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I L “ NON ANCORA TEATRO ”: UN “ ALTRO TEATRO ” E XTRA TERRITORIALITÀ A PIÙ DIMENSION

1. O RIGINI DELLA NUOVA TEATROLOGIA

1.4 DINAMICHE DEL PARADIGMA DISCIPLINARE.

1.4.2 I L “ NON ANCORA TEATRO ”: UN “ ALTRO TEATRO ” E XTRA TERRITORIALITÀ A PIÙ DIMENSION

Altro dato determinante per il processo di rifondazione degli studi teatrali e per la nascita della nuova teatrologia si rinviene, come si è accennato in apertura, nelle particolari condizioni di extra- territorialità che segnano, anche in questo caso, tanto le origini che le fasi successive della disciplina. Si usa qui la categoria così come l'ha concettualizzata Ferdinando Taviani, vale a dire nei termini del rapporto fra la condizione extra-territoriale e le pratiche di territorializzazione: lo statuto non ancora organizzato, gerarchizzato, strutturato di un oggetto (il sapere teatrale) limitato o emarginato o addirittura escluso dall'orizzonte teorico vigente e le azioni che si intraprendono per inquadrarlo (la fondazione della teatrologia). Taviani formula questo doppio concetto per spiegare le condizioni della nascita e dello sviluppo del fenomeno del teatro di gruppo; abbiamo già frequentemente dimostrato come idee nate per analizzare la pratica scenica di quegli anni possano in qualche modo – specificamente declinate – aderire anche alle vicende e alle situazioni degli studi:

«Territorializzazione ed extraterritorialità nel caso del teatro, sono stati storicamente concetti interdipendenti. O addirittura le due facce d’uno stesso processo. Il termine “territorializzazione” viene usato dai geografi per indicare quell’insieme di operazioni che organizzano, a diversi livelli, fisico e mentale, lo spazio in cui si è inglobati. Parlano

dunque dei modi in cui l’uomo trasforma lo spazio in territorio modificandolo materialmente (edifici, strade, dighe, canali, scavi, ecc.); pensandolo in maniera gerarchizzata e distinta secondo i contorni delle frontiere, delle amministrazioni e dei valori (“noi” e “loro”, fanum e profanum, ecc.); intessendovi reti di relazioni che uniscono zone spazialmente non contigue (le diverse proprietà di uno stesso ente, il coordinamento degli spazi con funzioni simili, i legami simbolici che avvicinano porzioni di territorio materialmente lontane, ecc.). L’insieme di queste operazioni di territorializzazione dà luogo – dicono – alla “geografia complessa”. Risulta utile per pensare le complessità teatrali.

[…] I teatri che non possono adattarsi completamente a ciò che il sistema indica e permette loro, sono costretti a cambiare l’assetto del proprio territorio d’appartenenza, cioè non solo a cambiare la struttura del “luogo teatrale”, ma anche a modificare la rete delle affinità ed il modo in cui pensare i confini del mondo teatrale. Debbono, cioè, rielaborare per il proprio uso i criteri della territorializzazione e quindi – rispetto alla previa organizzazione – farsi extraterritoriali».234

