che spesso è tornato a lavorare su questi frangenti, proponendo, appunto, la definizione della “doppia rottura”.

Due sono i documenti, in questo caso, salienti: Inverno italiano, un testo sulla situazione del teatro nel nostro Paese scritto nel 1984 per una rivista colombiana (e ora riedito in Contro il mal occhio), e Cavaliere di bronzo, trascrizione della relazione presentata al convegno Le forze in campo, organizzato a Modena nel 1986.320 Entrambi affrontano il problema di quella che lo studioso

definisce una “doppia rottura” verificatasi nel teatro del secondo Novecento; lo fanno in maniera sensibilmente diversa, considerando la questione da due punti di vista differenti ed entrambi preziosi ai fini di questo studio. Infatti, su entrambi ci sarà modo di tornare anche in seguito, da tutt'altro punto di vista (quello degli sviluppi scientifici degli studi).

Nel primo saggio, Taviani, per descrivere le condizioni coeve del teatro italiano, si trova a fare i conti con una sorta di “bilancio” delle vicende che hanno segnato il Nuovo Teatro negli anni Settanta (come, appunto, se non si potessero comprendere appieno le condizioni della scena degli anni Ottanta senza tirare le somme dei suoi precedenti). Ricapitolando a grandi linee le motivazioni, i contesti e i caratteri che descrivono tali fenomeni, propone l'esistenza di una frattura che ha incrinato l'unità del teatro fin dagli anni Sessanta:

«Cosa è successo in quegli anni? Innanzitutto si è spaccata l'unità del teatro. Sulla spinta di pionieri come il Living, Grotowski, l'Odin Teatret, il Bread and Puppet, Dario Fo, e poi gli spettacoli di Bob Wilson, nacquero fenomeni teatrali fra loro diversissimi, ma che avevano in comune il fatto di non sentirsi e di non essere in rapporto con il teatro “normale”: neppure in rapporto di contrapposizione […]. Sorsero, infatti, molti gruppi, che prendevano posizione nei confronti della società circostante, ma che non prendevano affatto posizione (come invece era avvenuto per i “pionieri” cui si ispiravano) nei confronti del teatro “normale”: semplicemente lo ignoravano.

Si realizzò così quel fenomeno nuovo e gravido di conseguenze culturali: la spaccatura prima pratica e poi teorica dell'unità del teatro».321

Lo studioso, dunque, definisce l'ipotesi dell'esistenza di una “spaccatura” doppia, “prima pratica e poi teorica” nel teatro fra anni Sessanta e Settanta. I punti di questo percorso intorno e dentro il

320 F. Taviani, Inverno italiano, cit.; Id., Cavaliere di bronzo, cit. 321 F. Taviani, Inverno italiano, cit., pp. 95-96.

fenomeno del teatro di gruppo risuonano in maniera simile anche nel secondo testo, di pochi anni dopo: c'è l'individuazione del ruolo degli enti locali e, al loro interno della sinistra di quegli anni, insieme all'assenza di una normativa nazionale unitaria sullo spettacolo dal vivo; il racconto della nascita del fenomeno del teatro di gruppo, il suo iniziale spontaneismo, i suoi rapporti con il radicamento e la società; e, ancora una volta, infine, la necessità di comprendere gli accadimenti degli anni Sessanta e Settanta per arrivare a interpretare quelli coevi, della metà degli Ottanta. In particolare, secondo lo studioso:

«Negli anni Sessanta vi furono alcuni gruppi ed individui che imposero opere e pratiche teatrali che esulavano dai confini considerati naturali del teatro. Non era "di rottura", di provocazione estetica o ideologica. Erano qualcosa di più: aspiranti "tradizioni" alternative alla tradizione vigente. […] Gli uomini che guidarono la rivolta teatrale degli anni Sessanta aprirono delle brecce nelle mura del teatro. […] Il muro del teatro, dunque, non era più compatto, si poteva fare teatro fuori dai teatri, dalle convenzioni e dalle tradizionali competenze teatrali. Mutavano i connotati della vocazione teatrale, che diventava, fra le vocazioni artistiche, la più sgombra da normative, quella che permetteva più indipendenza, confini più sfumati fra professionalità e professionismo, fra avanguardia e marginalità. Con mezzi relativamente economici ed artigianali era possibile, nel teatro, realizzare un sistema di vita alternativo e insieme rispettabile».322

In questo consiste, secondo Taviani, il primo passaggio di quella “doppia rottura”, la sua messa in opera teorica, la spaccatura ideologica. Dopodiché, negli anni Settanta, si realizza il secondo momento, quello della frattura “pratica”, in cui «decine e decine di gruppi crebbero fuori dalle mura non più compatte del teatro»,323 senza alcun rapporto con il sistema vigente. Continua Taviani:

«Questa seconda scossa segue la prima, in parte ne dipende, ma non ne è il semplice prolungamento. Fra l'una e l'altra c'è un salto di livello logico: dalla logica del rifiuto si passa alla quella della distanza. […] Se non si comprende il salto logico che vi è fra lo strappo degli anni Settanta (continuiamo a usare i decenni come utili etichette) e la separatezza degli anni Settanta, il movimento di quest'ultimo decennio si colora impropriamente di una carica teatralmente eversiva che non gli appartenne, neppure quando il movimento nasceva da scelte che invece erano eversive sul piano politico generale. […]

Prestare ai teatri che nacquero fuori le mura del Teatro quella carica teatralmente eversiva che invece caratterizzò i ribelli del decennio precedente porta a proiettare la vicenda teatrale degli ultimi anni sulla falsariga delle vicende dell'estremismo politico, dei gruppi di autonomia, del terrorismo».324

La “doppia rottura” che investe l'unità della categoria-teatro lungo gli anni Settanta non ha effetti soltanto all'interno della pratica scenica, ma esercita linee di attrazione di un certo spessore anche all'interno degli studi: Taviani ne parla nei termini della seconda parte del processo di cesura, quella “teorica”, su cui ci sarà modo di tornare approfonditamente più avanti. Tali rivolgimenti saranno affrontati nel dettaglio nel prossimo capitolo, dedicato all'analisi della produzione scientifica coeva, ma a questo punto può essere utile profilare, almeno a grandi linee, i termini entro cui si va a svolgere questo cambiamento. La divaricazione fra teatro “normale” e teatro di ricerca, infatti, sembra comportare l'innesco di un altro importante processo di separazione, quello fra scena e

322 F. Taviani, Cavaliere di bronzo, cit., p. 192. 323 Ibidem.

platea, fra attore e spettatore. I primi “sintomi” dell'instaurarsi di questa opzione teorica, come abbiamo visto, si profilano già nella trasformazione incorsa alle neoavanguardie dopo il Sessantotto teatrale, nei termini di un processo di «ridefinizione […] dei confini stessi del teatro»; i gesti, le azioni della Biennale Teatro diretta nel '75 da Ronconi, si è detto, «non sono messaggi, sono i preparativi per la partenza».325 Taviani tornerà spesso sul tema, sia “a caldo” che in seguito, con

proposte più analitiche e sistematizzanti, in particolare legando la propria ipotesi della “doppia rottura” alle manifestazioni di emersione di due idee differenti di teatro, quella dell'attore e quella dello spettatore, addirittura andando a considerare questa dimensione di separatezza ed estraneità come la «vera e propria “tradizione” caratterizza il teatro occidentale moderno».326 In questo senso,

è particolarmente pregnante la sua presentazione al numero di «Quaderni di Teatro» dedicato nel 1982 al tema delle Visioni del teatro, in cui, fra l'altro, rileva come la storiografia teatrale tradizionale abbia di norma eluso la questione, andando a valorizzare soprattutto il punto di vista dello spettatore, dello spettacolo e del prodotto, senza prendere invece in carico la prospettiva “interna” del teatro, dei suoi processi di vita e di lavoro. Nello stesso numero della rivista, Fabrizio Cruciani presenta quelli che si possono considerare i primi materiali di quello che diventerà poi il suo percorso storiografico all'interno della pedagogia (e che sarà oggetto di analisi nel prossimo capitolo). Quello che ci interessa per ora notare è la doppia lettura che Cruciani dà del problema: la dimensione di separatezza fra scena e platea ha come conseguenza, si è detto, un'assunzione di centralità da parte dell'attore, dunque l'istituzione di una prospettiva “interna” al farsi teatrale; ma lo studioso rileva, allo stesso tempo, come questo fenomeno implichi conseguenze non secondarie anche rispetto alla polarità spettatoriale, con una condizione fruitiva che, per questi teatri, assurge all'idea «del pubblico non indifferenziato, della società degli amici, del teatro come microsocietà in espansione progettuale, che costruisce se stessa e la propria immagine e la propria fruizione». «Il pubblico – conclude Cruciani – diventa in prima istanza un gruppo di amici e di collaboratori e di compagni».327 I teatri senza spettacolo dei primi anni Ottanta, i gruppi oltre il teatro sul crinale fra i

due decenni si separano anche dal pubblico; ma allo stesso tempo, scelgono (e vengono scelti da) un proprio pubblico, una comunità di spettatori ben diversa da quella indifferenziata degli spettacoli. Rientrata l'utopia delle possibilità del teatrale nella società, della sua produzione collettiva e dal basso, della sua formazione spontanea e della sua autonomia locale, l'idea del teatro “come valore d'uso” si riconverte allora dal collettivo all'individuale, dalla piazza al laboratorio, dalla società all'attore (e al lavoro che può compiere su se stesso). La svolta, in effetti, è epocale: si tratta di «un'esplosione che – scrive Franco Ruffini con altrettanta lungimiranza alla fine degli anni Settanta –, semplicemente, rovesciò la prospettiva del teatro da chi lo guarda o ne parla, a chi lo fa».328

Se in questa fase della ricerca – dedicata alla ricostruzione delle vicende che hanno segnato gli sviluppi della nuova teatrologia fra anni Settanta e Ottanta –, tale indicazione è utilizzata per autorizzarne, in qualche modo, l'osservazione anche in relazione a ciò che andava accadendo, negli stessi anni, nella pratica teatrale, nel prossimo capitolo essa diventerà invece una guida sostanziale per osservarne la produzione in campo teatrologico.

