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L A DIFFERENZA TEATRALE I POTESI DI LAVORO INTERCULTURALE NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI S ETTANTA VERSO UNA RICONSIDERAZIONE DELLA LOGICA DELL ' EFFICACIA

2. S VILUPPO DELLA NUOVA TEATROLOGIA

2.3 LE TRASFORMAZIONI DELL'OGGETTO DI STUDIO O LTRE L ' OGGETTO SPETTACOLO , DENTRO L ' OGGETTO TEATRO

2.3.2 L A DIFFERENZA TEATRALE I POTESI DI LAVORO INTERCULTURALE NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI S ETTANTA VERSO UNA RICONSIDERAZIONE DELLA LOGICA DELL ' EFFICACIA

Fra gli anni Settanta e Ottanta, le teatrologie occidentali sembrano aprire i propri orizzonti a nuove geografie della cultura teatrale: in questo momento, infatti, si presentano nuovi oggetti di studio, come – per fermarsi al contesto italiano – i teatri asiatici (in primis indiano e del Sud-Est) e le forme di teatro popolare dell'Est-Europa (dall'agit-prop sovietico in poi); si inaugurano percorsi di riflessione come la teoria della performance di Richard Schechner e l'antropologia teatrale di Eugenio Barba, che prendono entrambe in considerazione, fin dalla fine degli anni Settanta, anche forme performative extra-occidentali. Non si tratta, ovviamente, solo di geografia: il problema dell'alterità culturale del teatro (di altri teatri), così come viene definito in questi studi, agisce su ben altri piani, soprattutto socio-antropologici. Ma, vedremo ora, che il punto non è – non soltanto, non principalmente – quello dell'istituzione di una prospettiva di lavoro inter- o trans-culturale. Si tratta, ancora una volta, del percorso concettuale svolto dalla logica dell'efficacia negli anni Settanta e della sua declinazione attraverso l'adozione della prospettiva pragmatica sul crinale dei primi Ottanta.

Indizi, in questo senso, si possono cogliere nelle posizioni a riguardo dei teatrologi occidentali, che comunemente concordano nel collocare più avanti sia l'innesco della costituzione della prospettiva interculturale, che i suoi successivi sviluppi, andando a tracciare una scansione cronologica che grossomodo si situa dieci-quindici anni dopo rispetto al periodo che stiamo prendendo in esame. Marvin Carlson, studioso statunitense che è tornato spesso a riflettere sulle linee di sviluppo degli studi teatrologici, nel suo Teorie del teatro, individua, infatti, il momento di maggior espressione della prospettiva interculturale in questo campo di studio alla fine degli anni Ottanta:

«Nel corso degli anni Ottanta, il sempre più forte interesse della teoria semiotica per il ruolo del pubblico ha naturalmente comportato una maggiore attenzione nei confronti della collocazione sociale, culturale e politica dell'evento teatrale. La dimensione sempre più internazionale del teatro, i progetti interculturali di registi di primo piano come Ariane Mnouchkine, Eugenio Barba e Peter Brook, l'interesse sempre più vivo riscosso dal teatro fuori dai circuiti culturali tradizionali hanno favorito, verso la fine del decennio, lo sviluppo di studi interculturali».417

È interessante notare come lo studioso vada a legare il fenomeno di questa “fioritura” alla linea genealogica che appartiene all'impostazione semiotica, in particolare a quella sua successiva revisione in senso pragmatico-relazionale che vede – quantomeno nel mondo anglosassone – diffondersi l'attenzione per lo studio dell'attività spettatoriale (insieme alle coeve trasformazioni nel teatro di alcuni dei maggiori artisti della neoavanguardia). Subito dopo, Carlson specifica ancora di più la propria ipotesi, portando a riprova i mutamenti incorsi nelle prospettive teoriche di alcuni fra i maggiori semiotici del teatro continentali: secondo lo studioso, sia il percorso di Patrice Pavis che

