1. O RIGINI DELLA NUOVA TEATROLOGIA
1.1.3 L A NUOVA TEATROLOGIA ITALIANA PRIMA E DOPO I POTESI DI PERIODIZZAZIONE DEL PROCESSO DI RIFONDAZIONE
1.1.3 LANUOVATEATROLOGIAITALIANAPRIMAEDOPO. IPOTESIDIPERIODIZZAZIONEDELPROCESSODI RIFONDAZIONE
Cominciamo ora a inquadrare la scansione temporale che sarà oggetto del presente capitolo e a formulare un'adeguata proposta di periodizzazione della nascita della nuova teatrologia italiana. Riprendendo alcuni interventi citati in apertura, ricordiamo che Marco De Marinis, colloca l'avvio del lavoro di quella «generazione di giovani storici del teatro […] a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta»63 e che, secondo Claudio Meldolesi, quel «movimento rinnovatore degli studi
teatrali» apparve «imprevedibilmente alla metà degli anni '60 […] e […] rifluì circa dieci anni dopo»,64 dunque alla metà dei Settanta. In effetti, l'accordo sulla collocazione di questa prima fase
degli studi teatrologici italiani è pacifico e diffuso: da qualunque prospettiva, la nuova disciplina fa il suo debutto ufficiale intorno al 1965 (seppure con qualche pregnante precedente) e si consolida intorno al 1975, sia che si osservino le sue vicende dal punto di vista della produzione scientifica e dunque della pubblicazione dei lavori degli studiosi, che da quello dei passaggi del processo di strutturazione accademica della disciplina.
A questo livello, dunque, la scansione cronologica del processo di rifondazione degli studi teatrali in Italia è comunemente accettata e condivisa. Tuttavia, esistono almeno due nodi di problematizzazione di cui è necessario tenere conto, per comprendere le dinamiche di slittamento e trasformazione del paradigma disciplinare lungo il secondo Novecento e, a tempo debito, inquadrare i caratteri della teatrologia post-novecentesca. C'è, prima di tutto, da fare i conti con quello che in precedenza si è definito il tratto dell'“anomalia italiana”. Una volta annotate le condizioni peculiari all'interno di cui si esprime la nascita della nuova teatrologia – gli elementi contestuali propri della cultura del secondo dopoguerra e la doppia linea storiografica che è necessario osservare –, è possibile procedere ad analizzare come queste vadano a ricadere sulle possibilità di approccio alla ricostruzione delle vicende che hanno segnato il processo di rifondazione degli studi fra anni Sessanta e Settanta. Abbiamo visto come non sia possibile, infatti, considerarlo nei termini generici degli altri fenomeni similari in atto in altre geografie teatrologiche – con cui, comunque, vedremo mantiene diversi punti di condivisione –, date le particolari condizioni di accelerazione in cui tale processo va a svolgersi; inoltre, non si può nemmeno considerarlo nei termini dell'origine (accademica) della disciplina, dunque esclusivamente al livello del suo portato innovativo, come elemento di rottura tout court, ma è necessario immaginarne anche il collocamento in una dimensione di continuità rispetto alle stagioni precedenti (e successive) degli studi teatrali. Questo è valido indubbiamente per la ricostruzione di qualsiasi processo storico, ma, abbiamo visto, è una prospettiva che assume particolare pregnanza nel contesto del nostro oggetto di studio: sono i teatrologi stessi a imporre la crucialità della dimensione delle interazioni fra la rottura secondo-novecentesca in opera negli studi e la necessità di inserirla, a livello teorico- metodologico ma anche della pratica, in una tradizione di studi.
A questo elemento, va aggiunto un ulteriore nodo di problematizzazione, che ha invece a che fare con le possibili trasformazioni interne al processo di rifondazione degli studi. È indicativa, in questo senso, la già citata analisi di Marco De Marinis in Visioni della scena,65 che sarà qui utilizzata come
indicazione metodologica: lo studioso, infatti, descrivendo il processo di rifondazione della disciplina fra anni Sessanta e Settanta tanto nei termini di un aggiornamento – operato attraverso la
63 M. De Marinis, Fabrizio Cruciani (1941-1992), cit., p. 9.
64 C. Meldolesi, Il primo Zorzi e la “nuova storia” del teatro, cit., p. 41. 65 M. De Marinis, Visioni della scena, cit., p. 97.
