• Non ci sono risultati.

F RA IL VERSANTE TEORICO METODOLOGICO E QUELLO STORICO : LA « LINEA BALISTICA » DELL ' ANTROPOLOGIA TEATRALE

0.3 DINAMICHE DI SLITTAMENTO DEL PARADIGMA DISCIPLINARE.

0.3.1 F RA IL VERSANTE TEORICO METODOLOGICO E QUELLO STORICO : LA « LINEA BALISTICA » DELL ' ANTROPOLOGIA TEATRALE

Prima di tentare più precisamente l'individuazione di quelle che si ipotizzano essere le dinamiche che, nel loro complesso, tracciano i movimenti e le trasformazioni di paradigma della teatrologia novecentesca in Occidente, è opportuno andare a verificare la validità di una simile proposta, confrontandola con la prospettiva di uno studioso che è tornato spesso sulla riflessione epistemologica, teorica e metodologica in ambito teatrologico. L'analisi di Marco De Marinis è particolarmente prossima al campo di indagine di questa tesi, essendo formulata in relazione alle dinamiche che hanno presieduto gli sviluppi dell'antropologia teatrale, teoria messa a punto da Eugenio Barba lungo la seconda metà del Novecento, ma i cui esiti più maturi – anche in termini di ricadute e rielaborazioni in contesto teatrologico – si affacciano agli orizzonti degli studi fra gli anni Ottanta e Novanta.

In Il teatro dell'altro,34 lo studioso dedica un capitolo consistente all'analisi dell'antropologia

teatrale, anche dal punto di vista delle trasformazioni che vi sono occorse negli anni; in particolare, ci è utile ricordare sinteticamente – su questi punti ci sarà modo di tornare più avanti – i mutamenti occorsi all'interno di tale teoria, che, sulla scorta dello studioso, si possono così riassumere: «progressiva de-orientalizzazione […]; progressivo ammorbidimento del suo originario scientismo positivo; […] progressivo accentuarsi della sua dimensione verticale, storica».35 Per presentare con

completezza le modalità di trasformazione che coinvolgono il primo e il terzo punto, De Marinis richiama un intervento di Ferdinando Taviani, comparso su «Teatro e Storia» nel 1990, con il titolo Lettera su una scienza dei teatri,36 che si propone il fine di analizzare le condizioni della teatrologia

nei termini di una “scienza”, da un lato, criticando sistematicamente le tentazioni scientiste e gli eventuali relativi abusi epistemologici in questo senso, dall'altro, recuperando il significato latino del termine, che, con “scientia” intendeva riferirsi a quel complesso delle arti che possedevano, oltre le conoscenze tecnico-pratiche, anche «un sapere che può essere estratto dalle singole conoscenze pratiche ed espresso e trasmesso con un certo grado di generalità».37 Quella cui Taviani

dà forma nel suo intervento è una teatrologia che si propone come scienza in quanto dimostra «la capacità di reperire, attraverso i casi particolari, dei punti di vista che possono essere estesi ad altri casi e ad altri campi. Non dunque, come nell'orizzonte delle scienze esplicative della natura, ricerca delle leggi, delle condizioni necessarie e sufficienti, ma semmai dei condizionamenti ripetuti, delle ricorrenze, di quei modi d'operare abbastanza frequenti da dir qualcosa anche al di là dei propri contesti originari».38

Lo studioso individua una «scienza dei teatri» come «uno studio dei paragoni fra comportamenti teatrali», andando a sostituire il principio della «persistenza» con quello della «ri-correnza» e

34 Marco De Marinis, Il teatro dell'altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, La casa

Usher, Firenze 2011. Si veda, in particolare, il capitolo Antropologia teatrale: un riesame, pp. 33-97.

35 Ivi, p. 49.

36 F. Taviani, Lettera su una scienza dei teatri, cit., pp. 171-197. 37 Ivi, p. 180.

sperimentandone la modalità operativa su due «banchi di prova»: quello dell'elaborazione del concetto di pre-espressivo nel campo dell'antropologia teatrale e le ricerche di Ejzenštejn sul montaggio.39

In questo contesto, Taviani «scandisce quella che chiama “linea balistica” dell'antropologia teatrale negli anni Ottanta».40

Emergono così tre fasi di sviluppo della teoria:

1) quella della nascita della «nozione di pre-espressivo»;

2) quella in cui esso «diventa un campo di indagine» e viene articolato in diversi principi di funzionamento;

3) quella in cui «lo studio del campo costituito dal livello pre-espressivo dell'attore dà forma a un metodo di indagine che può essere applicato anche allo studio di quei teatri su cui non può condursi una ricerca empirica e che sono oggetto della storia».41