417 Marvin Carlson, Theories of the Theatre. A Historical and Critical Survey, from the Greeks to the Present, Cornell

University Press, Ithaca 19932 (1984); trad. it. Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna

quello di Erika Fischer-Lichte – due fra i maggiori esponenti dell'“avventura semiotica” della teatrologia –, negli anni Novanta, si riorienta su versanti di carattere interculturale.418

Anche la prospettiva di Pavis stesso si muove su una scansione cronologica simile: andando, all'inizio del nuovo millennio, a ripercorrere le vicende dei rapporti interdisciplinari che hanno segnato gli sviluppi della teatrologia occidentale nel secondo Novecento, lo studioso situa l'avvento della fase interculturale alla fine degli anni Ottanta, in coincidenza alla diffusione delle teorie dell'antropologia teatrale di Eugenio Barba e di quelle sulla performance di Richard Schechner, per individuarne poi il limite cronologico alla fine dei Novanta, quando, secondo lo studioso, il paradigma disciplinare si riassetta orientandosi su processi di ristoricizzazione della ricerca e delle sue metodologie.419

La proposta di collocare l'apice del lavoro e del pensiero interculturale all'interno degli studi teatrali occidentali fra anni Ottanta e Novanta è senza dubbio legittima: vedremo nel capitolo dedicato agli studi post-novecenteschi come si possa parlare, in effetti, di una prospettiva propriamente inter- e trans-culturale oltre il Novecento teatrale; tuttavia, abbiamo già visto come – per restare nel quadro impostato da Pavis – le idee legate all'antropologia teatrale di Eugenio Barba vengano presentate e diffuse alla fine degli anni Settanta (con la fondazione dell'Ista e la pubblicazione del testo- manifesto Antropologia teatrale), così come le teorie della performance di Richard Schechner, la cui antologia Performance Theory, nel 1977, comprende già contributi di dichiarata impostazione interculturale, andando a combinare anch'essa in un'opzione di prospettiva unitaria analisi di fenomeni performativi orientali e occidentali.420 In questo senso, la diffusione di nuovi nodi di

interesse teatrologici nella seconda metà degli anni Settanta legati ad altre culture teatrali si potrebbe leggere a tutti gli effetti come una fase pionieristica di quello che, successivamente, sarà riconosciuto dagli studi come un approccio inter- e trans-culturale, che a partire dagli anni Novanta contribuirà non poco a segnare le modificazioni della cornice epistemologica della disciplina; e si potrebbe pacificamente affermare, dunque, che questo momento, a posteriori, va letto come una dovuta premessa teorico-metodologica, all'interno di cui tale possibilità di approccio si affaccia agli orizzonti degli studi (ferma restando la centralità del mutamento post-novecentesco cui fanno riferimento Carlson e Pavis).

Se accogliamo la prospettiva dei due studiosi – in cui si propone, appunto, di considerare la fase interculturale degli studi teatrologici in termini di rapporto in parte causale rispetto a quella semiotica, dunque in un certo senso come sua derivazione – e la caliamo nel contesto degli studi italiani (dove, si è visto, l'“avventura semiotica” si sviluppa grossomodo fra il 1974 e il 1982), è

418 Carlson cita a riferimento due antologie curate da Pavis e da Fischer-Lichte all'inizio degli anni Novanta: Theatre at

the Crossroads of Culture (Routledge, London-New York 1992) di Patrice Pavis – che raccoglie diversi testi scritti

dallo studioso fra il 1983 e il 1988 sul tema dei rapporti fra teatro e altre culture – e The Dramatic Touch of

Difference. Theatre, Own and Foreign (Gunter Narr, Tübingen 1990), volume che riunisce diversi contributi

sull'interculturalismo teatrale nel Novecento, co-curato da Erika Fischer-Lichte con Josephine Riley e Michael Gissenwehrer (Ibidem).

