1. O RIGINI DELLA NUOVA TEATROLOGIA
1.3 LE TRASFORMAZIONI DELL'OGGETTO DI STUDIO.
1.3.0 L A TEATROLOGIA PRIMA DELLA SUA RIFONDAZIONE L INEE GENEALOGICHE FRA ARTE VISIVA , LETTERATURA E TEATRO
Nella sezione precedente abbiamo affrontato la nascita degli studi teatrali come disciplina, nella sua culla tedesca primonovecentesca, osservando le vicende istituzionali che ne hanno scandito gli sviluppi; abbiamo dunque annotato come questa esperienza pionieristica vada a costituire un modello di riferimento, nonché un sostanzioso precedente, per le altre teatrologie nazionali che, sia in area continentale che oltreoceano, cominciano a strutturarsi nei primi anni del dopoguerra. Ma il modello messo a punto da Max Herrmann e gli altri studiosi tedeschi non costituisce un importante riferimento solo dal punto di vista accademico, decantando nelle strutture, nei centri e negli insegnamenti sperimentati in area centro-europea a inizio Novecento; tale eredità si configura soprattutto nei gesti teorici compiuti da quel primo gruppo di studiosi, conquiste di carattere teorico-metodologico importanti, anche se non poco problematiche e problematizzate, destinate a tracciare i confini della cornice epistemologica entro cui si muoverà poi la teatrologia novecentesca. La nascita degli studi teatrali in Germania, a inizio Novecento, possiede comunemente il merito di aver posto le basi per lo svincolamento dello studio del teatro dalla tradizionale egemonia letteraria (ma, allo stesso tempo, di aver sostanziato, quando non addirittura fondato la dinamica oppositiva che lega il teatro come testo al teatro come evento): il gesto teorico fondativo si rinviene tradizionalmente nella definizione di uno specifico disciplinare attraverso l'assunzione del fatto spettacolare come oggetto di studio. Tale processo di ridefinizione possiede un consistente portato teorico, presentando ricadute sul piano metodologico che si articolano almeno secondo due linee differenti, che propongono, seppure a livelli differenti, l'idea dell'indipendenza degli studi teatrali. La neonata disciplina si presenta attraverso una duplice proposta, i cui diversi aspetti perseguono obiettivi intimamente legati (riuniti dal processo di definizione del nuovo oggetto di indagine), ma teoricamente distinti:
– da un lato la theaterwissenschaft si pone il problema di fondare la propria autorevolezza scientifica, che si esprime con la messa a punto di una rigorosa strumentazione di matrice storico-filologica volta a ricostruire ed analizzare le condizioni di produzione e fruizione della performance in epoche passate;
– dall'altro, sempre in coincidenza all'individuazione del proprio oggetto di studio nello spettacolo, ma nel campo della sua percezione in termini di evento e di esperienza, è portata fin dalle origini a una prossimità con le scienze umane (sociologiche in particolare).
L'obiettivo, dunque, attivo tanto sul fronte tematico che su quello teorico-metodologico non si risolve esclusivamente «primarily, by a focus on reconstructing the conditions of past theatre performances»: la particolarità del lavoro di Max Herrmann e degli altri studiosi «carries the logic of reconstruction one step farther than a strictly materialist history would suppose, insisting that the audience always be considered as a constitutive collaborator in the meaning of the event».103 Tale
103 «[...] innanzitutto, nella concentrazione sulla ricostruzione delle condizioni degli spettacoli teatrali del passato. […]
Herrmann conduce la logica della ricostruzione un passo oltre quello che supporrebbe una storia strettamente materialistica, insistendo sul fatto che il pubblico vada sempre considerato come un collaboratore costitutivo al significato dell'evento». M. L. Quinn, Theaterwissenschaft in the History of Theatre Studies, cit., p. 127.