In questa ultima fase, che verrà analizzata compiutamente nel capitolo dedicato, il concetto di pre- espressività viene in parte svincolato dall'oggetto – il lavoro dell'attore – da cui si era originato come nozione e presso cui si era sviluppato in quanto campo di indagine, acquisendo la possibilità di essere applicato anche ad altri oggetti di studio. Questa progressiva “astrazione” ha dato già prove di grande rilevanza, tanto in termini di applicabilità storiografica – basterà citare il lavoro dello stesso Taviani sulla Commedia dell'Arte, che intreccia una rigorosissima indagine critico- filologica sulle fonti con elementi tratti dalla teoria sull'attore formulata dall'antropologia teatrale e che sarà adeguatamente trattato nel capitolo dedicato ai rapporti fra pratica e storia – che di trasversalità tematica. De Marinis, a conclusione del suo ragionamento, rimanda infatti, assieme ad altri casi esemplari, al tentativo concretizzato da Franco Ruffini nell'applicazione del principio del pre-espressivo al campo tematico del dramma;42 lo studioso stesso, in un colloquio concesso

all'autrice, segnala la rilevanza di questa trasformazione, leggendola nei termini di un “fraintendimento” originario che, una volta sciolto, ha permesso agli studi di sperimentare le conseguenze della proposta teorica dell'antropologia teatrale in altri campi di indagine:

«[...] È incorso, si è consumato un errore, un travisamento a mio avviso funesto. Molti di noi hanno guardato l'antropologia teatrale come se fosse un oggetto da studiare in sé. Prendiamo per esempio l'ISTA. Nelle varie sessioni, tutte diverse tra di loro, c'erano delle costanti inderogabili: la presenza di maestri orientali; una parte pratica, di training, di lavoro sul corpo; un lavoro condotto da Eugenio Barba che grossomodo si può dire riguardasse la costruzione di una partitura teatrale. Queste tre componenti, in modi e forme diversi, ci sono sempre state. Al centro c'era l'antropologia teatrale e intorno c'erano: Oriente, training e spettacolo. [disegna lo schema su un foglio] Esistevano dunque due prospettive possibili: la prima era quella di studiare l'antropologia teatrale, intesa come una scienza, alla luce di quello che ci potevano portare l'Oriente, il lavoro di training, il lavoro continuativo sul corpo-mente dell'attore o la composizione di uno spettacolo; la prospettiva corretta era esattamente il contrario: ossia guardare l'Oriente, il training, la composizione dello spettacolo alla luce dell'antropologia teatrale.

39 Ivi, p. 173.

40 M. De Marinis, Il teatro dell'altro, cit., p. 51.

41 F. Taviani, Lettera su una scienza dei teatri, cit., pp. 181-182.

42 Franco Ruffini, L'attore e il dramma. Saggio teorico di antropologia teatrale, «Teatro e Storia», III, 5, ottobre 1988,

pp. 177-249. De Marinis, in merito, ipotizza l'esistenza di un vero e proprio «filo rosso» nell'opera dello studioso, ragionamento per il quale si rimanda a: M. De Marinis, Il teatro dell'altro, cit., pp. 69-70 (si veda in particolare la nota 49).

[…] A parità di obiettivi – prendere questo bicchiere e bere [beve un bicchiere d'acqua] –, l'azione compiuta in scena costa più energia che non la stessa compiuta nella vita quotidiana – questo ha scoperto l'antropologia teatrale. [...] Il lavoro in scena costa più energia – l'equilibrio di lusso, il surplus energetico –, non perché lo si scelga, ma perché l'azione non deve essere soltanto compiuta, deve anche venire guardata. [...] Ovviamente, una volta posto in questa luce, ogni fenomeno teatrale – gli attori orientali, l'addestramento del corpo, la composizione dello spettacolo – si può osservare per vedere come viene utilizzato il surplus di energia, in maniera tale – per dirla con le parole dell'antropologia teatrale – che questa incoerenza sia però coerente, organica. […] Anche i più, non solo fedeli, ma anche competenti – e io mi ci metto, sono stato uno dei fondatori dell'Ista, ho avuto una collaborazione continuativa, profonda con Eugenio Barba – hanno pensato che l'antropologia teatrale fosse una scienza. I saggi che ho scritto sull'antropologia teatrale intesa come scienza fanno parte di questa “ubriacatura” iniziale, che ha impedito di rimettere le cose al loro posto: non dovevo studiare l'antropologia teatrale; mi volevo, ad esempio, occupare di Stanislavskij – finalmente lo avrei potuto guardare in questa luce e capire molte cose in più. […] E lo stesso vale per Artaud, per Craig, per Grotowski».43

La lunga citazione dalle parole di Franco Ruffini permette di tornare, confermando e arricchendolo di una ulteriore testimonianza, allo schema con cui Marco De Marinis, sulla scorta delle analisi di Ferdinando Taviani, descrive gli sviluppi dell'antropologia teatrale. Nelle parole dello studioso, si rinviene la qualità del passaggio della teoria da campo di indagine, da studiare in sé e per sé, a metodo, applicabile ad altri oggetti – in questo caso, alle ricerche su alcuni Maestri del Novecento teatrale.

