• Non ci sono risultati.

L A NASCITA DELLA NUOVA TEATROLOGIA IN I TALIA T ENTATIVI DI APPROCCIO ALL '“ ANOMALIA ” Si è già accennato nel capitolo precedente di come quello italiano vada a costituire – per quanto

1. O RIGINI DELLA NUOVA TEATROLOGIA

1.1.1 L A NASCITA DELLA NUOVA TEATROLOGIA IN I TALIA T ENTATIVI DI APPROCCIO ALL '“ ANOMALIA ” Si è già accennato nel capitolo precedente di come quello italiano vada a costituire – per quanto

riguarda lo sviluppo degli studi teatrologici, ma naturalmente non soltanto in questo contesto – un caso anomalo: come anche in altre geografie degli studi, si individuano due slittamenti di paradigma – che si possono riassumere nel passaggio dallo studio del testo all'oggetto-spettacolo e nel successivo orientamento verso la considerazione del fatto teatrale in senso relazionale – che hanno origine ed esito in una progressiva ridefinizione dell'oggetto di indagine, ma si irradiano anche nei diversi strati dell'approccio teorico-metodologico, giungendo a ristabilire i termini della cornice epistemologica stessa della disciplina. Se altrove tali mutamenti si collocano all'interno di un processo di maturazione di ampio respiro – che si sviluppa grossomodo lungo tutto l'arco del ventesimo secolo –, gli omologhi gesti teorici che hanno luogo all'interno dei confini italiani si presentano in rapida successione, quasi a ridosso l'uno dell'altro. In altre geografie teatrologiche occidentali – come quella tedesca, anglosassone o francese, per citare i casi più noti – l'iniziale svincolamento degli studi teatrali dal dominio letterario si manifesta nel primo Novecento, con la definizione dello spettacolo come oggetto di studio della neonata disciplina, e successivamente, grossomodo nella seconda metà del secolo, si assiste ad un ampliamento dei confini tematici e teorico-metodologici che conducono ad un'accezione più estesa e complessa dei fenomeni performativi, inquadrati soprattutto attraverso una prospettiva relazionale; in Italia, questi eventi si susseguono fra gli anni Sessanta e Settanta, andando a costituire quasi un fenomeno di ridefinizione unitario, che potremmo inquadrare nei termini di un vero e proprio continuum di rielaborazione teorica destinato a segnare in profondità il profilo degli studi teatrali nel nostro Paese.

La particolare prossimità fra i successivi movimenti del paradigma disciplinare implica l'esistenza di intrecci e sovrapposizioni specificamente locali di cui è necessario tenere conto, anche se, come è già stato ribadito, l'inquadramento del fenomeno si mantiene su coordinate prospettiche di più ampio respiro geografico e culturale; in particolare, tale condizione anomala esercita forme di influenza, ad esempio, sull'incardinamento del processo di rifondazione degli studi all'interno di una scansione cronologica capace di esprimerne le diverse fasi di articolazione, aprendo il campo a possibilità di periodizzazione del tutto peculiari. Non si tratta, però, soltanto di puntigli storiografici, è bene metterlo subito in chiaro: si vedrà nell'ultima fase di questa storia come questo dato – l'esistenza di un certo “ritardo” nella cultura (teatrale) italiana e le esigenze di aggiornamento che provoca – comporti conseguenze decisamente significative per la definizione del paradigma disciplinare e, in particolare, come possa essere utilizzato per spiegare alcune singolarità altrimenti difficilmente comprensibili.

Prima di procedere a illustrare le ipotesi formulate a riguardo, il problema merita di essere contestualizzato, sia internamente che esternamente, rispetto alla storia degli studi teatrali, del teatro stesso e della cultura italiana del secondo Novecento.

