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A LTRI ESEMPI DI TRASFORMAZIONE DEL PARADIGMA DISCIPLINARE , FRA LUNGA DURATA E MICROSTORIA

0.3 DINAMICHE DI SLITTAMENTO DEL PARADIGMA DISCIPLINARE.

0.3.2 A LTRI ESEMPI DI TRASFORMAZIONE DEL PARADIGMA DISCIPLINARE , FRA LUNGA DURATA E MICROSTORIA

Annotando le riflessioni preziose degli studiosi italiani citate nel paragrafo precedente, prima di procedere alla presentazione di altri casi esemplari delle dinamiche che sembrano governare il paradigma della teatrologia novecentesca, è opportuno richiamare lo schema tripartito attraverso cui si è tentato di riassumerle nei paragrafi precedenti:

– introduzione di nuovi oggetti di studio e allargamento del campo di indagine;

– sperimentazione di strumenti e metodologie – spesso attinte da altri ambiti disciplinari – adeguati a studiare i nuovi oggetti;

– assorbimento e integrazione degli stessi all'interno di una cornice epistemologica di più ampio respiro.

Come si è detto, è possibile osservare il funzionamento di tale dinamica al livello di una medio- lunga durata della teatrologia occidentale, nelle vicende che ne hanno segnato gli sviluppi nel corso del ventesimo secolo. Ma si è anche appena dimostrato che la sequenza descritta dallo schema approntato per riassumere i successivi slittamenti del paradigma teatrologico novecentesco sia in una certa misura riscontrabile anche a livello microstorico: i mutamenti occorsi nel campo dell'antropologia teatrale, così come sono stati individuati nel paragrafo precedente – sulla scorta delle analisi di Marco De Marinis, di Ferdinando Taviani e di Franco Ruffini –, mostrano ricorrenze non secondarie rispetto allo schema legato alla storia novecentesca degli studi, seppure all'interno degli orizzonti di una scansione cronologica più limitata (gli anni Ottanta e Novanta) e nel contesto di una tendenza di studio specifica (l'antropologia teatrale), in un incontro che potrebbe veder

abbinate le modalità di riassetto del paradigma disciplinare lungo il Novecento alle fasi di sviluppo di tale teoria:

– l'iniziale definizione del concetto di pre-espressività presenta modalità che si potrebbero collocare al fianco degli elementi che definiscono la prima fase della storia della teatrologia novecentesca, vale a dire nei processi, come abbiamo visto in parte sovversivi rispetto al paradigma dominante fino a quel punto, che fanno capo all'inclusione di nuovi oggetti di studio;

– l'approfondimento e l'articolazione della nozione fino alla definizione di un vero e proprio campo di indagine, quello dell'antropologia teatrale, è un processo che mostra diverse ricorrenze morfologiche rispetto a quella che è stata individuata come seconda fase di riassetto del paradigma disciplinare nel ventesimo secolo, con la richiesta della messa a punto di strumenti e metodologie adeguati ai nuovi oggetti, il conseguente ricorso a stimoli extra-disciplinari e, in certi casi, l'istituzione di specifiche tendenze di studio;

– la trasformazione del campo di studio dell'antropologia teatrale in metodo di indagine – con lo svincolamento delle conquiste teorico-metodologiche rispetto al contesto di provenienza e la sperimentazione della loro applicabilità ad altri oggetti – si può osservare vicino al processo che abbiamo definito nei termini di un indebolimento della vocazione globalizzante di alcune teorie “forti”, nel corso del secondo Novecento, e della loro successiva integrazione all'interno della cornice epistemologica della teatrologia, in relazione anche ai processi di consolidamento interno della disciplina.

Questa prima coincidenza potrebbe autorizzare ad ipotizzare che le dinamiche che governano il paradigma disciplinare della teatrologia novecentesca possano funzionare secondo modalità similari tanto nella prospettiva di lunga durata che a livello microstorico, nello specifico della scansione cronologica presa in esame dalla tesi, quella degli ultimi anni del Novecento e i primi Duemila –, tenendo sempre conto del doppio versante coinvolto in tale prospettiva, quello del livello diacronico e del livello sincronico.