definizione dell'oggetto-spettacolo e la conseguente indipendenza dall'approccio letterario – che valutandone i dati di originalità, rileva l'integrità di tale processo, ma sembra autorizzare anche ad ipotizzarne una possibile articolazione in almeno due aspetti distinti, seppure indissolubilmente legati. La riflessione di De Marinis pare invitare a interrogare le trasformazioni interne in opera in questa prima fase degli studi, che viene qui sì considerata nei termini di un processo unitario di rielaborazione della cornice epistemologica della disciplina, ma che è evidentemente anche opportuno analizzare secondo le singole parti che la vanno a comporre. Queste sono le ragioni per cui, nel presente capitolo, saranno affrontati contestualmente quelli che si sono precedentemente definiti come i due mutamenti-cardine dello sviluppo del paradigma disciplinare, il passaggio dal testo all'oggetto-spettacolo e da questi all'oggetto-teatro, che, nella teatrologia italiana, si manifestano a distanza di pochissimi anni. Sono anche i motivi di qualche sovrapposizione, di alcune salienti persistenze e, non ultima, di una difficoltà di perimetrazione cronologica netta, per quanto riguarda la storia degli studi teatrali in Italia nel momento della loro rifondazione.
In relazione a questi due nodi di problematizzazione, si danno, quindi, due diverse e interagenti necessità di rielaborazione della periodizzazione presa in esame:
– da un lato, è indispensabile tenere conto della storia della disciplina e degli studi alla luce di misure temporali più ampie;
– dall'altro, è opportuno ipotizzare l'esistenza di fasi intermedie di messa in discussione e ridefinizione, interne al processo di rifondazione degli studi.
Per cominciare da un versante più strettamente aderente all'oggetto di indagine, si tenterà di comprendere ora secondo quali criteri sia possibile sezionare l'unicum delle origini della teatrologia italiana in una serie di passaggi distinti, seppure intimamente legati. Si tratta, in particolare, di andare a tracciare i termini di quel momento di scarto che, secondo De Marinis, va a rappresentare allo stesso tempo un aggiornamento ma anche un superamento rispetto alle condizioni delle altre teatrologie occidentali.
La nuova teatrologia italiana si manifesta lungo gli anni Sessanta nei termini di un processo di rinnovamento degli studi che, rivendicando la propria autonomia, si trova a ridefinire innanzitutto il proprio oggetto di indagine (identificato nell'unitarietà del fatto spettacolare) e, di conseguenza, a proporre nuove strumentazioni e metodologie di lavoro, in gran parte focalizzate all'interno del campo storico-filologico. I nuovi storici del teatro rivendicano la necessità di una fondazione scientifica della disciplina attraverso l'utilizzo e l'analisi di fonti primarie, rigorose indagini documentarie, approcci filologico-critici capaci di mettere in discussione i dati e le categorie comunemente accettati; se in una fase iniziale gli studiosi si occupano (almeno Ferruccio Marotti e Cesare Molinari) delle avanguardie della regia internazionale, poco dopo, grossomodo nella seconda metà del decennio, rivolgono la propria attenzione anche ad altre tipologie di oggetti storici. Questo lavoro di rifondazione storico-critica è attivo almeno fino agli anni Settanta – e in ogni caso proseguirà poi, seppure con mutate forme e altri intenti –, ma, osservando lo stato della disciplina sul crinale del decennio, essa si presenta già profondamente trasformata: fanno il loro ingresso, nell'apparato strumentario della teatrologia, gli apporti delle avanguardie delle discipline storiche e delle scienze umane (complice l'attivazione a Bologna del Corso di laurea Dams); mentre l'oggetto di indagine subisce un processo di messa in discussione che è possibile leggere nei termini di un progressivo ampliamento e di una riconsiderazione del fatto spettacolare in senso relazionale. Dai primi anni Settanta infatti, l'attenzione dei teatrologi si concentra su altre dimensioni, giungendo a una considerazione più complessa del fatto teatrale: le interrogazioni sui rapporti fra arte e società, nozioni come quella di festa e città, l'approccio contestuale sono solo alcuni dei nuovi tratti che assume a questa altezza il profilo della nuova teatrologia italiana.