approccio – definito per l'opera di Herrmann – emerge anche da una panoramica del lavoro degli altri primi teatrologi tedeschi, dal pionieristico approccio antropologico di studiosi come Carl Niessen (dal '19 docente a Colonia) e Arthur Kutscher (fondatore del dipartimento di Monaco), al lavoro sui rapporti fra sociologia e teatro di Julius Bab, uno dei primi allievi di Herrmann, il cui Das Theater im Lichte der Soziologie (Il teatro alla luce della sociologia), non solo si avvale di riferimenti alle avanguardie coeve della disciplina, ma si concentra inoltre su alcuni aspetti della vita quotidiana considerabili in termini spettacolari e sui comportamenti del pubblico (ad esempio sulla convenzione dell'applauso).104 La produzione del gruppo dei primi theaterwissenschaftler
tedeschi si presenta estremamente ricca e varia, comprendendo fra l'altro, oltre le diverse storie del teatro e le innumerevoli monografie, ricerche sullo spettatore – esemplare è il lungo lavoro di Heinz Kindermann, direttore del dipartimento viennese e fondatore di «Maske und Koturn» –, sull'attore e la recitazione e sulle sue relazioni con la dimensione autoriale e spettatoriale (Bab), su epoche storiche tradizionalmente poco considerate dalle storie delle letterature, proprio a causa della scarsità di reperti testuali e drammaturgici (ad esempio gli studi dello stesso Herrmann su medioevo e rinascimento).105
Simili pressioni si rinvengono, naturalmente, anche nelle successive teatrologie nazionali – seppure tramite declinazioni e manifestazioni del tutto peculiari che tendono inizialmente a concentrarsi e dunque assumere come fondanti spesso solo porzioni limitate dell'intero corpus teorico innescato dalla theaterwissenschaft primonovecentesca –, in coincidenza ai processi di recupero e di maturazione delle intuizioni di questi tentativi pionieristici. La ricorrenza più evidente, nelle diverse geografie della teatrologia del dopoguerra, è l'assunzione dell'originaria dicotomia che lega e separa lo studio del testo dallo studio dello spettacolo, così come l'avevano immaginata i primi teatrologi tedeschi, e, contestualmente, l'avvio di processi di autonomizzazione degli studi teatrali dalle relative genealogie letterarie. Di più, il tentativo di una fondazione scientifica, quindi seriamente documentata e altrettanto rigorosamente verificabile, si accompagna ovunque al diffuso ricorso a strumentazioni e metodologie afferenti ad altri ambiti disciplinari, in alcuni casi con un accento quasi esclusivo sull'apporto derivante dalle discipline storiche e una relativa rimozione (solo temporanea) delle potenzialità derivanti dal dialogo con le scienze umane.
Il caso della rifondazione italiana si può inserire a pieno titolo nel susseguirsi delle vicende che segnano gli scenari teatrologici internazionali, ma, allo stesso tempo, è doveroso rilevarne i tratti specifici – si è detto “anomali” – che se, da un lato, vanno a “giustificare” considerevolmente il presunto “ritardo” italiano, dall'altro, come si vedrà, possono essere utilizzati di rimando per illuminare zone ancora in penombra del processo di rielaborazione che lega le nuove teatrologie alla loro eredità primonovecentesca. Per tentare di disegnare il profilo delle possibili genealogie che fonderanno poi la possibilità della nascita della teatrologia italiana, utilizzeremo una riflessione di Claudio Meldolesi, che lo studioso ha formulato in occasione di un ricordo di Fabrizio Cruciani e, dunque, anche di quella prima stagione degli studi:
«La nostra leva di studiosi [è] grata a Macchia e Apollonio, quali globali maestri giunti dalla letteratura a rivelare la differente cultura del teatro».106
Questo pensiero di Meldolesi presenta almeno due differenti elementi che possono essere utilizzati per descrivere il sistema di relazioni in atto fra i rifondatori della disciplina e la fase preliminare di predisposizione del territorio presso cui essa andrà successivamente a svilupparsi: Meldolesi,
104 Julius Bab, Das Theater im Lichte der Soziologie, C. L. Hirschfeld Verlag, Leipzig 1931.
105 Cfr. Heinz Kindermann, Die Funktion des Publikums im Theater, Bohlau in Kommission, Wien 1971; Julius Bab,
Schauspieler und Schauspielkunst, Oesterheld & Co., Berlin 1928; Max Herrmann, Forschungen zur deutschen Theatergeschichte des Mittelalters und der Renaissance, Weidmann, Berlin 1914.
106 Claudio Meldolesi, Il teatro di Cruciani, «Culture Teatrali», IV, 7/8, autunno 2002-primavera 2003 (Storia e
rispetto al magistero di Giovanni Macchia e di Mario Apollonio, parla di “globalità” e di “differenza della cultura teatrale”. Legando questi due differenti aspetti in un'unica riflessione, li inquadra, dunque, in una prospettiva unitaria, che qui si intende assumere come indicazione metodologica per tentare di osservare quale possa essere la ricaduta di quelle esperienze e come essa possa essere stata assorbita e rielaborata dai primi teatrologi.
In questo senso, si può ipotizzare l'esistenza di una forma di eredità almeno duplice, in cui il contesto formativo della nuova teatrologia italiana si pone in relazione con due piani differenti:
a) una globalità di insegnamento, da un lato, che proviene dalle aree della critica e della filologia letterarie;
b) dall'altro, l'organizzarsi di tale globalità intorno a nodi più specifici, a condensare stimoli teorico-metodologici nel campo degli studi teatrali.