La trasformazione del concetto di “pre-espressivo” da nozione a campo di indagine, a, infine, metodo, sembra poter sostenere sul versante teorico-metodologico lo schema di movimento del paradigma disciplinare individuato in apertura invece a partire da dati eminentemente storico- contestuali: l'introduzione di un oggetto di studio inedito (come la nozione di pre-espressivo per il lavoro dell'attore) richiama la necessità dell'istituzione di un nuovo campo di indagine (quello dell'antropologia teatrale) e contestualmente procede ad affinare strumenti di analisi adeguati, spesso attingendo a tradizioni di studio altre rispetto a quella teatrologica; le spinte epistemologiche di questa fase, in cui le teorie extra-teatrologiche si impongono come riferimenti “forti” – a volte rischiando di influenzare più o meno esplicitamente, non solo il campo di studio della teatrologia, ma anche in parte l'impostazione stessa della sua cornice epistemologica –, vengono poi assorbite tramite la sperimentazione e l'applicazione di quei concetti e strumenti, ponendo le basi per una loro integrazione “morbida” all'interno dell'apparato teorico-metodologico della disciplina.

Uscendo dallo specifico dell'esempio dell'antropologia teatrale – ma non perdendone di vista, tuttavia, la rilevanza ai fini della presente indagine –, si vedrà come sia possibile utilizzare una simile prospettiva come una “cerniera” fra il versante dominato dall'analisi sincronica (quello dedicato all'analisi “interna” della teatrologia, dei suoi elementi e delle loro specifiche relazioni) e quello che prende in considerazione le situazioni diacroniche (legato invece alle interazioni possibili fra tali elementi e i diversi contesti presso cui operano). Entrambe le direzioni in cui è attivo questo processo di messa in relazione verranno utilizzate, non solo per contestualizzare meglio elementi tratti dall'uno o dall'altro versante, ma la reciprocità della relazione permetterà anche di spostarne – si auspica fruttuosamente – gli assunti secondo una prospettiva unitaria, che fa di questa duplicità il proprio punto di forza.

L'emblematicità e la rilevanza delle vicende che hanno segnato gli sviluppi dell'antropologia teatrale vanno annotate come riferimento per un duplice motivo: sono, da un lato, da tenere in

considerazione, come si è accennato in apertura, per la loro collocazione all'interno della scansione temporale che presiede l'oggetto di studio della tesi (la teatrologia italiana post-novecentesca); dall'altro, come si vedrà a breve, dinamiche molto prossime, quando non simili o addirittura coincidenti, si possono osservare in altre tendenze teorico-metodologiche attive nella disciplina, tanto nello specifico del caso italiano che sugli scenari di ricerca internazionali.

Del resto, un tentativo di questo tipo era già in opera nella Lettera su una scienza dei teatri di Ferdinando Taviani, laddove le fasi della «linea balistica» tracciata dall'antropologia teatrale vengono osservate anche nelle ricerche di Ejzenštejn sul montaggio. Gli esiti di questo lavoro vengono così riassunti da Taviani:

1) «la pregnanza teorica del montaggio balza fuori con vividezza dalla visione comparata e dettagliata di diversi procedimenti artistici e tecnici»;

2) il montaggio diventa poi «un campo di ricerca in cui vengono individuati principi ricorrenti»;

3) «il campo si trasforma in metodo di indagine che permette un modo appropriato di dividere e suddividere i fenomeni trattati e di collegare zone distanti del sapere e delle arti».44

La prospettiva di Ferdinando Taviani, il lavoro di Franco Ruffini, assieme alla recente analisi che ne offre Marco De Marinis autorizzano dunque a un tentativo di estensione – si vedrà se fruttuoso o meno – della modalità di sviluppo, appena introdotta, dell'antropologia teatrale ad altri campi, oggetti e metodi di studio.

0.3.2 ALTRIESEMPIDITRASFORMAZIONEDELPARADIGMADISCIPLINARE, FRALUNGADURATAE

Outline

Documenti correlati