Per provare a comprendere le motivazioni e le dinamiche in atto a questa altezza, proveremo a spostare lo sguardo dagli studi alla scena; non tanto (o non solo) perché vedremo che proprio sul crinale fra anni Sessanta e Settanta i giovani teatrologi inaugurano una serie di rapporti fondanti con alcuni artisti del Nuovo Teatro: non è opportuno, forse, andare infatti a tracciare linee dirette di reciproca influenza, perché la condizione di “cerniera” degli studi, posti fra mondo della cultura e mondo della scena, impone di situarli certo accanto, ma non proprio in coincidenza agli avvenimenti che scuotono la società e il teatro di quegli anni. Vedremo come il laboratorio del pensiero teatrale si ritrovi sempre su un piano sfalsato rispetto a questi altri contesti, fra dinamiche di anticipazione e di assorbimento, spinte di preveggenza e rincorsa. La storia del Nuovo Teatro in Italia fra anni Sessanta e Settanta, invece, è da prendere in considerazione più che altro per provare a evocare le condizioni, le pressioni e le necessità che agitavano la ricerca di quegli anni, dunque più che altro per tentare di immaginare il profilo dell'ambiente su cui andavano a stagliarsi i primi passi della nuova teatrologia.
Del resto, l'arco di anni fra il 1967 e il 1970 è segnato, dentro e fuori dai teatri, come uno spartiacque epocale. Vediamo brevemente come è stato letto e interpretato dagli studiosi stessi, prendendo a riferimento due diverse riflessioni sul tema, rispettivamente di Ferdinando Taviani e di Marco De Marinis – studiosi la cui attenzione si è spesso rivolta a scavare le dinamiche in atto in questa fase della scena, le loro premesse e le loro conseguenze.
Taviani identifica un momento di rottura intorno al crinale fra i due decenni, anzi, inquadrando il processo di rinnovamento della scena coeva nei termini di «una doppia cesura» che si colloca fra anni Sessanta e Settanta: una spaccatura prima pratica e poi teorica, «prima uno strappo nell'ideologia teatrale, poi una frattura nell'intreccio materiale e nella solidarietà dei teatri»,66 sui cui
dati di differenza lo studioso invita a riflettere con attenzione, sia per valorizzare la specificità delle due diverse fasi del Nuovo Teatro, ma anche per comprenderne gli sviluppi successivi.
De Marinis, in un testo “a caldo” del 1977 – pubblicato diversi anni dopo in un volume interamente dedicato al tema, che reca un titolo emblematico: Ai limiti del teatro – definisce il Sessantotto una «data fatidica», in cui si avviano processi che si propongono di «mettere in discussione il teatro stesso come tale»: «una crisi della forma “teatro”» che si configura nei termini di una profonda rottura rispetto alle stagioni precedenti della ricerca, orientandola a partire dagli anni Settanta verso i territori della “dissoluzione” e della “dilatazione” dello specifico teatrale.67 Successivamente, De
Marinis dà alle stampe un lavoro dedicato alla ricostruzione delle vicende che hanno segnato l'ascesa e gli sviluppi del Nuovo Teatro, articolandone il processo in quattro diverse fasi fra il 1947 e il 1970; in particolare, il quarto e ultimo periodo, fra il '68 e il '70, secondo lo studioso è una fase di “prima crisi”. In questo contesto, il 1970 con cui si decide di chiudere il percorso di indagine, viene contestualizzato come «un anno che, ponendosi a conclusione dei rivolgimenti sessantotteschi, divide in modo piuttosto netto due “epoche”».68 La stessa impostazione torna anche
in riflessioni più tarde: lo studioso la riprende nei primi anni Duemila, andando a tracciare per «Culture Teatrali» una ulteriore articolazione della storia del Nuovo Teatro, che vede una prima fase «di avvento e di ascesa» fra il 1950 e il 1970 e una seconda, fra il 1970 e il 1985, « di diffusione di massa della ricerca e della sperimentazione» (per poi arrivare a quello che lo studioso identifica come nei termini di un terzo momento della ricerca, tuttora attivo).69 Per approfondire ulteriormente
i caratteri di questa soglia interna al rinnovamento della scena, si rimanda al capitolo del Nuovo Teatro specificamente dedicato alla questione, che si colloca in chiusura – il titolo è anche qui estremamente indicativo: Oltre il teatro –, approfondendo l'ipotesi della cesura rappresentata dal
66 Ferdinando Taviani, Cavaliere di bronzo, in Antonio Attisani (a cura di), Le forze in campo. Per una nuova
cartografia del teatro, Atti del convegno, Modena, 24-25 maggio 1986, Mucchi editore, Modena 1987, p. 191.