In questo contesto, occorre tener conto anche del ruolo svolto da Carlo Ludovico Ragghianti, seppure il suo operato non vada a inserirsi nei confini dei campi di studio letterari, ma provenga dal contesto storico- e critico-artistico. Ragghianti, maestro di Cesare Molinari durante il suo insegnamento all'Università di Pisa è, nella definizione del suo allievo è «una delle personalità di maggior rilievo […] nel contesto del movimento neo-idealista e crociano che per un cinquantennio dominò […] la cultura ufficiale italiana». Attivissimo in campo politico – non solo politico-culturale – e grande innovatore delle strutture e del metodo dell'ateneo pisano fin dal suo incardinamento, ha giocato un ruolo primario, sia dal punto di vista istituzionale che scientifico, all'interno del processo di ingresso della storia del teatro e dello spettacolo nell'università italiana. Per inquadrarne il magistero, con particolare attenzione alle sue ricadute nello specifico del campo storico-teatrale, utilizzeremo l'analisi di Molinari, che non si sofferma soltanto a tracciare possibili linee di eredità strettamente all'interno del pensiero teatrologico. In questo contesto, secondo lo studioso, Ragghianti aveva già proposto l'autonomia dell'oggetto-teatro, in quanto spettacolo, fin dagli anni Trenta, andandone a collocare lo specifico all'interno del concetto di “arti della visione” che comprendeva le arti visive e plastiche, ma anche il cinema. Di più, spostandoci sui versanti di quella globalità di insegnamento cui si faceva cenno, la prospettiva di Molinari individua, nel suo pensiero, la presenza continuativa e intensa di una forma dialettica fra il polo della riflessione teorica e quello della ricerca storica, dato ricorrente nell'impostazione critica ragghiantiana che ritroveremo poi, altrettanto pregnante, nei lavori dei primi teatrologi. Anche per quanto riguarda Ragghianti, dunque, il piano dell'operatività politico-istituzionale si intreccia, nella linea genealogica che lo lega alle discipline dello spettacolo dal vivo, a quello del pensiero storico-critico, combinando, nell'eredità che gli riconoscono gli studiosi, una dimensione di insegnamento globale – che si riversa nel côté teorico-metodologico della nuova teatrologia italiana – e un'azione volta a identificare e valorizzare la differenza culturale propria del teatrale.107
Presentata brevemente, nei termini di concordanza che si possono rilevare, la figura di Carlo Ludovico Ragghianti, si procederà dunque ad individuare i possibili tratti di quella “globalità” di insegnamento per interrogarsi sulle ragioni e le modalità che legano il progetto di rifondazione della teatrologia italiana alle sue origini letterarie, attraverso una analisi mirata dell'opera e della figura di Giovanni Macchia e un processo di comparazione che la vede protagonista al fianco di altri casi piuttosto prossimi; in un secondo momento, si passerà invece a rintracciare – ancora grazie al ruolo di Macchia, ma introducendo anche il lavoro più strettamente storico-teatrale di Mario Apollonio – la specifica ricaduta teatrologica di queste esperienze preliminari.
Quello di Giovanni Macchia è un caso particolare: nelle prossime pagine si vedrà come presso il suo magistero si formino e maturino le prime leve propriamente dette della nuova teatrologia. Ma
107 Cesare Molinari, Gli scritti sullo spettacolo di Carlo Ludovico Ragghianti, «Biblioteca Teatrale», VII, 18, 1977, pp.
non per questo esso rappresenta un'eccezione; piuttosto, tale particolarità si fonda su dati ulteriori, alcuni che pertengono al metodo dello studioso e alle sue aree di interesse, altri di carattere più contestuale (come l'operato di Ferruccio Marotti e altre condizioni peculiari della realtà romana degli anni Sessanta). Abbiamo fra l'altro osservato la nascita e lo sviluppo, proprio negli stessi anni, di altri simili – seppure poi con esiti differenti – “focolai” di attenzione teatrale che si andavano diffondendo presso diverse cattedre legate agli studi storico- e critico-letterari. Si procederà, dunque, a una breve panoramica comparativa, nel tentativo di utilizzare l'eccezionalità dell'ambiente formativo guidato da Giovanni Macchia per illuminare possibili ricorrenze anche negli altri centri presso cui si andava immaginando e, più tardi, concretizzando la possibilità dello studio del teatro come disciplina autonoma.