Quello del cosiddetto “ritardo” italiano è un processo variamente inquadrato e definito a più riprese, ovviamente non solo in ambito teatrologico; si ritiene però opportuno cominciare ad affrontare la questione proprio dai territori interni alla disciplina, per valutare come il problema si sia percepito – e in qualche caso anche tentato di risolvere – dagli studiosi stessi. Così comincia un contributo di Mirella Schino, proprio Sul “ritardo” del teatro italiano, che indaga le ragioni e le modalità (anomale) delle relazioni fra la novità registica, che si tenta di importare fin da inizio secolo, e la resistenza della lunga tradizione attoriale del Paese:

«Nel secondo dopoguerra, si ritiene che la parola più significativa per descrivere la situazione teatrale italiana sia “ritardo”. Indica urgenza di trasformazione e bisogno di regia e di Teatro Stabile. Indica, soprattutto, fastidio per una sfasatura rispetto al resto dell'Europa».48

La studiosa – che a lungo si è occupata, da diversi punti di vista, della questione – procede poi all'identificazione di una genealogia del concetto di “ritardo” che è utile richiamare: l'idea, pur essendo diffusamente in opera soprattutto nel secondo dopoguerra, si presenta già nel Tramonto del grande Attore di Silvio d'Amico, edito nel 1929. Anche su questi versanti, la proposta di d'Amico fungerà da apripista e si collocherà a riferimento per la successiva impostazione del dibattito sullo stato del teatro italiano, ruolo di cui si trova ad esempio traccia – ricorda la studiosa – nelle voci dell'Enciclopedia dello Spettacolo, ma anche nei primi contributi in materia registica (oltre lo stesso d'Amico, fra gli altri, anche Tofano e Pandolfi) e nelle prese di posizione degli artisti; fra queste, Schino sceglie emblematicamente di citare una riflessione di Strehler, che spiega quella necessità di colmare il ritardo italiano attraverso una volontà “di entrare nel secolo” – un secolo «già giunto quasi alla metà», rileva giustamente la studiosa.49

Per tentare un approccio alle condizioni, alle motivazioni e alle vocazioni del teatro italiano di quegli anni, Schino propone di affrontare il dato di differenza a tutti gli effetti attivo all'epoca, sostituendo la categoria del “ritardo” – a suo avviso, un concetto che «possiede singolari doti di imprecisione» – con la prospettiva di Claudio Meldolesi, che, tornando di frequente, nei suoi lavori, su questo problema, ha deciso di inquadrarlo piuttosto nei termini dell'“anomalia”:50

«Claudio Meldolesi, occupandosi degli anni Cinquanta, ha notato come sia necessario mettere in luce non tanto la condizione di ritardo dell'Italia e la conseguente necessità di “aggiornamento” registico, quanto il carattere “durevolmente anomalo” che le condizioni italiane hanno imposto al rapporto tra scena nazionale e regia».51

Una volta annotata questa possibile revisione dell'impostazione del problema della differenza italiana, è tempo di spostare l'attenzione sui contesti e le fasi storiche che pertengono più strettamente l'oggetto della presente indagine, per comprendere come la situazione che abbiamo delineato – con Schino e Meldolesi – nei termini di un'“anomalia” vada a declinarsi su altri versanti. È possibile, infatti, rinvenire le ragioni di esistenza di simili condizioni, del tutto peculiari, nel contesto della particolare situazione socio-politica italiana del dopoguerra: il Paese si trova ad affrontare rapidamente processi di modernizzazione che altrove – pensiamo al mondo anglosassone e mitteleuropeo – si erano, pur faticosamente, sviluppati e consolidati nel corso di svariati decenni. Dall'espansione industriale all'avvento, altrettanto celere, della società di massa, non fa eccezione il teatro, che si trova ad assorbire dati di novità di altrettanto spessore:

«In pochissimo tempo, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, l'Italia – paese senza un'autentica borghesia – brucia il passaggio dal premoderno al postmoderno. Dal punto di vista della storia del teatro la compressione è impressionante».52

48 Mirella Schino, Sul “ritardo” del teatro italiano, «Teatro e Storia», III, 4, aprile 1988, p. 51. 49 Ibidem.

50 Per il concetto di “natura anomala” del teatro italiano, cfr. Claudio Meldolesi Fondamenti e generazioni, in Id.

Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Bulzoni, Roma 2008² (1984), pp. 3-9.