L'ipotesi, a posteriori, sarebbe naturalmente estendibile anche al caso italiano, ma è preferibile seguire il filo interpretativo proposto da Marvin Carlson che – pure includendo, in altri momenti, la nostra geografia teatrologica nel proprio campo di indagine, e anche conferendole una certa centralità – non inserisce queste esperienze di ricerca nel suo ragionamento. Anche su questi versanti, infatti, così come è opportuno considerare la mappatura delle teatrologie occidentali nel loro insieme e dunque dal punto di vista degli elementi ricorrenti, è altrettanto necessario rilevare, attraverso l'analisi, il dato della differenza italiana, come si vedrà nel dettaglio a breve.

419 «The historical moment has to be redefined every ten years if one wants to follow the changes of the

epistemological paradigm over the last thirty years: […] 1988-1998 – theatre anthropology (influenced by Schechner and Barba); performance and interculturalism; the sociology of the theatre (Shevtsova)».

(«Se si vuole seguire i cambiamenti del paradigma epistemologico negli ultimi trent'anni, il passaggio epocale si va a ridefinire ogni dieci anni: […] 1988-1998 – antropologia teatrale (influenzata da Schechner e Barba); performance e interculturalismo; sociologia del teatro (Shevtsova)».)

Patrice Pavis, Theatre Studies and Interdisciplinarity, «Theatre Research International», 26.2, July 2001, p. 155.

difficile considerare i primi contributi su tematiche extra-occidentali (che si manifestano nella seconda metà degli anni Settanta) della nuova teatrologia nel quadro di un innesco, per quanto precoce, di una prospettiva inter- o trans-culturale. Proviamo ora a sciogliere il nodo di questa apparente contraddizione andando a prendere in esame gli studi compiuti in questo campo dalla teatrologia italiana fra anni Settanta e Ottanta.

È in questo momento, in effetti, che fanno capolino le prime sperimentazioni di alterità cultural- teatrale nel campo di studio: Ferruccio Marotti, da un lato, inaugura un campo di indagine che, attraverso diverse esperienze, lo condurrà allo studio della gestualità performativa nelle culture indiana e balinese; parallelamente, Nicola Savarese intraprende invece un percorso di ricerca che, sempre a partire dalla teatralità orientale, presenta già in nuce alcune delle sue successive proposte più importanti, in particolare, da un lato, per quanto riguarda il sistema dei rapporti fra Oriente e Occidente e, dall'altro, legandosi già all'opzione dell'istituzione di una prospettiva unitaria (“eurasiana”) per lo studio di alcuni aspetti teatrali e culturali fra Europa e Asia. Ci occuperemo ora del lavoro di Marotti – per ragioni di pertinenza rispetto al nostro ragionamento che espliciteremo a breve –, mentre a quello svolto Savarese sarà dedicato ampio spazio in seguito.

Ferruccio Marotti compie il primo viaggio a Bali nel 1968. Vi tornerà più volte, accompagnato da una troupe cinematografica, per realizzare un documentario sulle pratiche performative locali. Da lì, comincia una ricerca che durerà diversi anni, i cui esiti si risolvono, a metà degli anni Settanta, in due film documentari – Trance e dramma a Bali, del 1974, e Bharatha Natyam, del 1975421 – e,

successivamente, in due volumi che sistematizzano e analizzano l'esperienza di ricerca: Trance e dramma a Bali (1976) e Il volto dell'invisibile (1984);422 ma anche, più in generale, nell'apertura di

un campo di studio inedito per la teatrologia italiana, quello legato ai teatri cosiddetti orientali, che si configura proprio fra anni Settanta e Ottanta.423