67 M. De Marinis, Verso un teatro necessario..., cit., p. 100.
68 Marco De Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Bompiani, Milano 1987, p. 4.
69 Marco De Marinis, Presentazione, «Culture Teatrali», II, 2-3, primavera-autunno 2000 (Quarant'anni di Nuovo
1970 all'interno della storia della neoavanguardia teatrale. L'indagine di questa fase illumina di una luce diversa anche le precedenti, autorizzando a immaginare l'esistenza di un percorso unitario fra le diverse fasi del Nuovo Teatro nel secondo Novecento:
«Il mio proposito è invece quello di guardare dentro alla “messa in crisi teatrale” […] che si verifica in maniera massiccia intorno al Sessantotto (inteso come evento storico e non come mero dato cronologico), diciamo più precisamente fra il 1968 e il 1970, e che rappresenta il punto d'approdo inevitabile del lungo itinerario del nuovo teatro […]. In effetti, volgendosi indietro a riconsiderare i capitoli che compongono questo libro, è facile accorgersi di come essi siano quasi tutti percorsi da uno stesso motivo, da una stessa struttura narrativa, la quale racconta di un continuo itinerario di fuga dal teatro, di una tensione ininterrotta al superamento dei limiti della scena […].»70
La messa in discussione delle strutture e delle istituzioni vigenti, così come la decostruzione dei concetti e delle categorie già date – nel nostro caso della concezione del “teatrale” –, sono elementi che si possono leggere con chiarezza anche in campi altri rispetto a quello agitato dalle neoavanguardie nella scena. In questo senso, si ritiene qui opportuno utilizzare le indicazioni di Taviani e De Marinis, in quanto esse permettono allo stesso tempo di considerare il processo di rinnovamento (della scena) nel secondo Novecento attraverso un filtro interpretativo unitario – quello della progressiva “fuga” dal teatro e dell'idea della doppia cesura –, ma allo stesso tempo anche di valorizzarne i diversi momenti, dunque di evidenziarne il ruolo di rottura, andando però a collocarne lo scarto non ai margini (all'innesco o alla conclusione), ma al centro stesso di tale processo.
Se le spinte rinnovatrici del dopoguerra, nelle diverse teatrologie occidentali, presiedono esperienze che si possono unitariamente definire – seppure con le doverose declinazioni locali – nei termini di una “rifondazione” della disciplina, in coincidenza alla ridefinizione dell'oggetto di studio in quanto fatto spettacolare, tale momento, per quanto riguarda gli studi teatrali italiani fra gli anni Sessanta e Settanta, sarà dunque osservato attraverso l'individuazione di più fasi che, beninteso, vanno considerate solo parzialmente in successione o, in ogni caso, più per comodità teorica che come concretizzazioni cronologiche effettive:
1) una fase aurorale (1965>1970), in cui il lavoro di alcuni studiosi pone il problema della definizione del nuovo campo di studi e definisce il proprio oggetto di indagine nei termini dello spettacolo teatrale: come si è già avuto modo di vedere, un momento in cui, per dirla con Marco De Marinis «si sviluppa una serie di ricerche che portano alla vera e propria fondazione teorica dei nostri studi teatrali, mediante una più adeguata definizione e concettualizzazione del loro oggetto» che permette ai nuovi teatrologi di «ridurre il gap che li aveva separati fino ad allora da quelli europei».71
2) una fase di prima elaborazione (1970-1975), in cui l'incontro con le avanguardie della scena da un lato e quelle delle scienze storiche e umane dall'altro conducono a un progressivo ampliamento del campo di indagine che presiede il passaggio dallo studio dell'oggetto-spettacolo a quello dell'oggetto-teatro: si tratta del momento in cui la nuova teatrologia – sempre riprendendo l'indicazione storiografica di De Marinis – «si è mostrata capace di affrontare criticamente e spesso di superare
70 M. De Marinis, Il nuovo teatro..., cit., p. 235. 71 M. De Marinis, Visioni della scena, cit., p. 97.
brillantemente molte delle difficoltà, degli scogli, su cui si era incagliata la vecchia teatrologia di matrice europea».72
Una volta espressa la proposta di una possibile articolazione interna che inquadra, nel continuum del processo di rifondazione della teatrologia italiana, almeno due fasi di rielaborazione e ridefinizione distinte che si vanno a incontrare – per certi versi anche a sovrapporre e intrecciare – fra il 1968 e il 1970, è possibile ricomprendere nel discorso l'altro nodo di problematizzazione che ha imposto una riconsiderazione dei criteri di periodizzazione rispetto all'oggetto di indagine, con il proposito di giungere a proporre una scansione temporale adeguata per inquadrare le vicende del processo di rifondazione degli studi teatrali in Italia. La stratificazione e la complicazione dei fenomeni qui individuati, infatti, non esorbita soltanto nelle relazioni interne allo schema proposto, fra quelli che si sono definiti come la prima e la seconda fase di slittamento del paradigma disciplinare, ma anche rispetto a momenti precedenti e successivi a quelli presi in esame.