Giovanni Getto, italianista torinese, poco frequentatore dei territori del teatrale – e, in ogni caso, sempre dal punto di vista letterario –, ha dato vita a un magistero che ha visto la formazione di quella che si è poi rivelata una nuova leva degli studi teatrali italiani negli anni Settanta: prima Guido Davico Bonino e Gigi Livio, poco dopo Roberto Alonge e Roberto Tessari. Ma proprio per la netta distanza fra l'opera di Getto e il teatro, il caso torinese pone con ancora più insistenza la domanda sulle ragioni che hanno presieduto, nella seconda metà Novecento, i processi di gestazione dei nuovi studi teatrali presso i loro originari territori letterari.
È un interrogativo che, infatti, si pongono gli allievi stessi dello studioso, Alonge e Livio, introducendo un volume tratto da un convegno dedicato al suo magistero e alle sue ricadute nel teatrale:
«[...] Getto non aveva mai coltivato il settore teatrale se non sotto la specola della letteratura. E infatti i testi teatrali che egli ha genialmente analizzato sono percepiti essenzialmente come testi letterari, come letteratura appunto.
Eppure ci sembrava (e continua a sembrarci) che non fosse né un caso né una pura coincidenza che un numero non esiguo (sebbene non enorme) di scolari di Getto […] fossero diventati storici del teatro […]. Si trattava, dunque, di comprendere che cosa avesse spinto alcuni di noi a staccarsi dall'italianistica per intraprendere questo percorso più specialistico, ancora accademicamente nuovo a metà degli anni Sessanta».108
Scorrendo i diversi interventi è possibile isolare alcuni tratti del metodo di Getto che, se da un lato specificano nodi che si riveleranno poi caratterizzanti proprio per gli sviluppi storico-teatrali dei suoi allievi, dall'altro manifestano elementi di ricorrenza non secondari rispetto a quelli che abbiamo considerato altri casi similmente fondanti rispetto alla gemmazione teatrologica in area letteraria. Numerose indicazioni in questo senso si possono rinvenire proprio in questo volume che intende interrogare la filiazione teatrale del magistero di Giovanni Getto. Fra queste, ad esempio il singolare accento posto sulla dimensione generativa dell'opera letteraria, come sottolinea Claudio Magris nel proprio contributo, nel senso di «capire la genesi, il formarsi e il divenire del mondo poetico di uno scrittore nella sua opera, […] a cogliere il modo in cui un'opera letteraria prende forma»;109 questa particolare tipologia di attenzione, che poi ritroveremo, per strade diverse, anche
nell'insegnamento di altri “globali maestri”, pone l'accento sull'adozione di una prospettiva che non è eccessivo definire “processuale” – rileva Maria Luisa Doglio nel suo intervento: «Getto contrapponeva a un modo statico di analizzare la tragedia considerata come un risultato o un oggetto, un modo dinamico che la osservava nel suo farsi»110 –, capace di dare origine a diversi
piani di cortocircuito rispetto alle interpretazioni correnti delle storie letterarie. In questo senso,
108 Roberto Alonge, Gigi Livio, Presentazione, in AA.VV., Il magistero di Giovanni Getto. Lo statuto degli studi sul
teatro. Dalla storia del testo alla storia dello spettacolo, Costa & Nolan, Genova 1993 (Atti del Convegno
Internazionale, Torino 22 marzo 1991, Alba 8-10 novembre 1991), p. 7.