51 M. Schino, Sul “ritardo” del teatro italiano, cit., p. 56.

52 Oliviero Ponte di Pino, Uno sguardo da fine secolo, «Teatro e Storia», XIII-XIV, 20-21, 1998-1999 (Sull'attore.

Invitato alla fine degli anni Novanta da «Teatro e Storia» a partecipare con il proprio sguardo allo “speciale di fine secolo” della rivista, Oliviero Ponte di Pino delinea un prospettiva che apre alcune possibilità per cominciare ad avvicinare non solo le ragioni, ma anche le dinamiche che hanno governato (e in parte continuano a determinare) i termini dell'anomalia teatrale italiana; il caso emblematico, secondo Ponte di Pino, si rinviene ancora una volta nell'esperienza dell'avvento e dello sviluppo della regia che «si afferma – sulla scia di altre esperienze europee, faticosamente, solo in parte – a partire dal dopoguerra», ma «nel giro di una ventina d'anni […] quel modello è già in crisi».53 Sarà opportuno notare subito come il piano delle concordanze fra l'ambiente degli studi e

quello della sceina non si ponga solo a livello morfologico: si vedrà nella sezione dedicata alla ricostruzione delle vicende delle prime fasi della teatrologia italiana quali forme di influenza possa aver esercitato il confronto con il concetto di regia.

Sembra fare in qualche modo eco, da tutt'altro versante, Cesare Segre, che ebbe a constatare che «in Italia lo strutturalismo è nato come post-strutturalismo».54 In La critica semiologica in Italia –

saggio breve quanto efficace che ripercorre la sperimentazione semiotica nel nostro Paese – individua alcuni principi comuni presenti nel lavoro di diversi critici e studiosi fin dalle origini: l'attenzione per la prospettiva storica, un approccio eminentemente realista con la conseguente avversione per le astrazioni teorico-concettuali proprie di certe pratiche di modellizzazione in opera in altre versioni della disciplina, un'originale pluridimensionalità nella concezione del testo e una particolare prossimità alle pratiche ermeneutiche – tutti tratti che, riassunti dallo studioso nei termini di un «solido fondamento storico e teorico della semiotica italiana», evidentemente, rimandano a quadri teorico-metodologici internazionali più tardi, propri del discorso post- strutturalista; sempre secondo Segre, fra l'altro, elementi di questo tipo vanno a costituire la base dell'insieme di motivazioni che, negli anni successivi, ha appunto regolato la penetrazione “debole” nel nostro Paese della proposta decostruzionista, decretandone una diffusione meno ideologizzata – o, quantomeno, meno mediatizzata – che altrove. Ci sarà modo di tornare abbondantemente sulle tracce dell'impostazione qui delineata da Segre; per il momento, è sufficiente notare che la provenienza dell'analisi, preziosa già di per sé, non è poi da considerarsi così “altra”, se si pensa che è formulata per la storia di un approccio teorico-critico che, come si è potuto osservare, condivide più di qualche prossimità con le vicende che hanno segnato gli sviluppi degli studi teatrali in Italia. Queste diverse prospettive, pur riconoscendo tutta la loro specificità – la prima messa a punto da uno sguardo interno al sistema teatrale sulle modalità di penetrazione della logica registica in Italia, la seconda estratta da un bilancio riguardo le modalità di radicamento e sviluppo della semiologia all'interno delle teorie e delle pratiche della critica letteraria –, riflettono entrambe sui territori che legano e separano la situazione italiana del Novecento rispetto agli altri scenari internazionali. In tutti e due i casi, si rileva un tentativo di infiltrazione – in qualche occasione si potrebbe addirittura dire di importazione – di nozioni e approcci di altra provenienza geografico-culturale, per riconoscerne poi specifiche modalità di introduzione; su quest'ultimo versante, entrambi

53 Ibidem.

54 «In Italia tutto va (o almeno è andato in questo caso) in modo più ponderato e tranquillo. E infatti i critici italiani

non hanno esaltato i nuovi metodi come scoperte rivoluzionarie ed esclusive, ma li hanno semplicemente considerati strumenti utili per approfondire la descrizione e la comprensione dei testi letterari. Questa mancanza di dogmatismo, questo atteggiamento prevalentemente operativo, ha permesso di assimilare molte delle proposte diffuse o rese note in seguito. Ora in molti paesi si tende a parlare di post-strutturalismo, alludendo all'abbandono o al diverso trattamento di elementi tipici dello strutturalismo (lo studio immanente dei testi, l'entusiasmo per l'analisi delle funzioni) e della semiotica, in particolare di Greimas (il "carré sémiotique", le modalità, ecc.). Si potrebbe dire, in base a quanto appena notato, che in Italia lo strutturalismo è nato come post-strutturalismo, sicché il cambio di prospettive e di proporzioni si trova già messo in atto senza troppo rumore». Cesare Segre, La critica semiologica in