Per capire come, con Carlson e Pavis, non si possa però propriamente parlare, a questa altezza, di una fase inter- o trans-culturale della teatrologia, è interessante soffermarsi sulle ragioni che hanno spinto lo studioso a intraprendere il proprio percorso in Oriente, che Marotti esplicita nel dettaglio nell'introduzione del suo Trance e dramma a Bali, volume direttamente legato a quell'esperienza di viaggio e alla relativa produzione cinematografica, di cui è, nei fatti, un resoconto piuttosto dettagliato. Marotti individua, in particolare, due ordini di motivazioni che ne hanno stimolato la ricerca: uno di carattere antropologico e uno di carattere semiotico. Tale duplice indicazione è quanto mai preziosa, in questo contesto, per comprendere come l'impostazione del lavoro di Marotti non vada a inserirsi soltanto nel contesto dei consistenti precedenti dell'approccio interculturale o di un interculturalismo teatrologico ante litteram, ma come essa sia profondamente legata ad ulteriori ordini di esigenze, che hanno più che altro direttamente a che fare con altre pressioni teorico-

421 Per le informazioni sui film di Ferruccio Marotti, cfr. Nicola Savarese, Film didattici per il teatro (Interviste a

Mario Raimondo, Torgeir Wethal, Paolo Benvenuti, Ferruccio Marotti), «Biblioteca Teatrale», V, 13, 1975, pp. 49-

89.

422 Ferruccio Marotti, Trance e dramma a Bali. Per un teatro della crudeltà, Studio Forma, Torino 1976; Id., Il volto

dell'invisibile. Studi e ricerche sui teatri orientali, Bulzoni, Roma 1984.

423 Nel 1981 le attività del Centro Teatro Ateneo dell'Università di Roma, guidato da Marotti, si inaugurano con un

progetto di studio dedicato ad Artaud, che comprende anche il teatro balinese, e si articola in un programma di spettacoli, video-proiezioni, mostre e seminari; tre anni più tardi, nell''84, sempre il Centro Teatro Ateneo ospita il convegno annuale internazionale della IFTR (International Federation for Theatre Research, l'associazione internazionale degli studi teatrali), organizzando un grande progetto di studio intitolato Teatro Oriente/Occidente che riunisce in diversi giorni di convegno studiosi, artisti ed esperti orientali e occidentali intorno all'analisi di differenti culture teatrali orientali (dal Giappone alla Cina, dall'India al Medio Oriente) e a temi di grande attualità, come il fenomeno dell'“orientalismo” nella storia della cultura occidentale; importante segnalare, oltre l'importanza scientifica di questi due progetti, anche la presenza di nuovi e più giovani studiosi, alcuni dei quali andranno successivamente a occuparsi direttamente dei temi in questione. Cfr. Luciano Mariti, Roberto Ciancarelli (a cura di),

Progetto Artaud / L'utopia del teatro. Parte prima. L'attore e il suo doppio. Il teatro magico dell'isola di Bali. 13-18 giugno 1981, Università degli Studi di Roma – Centro Teatro Ateneo, 1981; Antonella Ottai (a cura di), Teatro Oriente Occidente, Bulzoni, Roma 1986.

metodologiche, all'epoca ben più urgenti e attive all'interno degli orizzonti disciplinari della nuova teatrologia.

La messa in relazione di questi due livelli teorico-metodologici è già di per sé significativa rispetto alle possibili interazioni pluridisciplinari che si andavano sperimentando nella nuova teatrologia fra gli anni Settanta e Ottanta. In particolare, l'ordine di motivazioni che pertiene al versante semiotico è rappresentativo del radicamento di tale approccio all'interno degli studi teatrali italiani, all'interno di cui Marotti seleziona, in particolare, il problema della gestualità, che è – a scorrere il volume – l'oggetto di studio precipuo della ricerca. Ancora più interessante ai fini del presente discorso è il secondo livello, quello delle ragioni che lo studioso definisce di carattere antropologico; in particolare, andando ad articolare tale ambito in due momenti successivi, questa riflessione, più che testimoniare di un tentativo pionieristico di sperimentazione dell'approccio interculturale, offre soprattutto l'opportunità di osservare i possibili termini di un mutamento in corso negli studi teatrali degli anni Settanta – tenendo conto che la ricerca dello studioso, si è detto, si svolge fra il 1968 e almeno il 1976 – per certi versi molto prossimo a quelli che abbiamo osservato in opera in altri contesti, prima di tutto quello della scena di ricerca coeva. In un primo momento, dichiara Marotti, la motivazione si lega a una rivendicazione dell'importanza del contesto socio-antropologico in cui agisce l'esperienza teatrale, ed è quella del confronto con un teatro (quello balinese) «ancora necessario»; scrive lo studioso, nell'introduzione al volume:

«Perché, dovendo studiare il teatro in culture orientali, o comunque diverse da quelle occidentali, occorre attraversare una zona sociale per contestualizzarlo, mentre il contesto viene trascurato nello studio del teatro occidentale? La risposta è brutale. Nella cultura presa in considerazione nel film il teatro è ancora un fatto antropologicamente necessario».424

Poco dopo, Marotti trae da questo assunto una serie di conseguenze teoriche che si potrebbero leggere come un vero e proprio manifesto, però in senso teatrologico, di quello che, nelle pagine precedenti, abbiamo affrontato nei termini di un mutamento, negli anni Settanta, del teatrale nell'ordine del suo valore d'uso:

«Ciò che ci interessa non è lo spettacolo, ma il suo progetto, le motivazioni di ordine antropologico e sociale che sono alla sua radice, e, dopo, la sua funzione, e la risonanza nella società».425

Quella che, a un primissimo impatto, sembrava una strana forma di contraddizione fra i fatti (l'avvento di una prospettiva interculturale già nella seconda metà degli anni Settanta) e la loro successiva interpretazione (con i teatrologi che ne collocano invece l'operatività dieci-quindici anni dopo), dunque, si rivela duplicemente utile:

a) da un lato, può servire a rintracciare linee genealogiche inedite del radicarsi del problema dell'alterità (non solo in senso geografico) in campo teatrologico, di cui è possibile valutare le premesse – diversamente dalla diffusa opzione anglosassone del post-coloniale, che prenderemo in considerazione più avanti – nel contesto dei mutamenti teatrali e socio-culturali degli anni Settanta;

b) dall'altro, questa contraddizione apparente diventa, se possibile, ancora più preziosa per aprire la prospettiva analitica a opzioni interpretative altre sul fenomeno del presunto interculturalismo teatrologico ante litteram: quello che accade nelle

424 F. Marotti, Trance e dramma a Bali, cit., p. 10. 425 Ibidem.

teatrologie occidentali degli anni Settanta, infatti, non va letto esclusivamente nei termini di una premessa al successivo dibattito inter- e trans-culturale, ma si può anche considerare – al di là (o, anzi, proprio in virtù) dell'oggetto che prende in esame – attraverso prospettive differenti, che includono, ad esempio, per restare al caso di Marotti, l'innesto, in Italia, del progetto strutturalista o le pressioni socio- culturali e politiche che, all'epoca, andavano agitando il mondo del teatro e della cultura.

A questo livello, è interessante notare come, anche sulla scorta delle indicazioni di Carlson e Pavis, sia possibile accantonare momentaneamente quel livello di lettura preliminare – diciamo “pre- interculturale” – che propone la dimensione della differenza culturale così come è stata concepita negli anni Settanta come una sorta di premessa per il dibattito successivo, e, anzi come sia possibile in parte eliminare l'eventualità di tali incrostazioni interpretative successive, con il loro esplicito rischio di determinismo, e andare a leggere il fenomeno anche secondo prospettive differenti; in particolare, restituendogli una serie di dati di corrispondenza rispetto, invece, a uno dei campi di discussione più fertili e vivaci della cultura di cui fa parte, quello che fa capo alla “logica dell'efficacia” (così come l'ha definita, abbiamo visto, Richard Schechner, e secondo la lettura genealogica che ne dà Jon McKenzie) e al discorso sul teatro come valore d'uso.