I due momenti qui delineati, infatti, sono stati selezionati per inquadrare nel dettaglio le vicende che hanno segnato le rispettive fasi di ridefinizione disciplinare, ma risulterebbero per molti versi poco comprensibili se completamente estratti dal contesto più ampio della storia della teatrologia novecentesca. In particolare, le stagioni precedenti degli studi vanno a costituire un riferimento, non solo cronologico, fondante anche per gli studi italiani; si vedrà, fra l'altro, che il fenomeno inquadrato fra gli anni Sessanta e Settanta non consiste in un vero e proprio processo di fondazione di una nuova disciplina: come si è già accennato in precedenza, il rinnovamento che coinvolge le teatrologie occidentali a questa altezza cronologica si può anche legittimamente considerare in quanto compimento di processi di rielaborazione già inaugurati e come assorbimento delle conseguenze teorico-metodologiche implicite in sperimentazioni preesistenti. Si può ipotizzare, insomma, che il processo di rifondazione in atto nella seconda metà del Novecento appartenga a tutti gli effetti a quello di una lunga maturazione epistemologica inaugurata da una tradizione di studio precedente, cui gli studiosi stessi fanno spesso riferimento.
Per quanto riguarda le fasi successive rispetto alla scansione cronologica presa in esame in questo capitolo, si porrà l'accento su un passaggio determinante tanto per il Nuovo Teatro che per la nuova teatrologia, che, prendendo le mosse dalle fruttuose esperienze di risonanza e condivisione avviate fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta, si affaccia alla fine del secolo attraverso caldi momenti di dibattito, forti pressioni di ridefinizione e, certo, qualche caso di estremizzazione delle posizioni – elementi che, si vedrà, pur nella loro urgenza e contingenza, vanno a porre le basi per quei processi di ricomposizione che si ipotizzano segnare i profili della teatrologia italiana postnovecentesca. Nel nostro Paese, l'esperienza della contestazione è forse più che un evento, può rappresentare l'emergere di tensioni (socio-politiche, culturali, artistiche) di durata almeno medio- lunga; o, meglio, il Sessantotto italiano si avvia certo a una chiusura repentina, per poi riemergere, con incidenza altrettanto saliente, con l'avvio e la conclusione del Movimento del '77. Per restare entro i confini teatrali, è questa l'epoca in cui si fronteggiano idee differenti, incontrandosi e scontrandosi su terreni di discussione che segneranno geneticamente i profili della disciplina: le opposizioni, certo ormai superate ma in ogni caso tuttora storicamente significative, fra “teatro del corpo e del gesto” e “teatro di parola”, fra “drammaturgisti” e “spettacolisti”, fra Terzo Teatro e Postavanguardia, vanno oggi a rappresentare, come una cartina tornasole, dello «stato di ebollizione» di una disciplina all'epoca ancora in stato di invenzione.
Quella che abbiamo precedentemente definito come “anomalia” italiana, infatti, presenta dunque un effetto almeno duplice sul disegno di una possibile cronologia delle vicende che hanno segnato la disciplina, di cui è necessario tenere conto:
1) come si è visto, tende ad avvicinare i due momenti di slittamento del paradigma disciplinare – il passaggio nella definizione dell'oggetto di studio dal testo allo spettacolo e dallo spettacolo al teatro, altrove più nettamente distanziati, seppure ovviamente legati fra loro –, arrivando a comporre un continuum di rielaborazione epistemologica che autorizza a ipotizzare l'esistenza di un unico slittamento di paradigma in due momenti, più che a definire due diverse fasi di lavoro connesse ma chiaramente distinte e distinguibili;
2) inoltre, questo tipo di “compressione”, invece che segnare – come tradizionalmente si vorrebbe nell'osservazione dei movimenti di un paradigma disciplinare – i momenti di rottura che conducono alla ridefinizione del campo e della cornice teorico-metodologica, sembra contestualmente porre l'accento su aspetti più continuisti, rimandando di frequente a stagioni precedenti e successive della storia disciplinare.
L'osservazione di dinamiche, di più difficile perimetrazione, ma altrettanto fondanti, ai margini delle ridefinizioni occorse all'oggetto degli studi teatrali autorizzano un'ipotesi di scomposizione dello schema che descrive lo sviluppo del paradigma disciplinare così come si è osservato finora,