Italia, «L'immaginazione», XII, 121, settembre 1995, p. 6; per una collocazione più ampia della vicenda tanto nel

contesto italiano che in quello internazionale si rimanda a un testo precedente, che introduce gli stessi problemi ma in una trattazione più ampia: C. Segre, Una crisi anomala, introduzione in Id. Notizie dalla crisi. Dove va la critica

riconoscono consistenti dati di differenza rispetto alle altre esperienze occidentali, che si concretizzano nell'individuazione di un processo di assorbimento talmente rapido da venire assimilato e messo in discussione quasi contestualmente. La proposta del “post-strutturalismo” ante litteram di Segre e il racconto della rapida ascesa e caduta della logica registica di Ponte di Pino sembrano, dunque, potersi riunire intorno alla formulazione di un'ipotesi che implica l'esistenza di un possibile appuntamento – o, almeno, un assorbimento – mancato, nel nostro Paese, con il progetto modernista, nel contesto del rapido passaggio, come si è visto, da strutture pre-moderne alla logica e alla sensibilità postmoderne.

L'ipotesi si può sostanziare con il supporto di Ferdinando Taviani, sempre lucidamente attento ai fenomeni che hanno segnato tanto il Nuovo Teatro che gli sviluppi della teatrologia. Taviani, in un testo scritto a metà degli anni Ottanta per raccontare la coeva situazione del teatro italiano, torna sulle modalità in cui si è originata la neoavanguardia e può ora arricchire il nostro discorso con elementi ulteriori, di più ampia natura contestuale; lo studioso rileva, in proposito, una serie di fattori coincidenti di carattere sociale, politico ed economico – «per esempio l'assenza di una regolamentazione statale per la distribuzione dei finanziamenti per il teatro, il conseguente apparente disordine e la conseguente autonomia delle autorità locali, che in molti casi si prendevano le responsabilità di finanziare iniziative incerte, sperimentali, coraggiose» –, che ha fatto dell'Italia «un terreno particolarmente adatto alla crescita di teatri diversi».55 La presenza continuativa, nel

nostro Paese, di gruppi come quello legato a Jerzy Grotowski, prima ancora il Living e l'Odin Teatret o il Bread & Puppet sono tutte esperienze che, lo vedremo nel dettaglio, incideranno non poco, come rileva lo stesso Taviani, sulla costituzione e sulla definizione della neonata disciplina. In Italia, un ipotetico mancato assorbimento della modernità, dunque, si accompagna a una penetrazione profonda, del tutto peculiare, della logica postmoderna; fra gli anni Sessanta e Settanta, il processo, in tutta la sua particolarità, si presenta agli orizzonti della teatrologia in statu nascendi sostenuto dalla maturità di alcuni approcci teorico-critici afferenti ai campi delle avanguardie delle scienze umane, nuove e rinnovate a seconda dei casi, e dalla prolungata frequentazione – anche se in certi casi sarebbe più opportuno parlare di residenza – dei protagonisti internazionali del Nuovo Teatro nel nostro Paese. Questa fase di rielaborazione della cultura si mostra tanto delicata quanto effervescente. È in questo momento che si assiste alla vera e propria nascita degli studi teatrali in ambito accademico.

È possibile, a questo punto, tornare in contesto più strettamente teatrologico, per affrontare la storia della disciplina utilizzando il filtro concettuale dell'anomalia, originariamente messo a punto, come si è visto, per le vicende legate all'avvento della regia.