Oltre alle ricerche che, durante gli anni Settanta, si attivano nel campo delle forme performative orientali, c'è un ulteriore territorio di ricerca che vi si potrebbe per certi versi accostare, almeno in apparenza, sempre nel contesto dell'avvento del discorso dell'alterità in ambito teatrologico: il confronto con il vario e frastagliato territorio del “teatro popolare”, in particolare con quello cosiddetto agitprop, che, pure prendendo forma (e nome) nella Russia rivoluzionaria di inizio secolo, come oggetto teorico si esprime, in modo differente, a diversi livelli geografici e cronologici almeno lungo tutto il Novecento. Non che il rapporto fra i primi studi teatrologici extra-occidentali in Asia e le ricerche sulle stagioni della teatralità popolare e politica sovietica si possano avvicinare esclusivamente sul piano della sperimentazione della possibilità di istituire materie di indagine altre rispetto a quelle occidentali; il punto qui, ancora una volta, sgombrando il campo da tentazioni esotiste facili quanto a rischio di forzatura, è quello dell'efficacia del teatro: dell'analisi delle funzioni e delle potenzialità del teatrale nella e per la società in cui opera, vale a dire, del teatro rispetto al suo valore d'uso; una prospettiva comunque di chiara afferenza socio-antropologica e legata al problema della differenza culturale del teatro (di un certo tipo di teatro), ma di tutt'altro segno rispetto a quelle che più avanti vedremo all'opera nella fase propriamente interculturale della nuova teatrologia.

Scrive Fabrizio Cruciani alla fine degli anni Settanta, presentando Il teatro creativo di Keržencev, grande teorico della cultura proletaria (anche teatrale) e operatore estremamente attivo fra Russia e Germania a inizio Novecento:

«Il rinnovamento del teatro (su cui l'accordo era unanime), fu, in prima istanza, una necessità etica di chi lo faceva, l'esigenza di una direzione e di una consistenza in una società non più comprensibile; il rifiuto del mercato e delle sue leggi fu il bisogno di leggi estetiche e/o politiche con cui dare un ubi consistam al fare teatrale, la sua giustificazione in senso forte. […] Si reagisce con fastidio al teatro che si giustifica in riferimento al pubblico; il teatro deve cambiare se stesso e la società in cui agisce».426

426 Fabrizio Cruciani, Introduzione, in Platon Michajlovič Keržencev, Il teatro creativo. Teatro proletario negli anni

Venti in Russia, Bulzoni, Roma 1979 (trad. dall'edizione tedesca Des schöpferische Theater, Hamburg 1922; 1a ed.

E, poco dopo:

«Al teatro viene assegnato il dovere di giustificare la propria esistenza (anche là dove questo conduce alla sua abolizione o al suo trasformarsi in altro o in silenzio) e di conseguenza il compito di progettare se stesso e il proprio valore e il proprio uso».427

In questo «manuale per gli operatori che debbono organizzare il “nuovo” teatro»,428 scritto e

riveduto diverse volte negli anni Venti, si raccolgono i presupposti di quelle «richieste radicali» che Keržencev, a partire dalla sorprendente fioritura di attenzione teatrale, avanzò alla Russia post- rivoluzionaria: dalla nazionalizzazione dei teatri che avrebbero poi dovuto essere affidati alle compagnie proletarie all'invio in provincia dei gruppi professionistici, dalla “dilatazione” del teatro nelle masse ai processi di creazione collettiva – tutte proposte inquadrate in un più ampio programma di radicale autonomizzazione del proletariato e di appropriazione, da parte di esso, degli strumenti e dei sistemi produttivi (anche culturali e teatrali).429

«Tutto il teatro è alla ricerca di un suo senso […]. Tutto sembra fondarsi su un nuovo teatro e una nuova società e sul loro reciproco rapporto». E la Russia post-rivoluzionaria è «il luogo in cui si “mettono alla prova” queste istanze».430 Non casualmente, nella produzione teatrologica italiana

della seconda metà degli anni Settanta, vedono la luce diverse pubblicazioni legate a vario titolo al teatro di agitazione e propaganda di matrice sovietica e, di lì, al più ampio campo degli usi politici

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