Per verificare che non si tratti soltanto di un episodio di coincidenza, legato alle specifiche declinazioni dell'uno e dell'altro piano prese in esame finora, si procederà, in questa sede, a una disamina preliminare delle modalità di funzionamento – e quindi della possibile validità – di questa ipotesi all'interno di altre aree e tendenze di studio, individuate fra quelle più attive all'interno della delimitazione cronologica che questa ricerca prende in esame. Con l'emblematico esempio dell'antropologia teatrale, si è già detto su quanto concerne il livello microstorico, legato alle vicende occorse nella teatrologia post-novecentesca; si può integrare qui, per dimostrare l'applicabilità trasversale dello schema, con la vicenda dell'iconografia, che vive, in Italia, una stagione di particolare attenzione all'incirca negli stessi anni: la dimensione visuale del fatto teatrale – emersa come fonte per gli studi teatrologici già all'epoca della loro fondazione – si manifesta compiutamente nei termini di un oggetto di studio specifico lungo gli anni Ottanta, portando alla sperimentazione di prospettive teorico-metodologiche inedite (quella di provenienza warburghiana in primis); tali cornici epistemologiche dominano il campo di studio fino a farne, a volte, un oggetto a sé stante – fenomeno testimoniato, ad esempio, dal vivace dibattito sulla “teatralità”, vale a dire sulla pertinenza teatrale, delle immagini che l'iconografia prende in esame –, provocando, in qualche caso, la costituzione di versanti teorici differenti, quando non addirittura opposti. Tale dinamica oppositiva viene meno nel corso degli anni, in coincidenza ad un “indebolimento” del debito teorico nei confronti delle discipline legate alle arti visive, da un lato, e, dall'altro, verso quelle più ascrivibile all'area dei cultural studies; in questa fase, il profilo dell'iconografia teatrale

sembra assumere le forme di una integrazione tanto rispetto alle eventuali conflittualità interne che in termini di apertura rispetto ad altre aree della teatrologia nel suo complesso. Qualcosa di simile, lo si vedrà nei capitoli successivi, accade anche all'interno delle teatrologie internazionali, all'interno delle quali si può richiamare qui il caso emblematico degli studi di genere, sviluppatisi soprattutto in area statunitense: essi, infatti, nascono nel contesto della teoria femminista, con il proposito, in effetti, di includere all'interno del campo di studio nuovi oggetti di indagine prima poco o nulla considerati (in questo caso, la storia delle donne). Tale sistema di inclusioni implica la messa a punto di strumenti e metodologie adeguate, che, come si vedrà, la teatrologia rinviene eminentemente in una originale quanto fruttuosa ricombinazione degli stimoli provenienti da semiotica, psicoanalisi e materialismo; in questa fase di maturazione, il concetto iniziale si amplia, convertendosi in un vivace campo di indagine – momento in cui gli studiosi stessi provvedono, ad esempio, a ridefinire il nome del campo stesso in “femminismi”, allo scopo di rendere conto della complessità tematica e teorico-metodologica sperimentata. Le teorie “forti” individuate in coincidenza del gesto istitutivo degli studi di genere vengono, come si è visto, ricombinate fra loro, allo scopo di soddisfare le esigenze dei nuovi oggetti di studio che, in ultima fase, vivono un ulteriore momento di ampliamento – che, inutile forse dirlo, coincide come si vedrà con ulteriore “indebolimento” del portato epistemologico globalizzante delle “teorie forti”; così, l'originaria teoria femminista giunge a manifestarsi, negli ultimi tempi, come un complesso di campi di studio che, assumendo il genere come costruzione sociale spesso imposta dal potere dominante, si occupa delle modalità in cui esso (maschile, femminile o altro) viene, appunto, costruito, veicolato, quando non imposto nell'immaginario e nella vita collettivi e, naturalmente, delle motivazioni e delle conseguenze che questi processi di soggettivazione implicano. Per riassumere, il contatto con un nuovo oggetto di studio (la storia delle donne) e la messa a punto di una nuova nozione (il femminismo), conduce alla creazione di un nuovo campo di indagine (quello, appunto, preso in esame dalle teorie femministe), esplorato attraverso strumenti metodologici di provenienza altra; il successivo indebolimento delle relazioni interdisciplinari così configuratesi suggerisce la possibilità di un'applicazione trasversale delle nozioni e degli strumenti messi a punto, che vengono utilizzati per affrontare anche altri oggetti di studio. È interessante notare, già a questa altezza del discorso, che quest'ultima fase si può osservare da un punto di vista duplice: è possibile considerarla – come abbiamo fatto – in quanto momento conclusivo dei processi di sviluppo e riassetto della disciplina, tanto nella sua durata novecentesca che in casi più limitati in senso temporale, teorico e tematico; ma va notato che questa fase può porsi anche come innesco per ulteriori mutamenti di paradigma, presentandosi come premessa per la riattivazione della dinamica di trasformazione che abbiamo appena definito. Il caso degli studi di genere, in questo senso, è emblematico: l'indebolimento dell'engagement femminista, alla fine degli anni Ottanta, provoca prima processi di sovra- articolazione interna del campo di studio – per cui, a questa altezza, si parla spesso di “femminismi”, al plurale – e, in seguito, stimola l'applicazione di una serie di apparati metodologici a campi di studio affini, come i male, glbt e queer studies. Di più, lo studio dei processi di soggettivazione e della loro interazione con il potere dominante, si ritrova come cornice epistemologica anche in campi ben diversi dagli studi femministi e di genere, come i race studies, gli studi post-coloniali e interculturali, che, fra l'altro, vivono processi di riassetto interno molto simili proprio negli stessi anni.