Le indicazioni di Oliviero Ponte di Pino e di Cesare Segre, l'una di versante strettamente storico- teatrale, l'altra di provenienza semiologico-letteraria, accompagnate dalla prospettiva contestuale di Ferdinando Taviani, trovano riscontro anche nello specifico degli studi teatrologici: è Marco De Marinis a individuare le condizioni della prossimità dei due mutamenti di paradigma all'interno della storia degli studi teatrali in Italia. In un passo già citato di Visioni della scena, lo studioso nota che

«A partire dalla metà degli anni Sessanta anche in Italia si sviluppa una serie di ricerche che portano alla vera e propria fondazione teorica dei nostri studi teatrali, mediante una più adeguata definizione e concettualizzazione del loro oggetto […]. In poco tempo, fra gli anni Sessanta e Settanta, gli studi teatrali italiani sono stati in grado di ridurre il gap che li aveva separati fino ad allora da quelli europei […]. Anzi, sullo slancio, […] la nuova teatrologia italiana […] si è mostrata capace di affrontare criticamente e spesso di superare brillantemente molte delle difficoltà, degli scogli, su cui si era incagliata la vecchia teatrologia di matrice europea».56

55 F. Taviani, Inverno italiano, cit., p. 95. 56 M. De Marinis, Visioni della scena, cit., p. 97.

Ci sarà modo, in questo e nel prossimo capitolo, di analizzare nel dettaglio i contesti e le condizioni che si sono posti come premesse per l'esistenza di una simile anomalia. Per il momento, è importante notare come la realtà italiana, nella necessità di aggiornamento che la spinge a colmare le proprie (più o meno presunte) forme di arretratezza, non solo sembri raggiungere risultati adeguati rispetto agli scenari internazionali, ma addirittura ne rilanci le coeve pressioni teorico- metodologiche, formulando ipotesi e sperimentando soluzioni che conducono gli studiosi all'avanguardia della teatrologia occidentale. In questo contesto, i nuovi studiosi dunque si trovano prima a definire il proprio campo disciplinare nei confronti della precedente egemonia letteraria – così com'era stato altrove a inizio secolo –, individuando lo spettacolo come proprio oggetto di studio; e, subito dopo, a metterne già in discussione alcuni limiti, affrontando ulteriori questioni teorico-metodologiche che li condurranno a una più ampia considerazione dei fenomeni performativi.

Il problema dell'“anomalia” italiana, in ogni caso, non si ferma qui, nei territori agitati della rifondazione della disciplina a metà Novecento: il dato di differenza, che impone di osservare attraverso prospettive peculiari quel processo di rinnovamento degli studi teatrali che altrove si sviluppa lungo tutto il XX secolo, implica considerazioni ulteriori. Sul versante più strettamente storiografico, è importante notare come l'assenza, nel nostro Paese, di quella originaria stagione teatrologica primonovecentesca sia allo stesso tempo un dato fondante ma anche primariamente solo apparente: è vero che in Italia non si strutturano, come altrove, centri e insegnamenti specificamente dedicati allo studio del teatro in quanto spettacolo alle medesime altezze cronologiche; ma va rilevata, allo stesso tempo, l'esistenza – anche fuori dalle istituzioni accademiche – di un lavoro storico-teatrale di grande spessore. L'“anomalia” italiana, insomma, non va considerato un dato prettamente novecentesco, legato alle vicende della ricostruzione e del rinnovamento del secondo dopoguerra; ma forse va a costituire un elemento di più lunga durata, dal momento che si ripropone anche spostando la prospettiva di indagine ad altri momenti e fasi degli studi. Quella della nuova teatrologia italiana, per tornare all'invito di Claudio Meldolesi con cui si è aperto il presente capitolo, è “una nascita […] improvvisa”, in effetti solo “apparentemente”: perché il processo di rinnovamento degli studi che è conosciuto come loro rifondazione non si sviluppa a partire da strutture preesistenti riconoscibili, da centri di ricerca o insegnamenti ufficialmente incardinati (dunque comparendo improvvisamente sul crinale della metà del secolo); ma poggia su basi altrettanto solide e fondate, però presenti e attive più che altro nel pensiero e nella cultura teatrali delle stagioni precedenti.

1.1.2 DUELINEESTORIOGRAFICHE. LETRASFORMAZIONIDEGLISTUDITEATRALICOMEPROCESSODILUNGA

Outline

Documenti correlati