109 Claudio Magris, Il valore di un metodo, in AA.VV., Il magistero di Giovanni Getto, cit., p. 80.
sembrano lavorare anche altri due livelli distinti, che emergono entrambi nuovamente dalla testimonianza di Magris: da un lato il privilegio per la “critica tematica”111 – la pregnanza di questo
dato, poi si ritroverà, seppure mutata, anche in seguito –, vale a dire per l'impostazione dell'analisi intorno a nuclei problematici; da tutt'altra prospettiva, vi è la capacità di aprire il punto di vista ben oltre le consuete dicotomie oppositive su cui si fonda tradizionalmente il sapere umanistico, in un «dinamico intrecciarsi della storia culturale generale e oggettiva, del grande movimento di un'epoca, con la creazione individuale».112
Entrambi gli aspetti si inseriscono in un più ampio contesto di rielaborazione della tradizione critica e di ristrutturazione dell'approccio teorico-metodologico, che si realizza anche, infine, con la concentrazione su questioni, figure ed epoche comunemente emarginate o poco valutate dalla storia letteraria. È di nuovo Claudio Magris a rilevare il punto, inserendolo dunque nei termini di un progetto di revisione delle modalità del sapere e del metodo critico che si potrebbe definire unitario, almeno rispetto all'eredità che esso esprime presso gli allievi di Giovanni Getto:
«Dobbiamo a Getto tante lezioni fondamentali. Lezioni che, attraverso la scoperta di un'epoca lontana, illuminavano anche il presente. Così la scoperta della cultura e della poesia barocca, che dobbiamo a Getto, non ha significato per noi soltanto la scoperta di un mondo culturale spesso, allora, anche dimenticato o sottovalutato, ma ci ha aiutato anche a capire, attraverso il confronto col barocco, le zone d'ombra e del divenire storico, i vuoti e le assenze nel cammino del progresso, la fenomenologia malinconica delle grandi epoche di grande crisi – tutto ciò che, poco dopo, ci ha aiutato a capire il nostro secolo, il Novecento».113
Questi aspetti sembrano inserirsi in una sorta di senso di insofferenza costitutiva per le categorie già date, i canoni prestabiliti, i dati comunemente accettati. Scrive Maria Luisa Doglio: «Getto è un esempio sommo del fastidio per qualsiasi formula corrente, per automatismi e convenzioni ripetitive. Si è creato un linguaggio critico e ha continuato a lavorarci secondo gli argomenti, i secoli e gli autori».114
Il punto è più chiaramente esplicitato da Roberto Alonge nel suo intervento, in una riflessione capace di tracciare elementi di ricorrenza – seppure con le dovute e necessarie differenze – con il coevo operato di Giovanni Macchia a Roma e quello degli altri “globali maestri giunti dalla letteratura a rivelare la differente cultura del teatro”:
«Possiamo ben dire che quel gusto per l'avventura culturale, quel piacere di varcare i confini, quella tendenza al viaggio interdisciplinare sono propriamente la fucina in cui si forgia una materia come la storia del teatro, che è per definizione disciplina di frontiera, itinerario trasversale entro territori diversi».115
Qualcosa di simile, infatti, si ritrova nel ricordo che gli allievi riservano alla figura e al metodo di Giovanni Macchia, nel contesto degli Auguri predisposti dalla rivista «Teatro e Storia» per l'ottantesimo compleanno di quello che considerano il maestro, non solo del gruppo di studiosi che sono stati propriamente suoi allievi, ma di quell'intero ambiente di studio:
111 «Egli ci ha insegnato soprattutto la critica tematica; ci ha insegnato a concentrare l'attenzione su quel “tema” in cui
ciò che precede e circonda il testo s'incontra con il testo poetico […]». C. Magris, Il valore di un metodo, cit., p. 80.
112 Ibidem. 113 Ivi, pp. 79-80.
114 M. L. Doglio, Il teatro barocco di Giovanni Getto, cit., p. 62.
115 Roberto Alonge, Getto e il teatro: storia del testo o storia dello spettacolo?, in AA.VV., Il magistero di Giovanni
«Se ci osserviamo, riconosciamo tutti fortissima la sua impronta, la sua disistima per le specializzazioni precostituite, per quelle paroline tanto fiere e sciocche sulla bocca dell'università (“novecentista”, “cinquecentista”, “secentista”, “ottocentista”, “antichista”...), tanto amiche dei ruoli quanto sconosciute alla razza degli studiosi. Alcuni credono che il contrario delle specializzazioni e delle corsie accademiche sia il saper tutto, il nobile dilettantismo, quand'è invece la ricerca d'un principio di individuazione».116
Affrontando l'opera di Giovanni Macchia attraverso le testimonianze dei suoi allievi è possibile individuare alcuni elementi salienti, che abbiamo già incontrato nella loro impostazione teorico- metodologica e che si dimostreranno fondanti per la nuova teatrologia anche in seguito, ma anche in parte nell'analisi dell'eredità di Giovanni Getto: c'è l'impostazione storico-critica su fondamenti tematici più che sulle periodizzazioni comunemente accettate o sulle figure più frequentate, che si esprime spesso nella creazione di libri attraverso “l'arte e la tecnica del montaggio”, vale a dire che sistematizzano insieme saggi e testi di diversa natura e provenienza in una sequenza che va a disegnare un campo di riflessione intorno a un nodo problematico unitario.117 Utilizzando la guida
dello studio che Jacqueline Risset ha dedicato al metodo di Giovanni Macchia, ripercorrendone analiticamente l'opera, si trova la combinazione di dimensione individuale e dimensione storica, cioè di specificità e globalità che, insieme, hanno l'esito di «sconvolgere la temporalità serena» della tradizionale storia letteraria, lavorando su quei «termini lineari che hanno di solito il compito