Si potrebbe, a questo punto, contestare il criterio di selezione degli esempi finora presentati per verificare la validità dell'ipotesi, vale a dire il possibile funzionamento su diversi piani e a diversi gradi di focalizzazione delle dinamiche in opera nelle trasformazioni del paradigma disciplinare. In effetti, tutti i casi fin qui riportati condividono una collocazione cronologica fra la seconda metà degli anni Ottanta e i Novanta del Novecento; dunque, qualcuno potrebbe ipotizzare l'esistenza di una sorta di ricorrenza morfologica esclusiva fra la lunga durata della teatrologia novecentesca e gli

sviluppi post-novecenteschi della disciplina, che questa ricerca individua come una soglia fra quella stagione di studi e una successiva, fondata su differenti premesse epistemologiche.

La scelta degli esempi, invece, è motivata proprio in relazione alla scansione temporale delimitata dalla ricerca e guidata anche per introdurne, già a questa altezza, alcuni argomenti-chiave che si andranno ad approfondire in seguito. Prima di concludere questo capitolo introduttivo sarà bene, comunque, procedere a valutare il funzionamento dello schema che si è proposto descrivere i mutamenti del paradigma teatrologico rispetto ad altre esperienze e tendenze, allo scopo di sgombrare il campo da possibili malintesi legati alla scelta delle tendenze di studio prese in esame e di verificare ulteriormente l'applicabilità di un simile filtro di analisi.

Andando più a ritroso, un esempio similare, seppure di più respiro storico più ampio, si ritrova nell'avventura semiologica che ha coinvolto la teatrologia italiana lungo tutto il secondo Novecento. In un primo momento, come in altri campi, la semiologia si manifesta come riferimento teorico- metodologico in parte di vocazione globalizzante: all'indubbio vantaggio di supportare la teatrologia – e altre discipline, soprattutto storico-artistiche – nella definizione del proprio specifico disciplinare (lo spettacolo teatrale, di contro alla precedente egemonia testocentrica), si verifica a volte una estensione della sua area di influenza oltre i propositi di pertinenza inquadrati dal campo di indagine. La nascita di quelle che sono state definite, appunto, “semiologie particolari” può rappresentare un chiaro indizio di come la fruttuosità di un apporto teorico di provenienza altra possa venire percepito come una teoria “forte” e rischiare così di andare, in alcuni casi, a costituire un campo di studio a se stante. Dopo una prima stagione di grande attenzione, la semiologia conosce un momento di evidente ritiro: dalla seconda metà, ad esempio, degli anni Ottanta diminuiscono sensibilmente le pubblicazioni specificamente dedicate; questo fenomeno, tuttavia, non va letto nei termini di una minor incidenza della semiotica – all'epoca già in fase di sperimentazione sul versante pragmatico – sul livello epistemologico delle discipline teatrologiche, quanto piuttosto di un suo possibile assorbimento all'interno di esso. Difatti, se si va, ad esempio, a esaminare il lessico o la struttura in opera nelle analisi delle ricerche anche più recenti, è possibile individuare una serie consistente di ricorrenze che si riferiscono con chiarezza alla cornice epistemologica tracciata dalla semiotica: l'applicazione degli strumenti e dei metodi provenienti da tale ambito disciplinare ne ha evidenziato le potenzialità e i limiti; riversandoli nelle pratiche, ne ha anche permesso una sorta di compromissione e, dunque, successivamente, di assorbimento, di infiltrazione profonda, quando non addirittura di apertura e di possibile integrazione con gli altri elementi presenti nell'apparato teorico-metodologico degli studi teatrali – oltre le esperienze ormai note della socio-semiotica, delle modalità già accennate delle teorie femministe, delle sperimentazioni fenomenologiche, rimane indubbiamente emblematico il caso della già citata svolta pragmatica, che interviene a riorientare verso orizzonti ermeneutici i presupposti analitici di matrice linguista propri della prima semiologia. Interessante notare fin da ora come le possibilità di sviluppo recenti e attuali della relazione fra teatrologia e semiotica si vadano a collocare proprio all'interno delle due condizioni da soddisfare – i «tabù» della «purezza disciplinare» e «quello empirico, con la conseguente diffidenza verso il lavoro sul campo e l'indagine sperimentale» – che Marco De Marinis aveva evidenziato, alla fine degli anni Ottanta, come i principali limiti (e, dunque, possibili orizzonti di lavoro) nella prospettiva del «futuro stesso degli studi teatral-semiologici».45

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