Se Taviani focalizza la propria attenzione sulle profonde differenze che uniscono e separano il teatro degli anni Sessanta da quello dei Settanta, Marco De Marinis, nell'introduzione al suo volume dedicato al Nuovo Teatro, nel 1987, si concentra nel tentativo di delinearne le motivazioni, incastonando gli accadimenti del teatro di gruppo – in particolare per quanto riguarda il versante occupato dalle neoavanguardie internazionali – in un sistema di rapporti causali capace di lasciarne intravvedere contesti di innesco, funzioni possibili e, anche, così, di tracciarne vettorializzazioni in grado di farne emergere parte degli esiti:

325 F. Taviani, Quinto, cit., pp. 47-48.

326 F. Taviani, Presentazione, «Quaderni di Teatro», V, 16, maggio 1978 (Le visioni del teatro), cit., p. 5. 327 Ivi, pp. 12-13.

«Si tratta di un percorso di fuga dal teatro o, per essere più precisi, di una ininterrotta e via via crescente tensione al superamento dei limiti storicamente imposti alla scena occidentale, dalle sue convenzioni ormai svuotate e dalle sue chiusure. Ma tensione verso dove, verso cosa? Diciamo verso un dopo, un aldilà, un oltre il teatro, che per alcuni non avrà più niente a che vedere con il teatro stesso […] e per altri sarà invece un teatro talmente trasformato nelle sue modalità e, ancor di più, nelle sue funzioni che non riuscirà più a riconoscerlo come tale restando al di qua di quei limiti».329

Un processo di “fuga” dal teatro che, a partire dalle esperienze apripista della neoavanguardia post- sessantottesca – così come le ha inquadrate De Marinis – passa dal fenomeno della cultura giovanile e della eccezionale diffusione della creatività degli anni Settanta, per giungere alla fine del decennio polarizzato in versanti di difficile conciliazione: l'uno, quello del Terzo Teatro, che prima, nella seconda metà degli anni Settanta, ne sviluppa la genealogia attraverso la dimensione socio- antropologica della cultura di gruppo e, poi, dagli anni Ottanta, converte l'originario discorso dell'efficacia su un piano di ricerca più interno; l'altro, quello della Postavanguardia, che ne eredita la vocazione pluridisciplinare e sperimentale, si definirà come indagine radicale sui dispositivi e linguaggi della scena, ma l'iniziale carica eversiva antirappresentativa e antinarrativa, portata all'estremo, finirà col risolversi in una ricerca interna a grande rischio di autoreferenzialità. Entrambi, in maniera assolutamente – quasi paradossalmente – diversa, teatri senza spettacolo al cuore stesso della società dello spettacolo; entrambi, in modo diverso, “percorsi di fuga dal teatro” tradizionalmente inteso, che vanno alla ricerca di un suo “dopo”, “oltre”, “al di là”, come dice De Marinis per quanto riguarda l'esperienza delle neoavanguardie: chi lungo le linee del lavoro e della ricerca su di sé, chi smantellando il linguaggio e il senso nel quadro di una lacerante incomunicabilità. Sembra fargli eco, dieci anni dopo, Mirella Schino: «Era il tempo del superamento dei limiti: l'inizio di una lunga strada buia».330

Di lì a breve non ne sarebbe rimasto più nulla o quasi, e un nuovo punto d'incontro fra le due tendenze si trova proprio nel rapido esaurimento della loro spinta innovatrice, riassorbita nel giro di pochi anni tanto sul frangente del Terzo Teatro che su quello della Postavanguardia da un processo diffuso e trasversale poi definito nei termini di un generale “ritorno all'ordine” (del testo, dell'attore, dell'opera).

È proprio quella “strada buia” verso “un dopo, un al di là, un oltre il teatro”, quella su cui ci stiamo incamminando a questo punto, per rintracciare gli sviluppi del fenomeno del teatro di gruppo negli anni Ottanta. Ma – proprio per valorizzare il senso di queste tendenze nella loro complessità – bisogna notare subito che c'è dell'altro, a fianco a quelle esperienze che cercano una nuova efficacia degli strumenti teatrali portandoli al loro estremo e scavandoli dall'interno, una volta fallita la possibilità socio-collettiva dell'esperienza del teatro di base: all'inizio degli anni Ottanta si assiste anche a fenomeni teatrali e teatrologici di segno decisamente opposto. C'è il ritorno del teatro,

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