Si è già detto della provenienza altra dei primi studiosi di teatro, negli anni Sessanta: è un'alterità che si sostanzia rispetto al teatrale – si erano formati infatti soprattutto nei campi di studio storico- critico-letterari –, ma anche che si articola al proprio interno, ponendo in dialogo prospettive altamente differenziate. Di più, nell'intento di costituire le basi teorico-metodologiche della nuova disciplina, i primi teatrologi vanno ad attingere a bacini di sapere estremamente diversi fra loro, accomunati dal non essere istituzionalizzati da alcuna sistematizzazione ufficiale: dalla lunga storia degli studi teatrali alle pressioni, più vicine, delle avanguardie della scena del primo e secondo Novecento, fino a poi incontrare quelle del sapere umanistico in uno dei suoi più effervescenti momenti di rinnovamento. A questo vanno aggiunte le già viste pratiche e sperimentazioni alla ricerca dello specifico disciplinare, un oggetto che – anche questo si è osservato – sembra spingere sempre altrove le interrogazioni dei propri studiosi. Il grado di apertura, in questa primissima fase di inquadramento del campo disciplinare, è grande; ma altrettanto ampia si mantiene, potenzialmente, nelle stagioni successive degli studi. La condizione di extra-territorialità, cioè, non è solo un punto di partenza – un dato contingente, una condizione materiale – per la nuova teatrologia italiana, ma va a costituirne parte della cornice epistemologica. Gli studi teatrali, nel secondo Novecento, continuano a sperimentare approcci metodologici altri, a frequentare le diverse pressioni che vengono dalla scena, a rinquadrare il proprio oggetto – e a trarre, da tutta questa esperienza sperimentale, conseguenze epistemologiche che modificano il profilo stesso della disciplina. Seguendo il ragionamento di Taviani, il persistere di un certo grado della condizione di extra- territorialità negli studi – in particolare la loro inadattabilità –, implica la continua attivazione di imprese di riterritorializzazione.

Qui si può comprendere come, per quanto riguarda le discipline teatrologiche, non si possa parlare omogeneamente di vocazione inter- o multi-disciplinare. La frequentazione di campi di studio altri, assieme alla ricombinazione unitaria dei loro stimoli e strumenti, per quanto riguarda le origini della disciplina, non sembra appartenere soltanto a un più diffuso zeitgeist di stampo collaborativo in opera a quest'altezza cronologica e anche presso altre aree; in contesto teatrologico, la questione si dà più che altro come una condizione di partenza, un a priori ineludibile e proprio per questo fondante. Ecco come descrive, ad esempio, la situazione Ferruccio Marotti:

«Una bibliografia sistematica sui trattati di spettacolo nel Rinascimento non può in realtà esistere: ci si trova infatti di fronte a un tipico argomento di frontiera in cui la

bibliografia specifica è scarsa mentre numerosi e importanti sono i rimandi e le notazioni in testi appartenenti a varie e diverse discipline».235

L'occasione è quella della sua pubblicazione dei trattati di scenografia, scenotecnica e spettacolo umanistici, rinascimentali e manieristici, a tutti gli effetti un lavoro – seppure edito nel 1974 – che appartiene a quella prima stagione di rielaborazione epistemologica che segna l'innesco del processo di rifondazione della teatrologia italiana fra anni Sessanta e Settanta (in particolare, il tema è quello di cui Marotti si occupava anche nel progetto di storia documentaria del Saggiatore). L'extra-territorialità della prima teatrologia, dunque, non è solo legata alle condizioni particolari di non strutturazione della disciplina, che si fonda sulla reinvenzione e ricombinazione di basi epistemologiche altre, ma è un dato che appartiene anche agli oggetti che si trova ad affrontare nei suoi primi anni, spesso – è il caso anche di altri campi di studio che abbiamo affrontato – “argomenti di frontiera” la cui genealogia va arricchita necessariamente di apporti storiografici di diversa provenienza. In questo senso, fra l'altro, l'apprendistato della nuova teatrologia si sottrae alle tentazioni specialistiche, svolgendosi per forza di cose sui territori della globalità del sapere storico e umanistico.

Il punto della nuova teatrologia non è tanto entrare in contatto con saperi diversi o logiche disciplinari differenti, con altre metodologie e strumenti cui attingere all'occorrenza; si tornerà spesso su questo punto, e in particolare nel capitolo dedicato alla questione così come si presenta nella teatrologia post-novecentesca. Per il momento è importante notare come la questione sia ben più complicata rispetto al piano dei rapporti fra gli studi teatrali e altre forme di sapere, perché si tratta, proprio per l'ampiezza e la mobilità del suo oggetto di studio, per la necessità di rinterrogarlo ogni volta, «per vedere meglio» le relazioni in atto nel fatto teatrale e nelle condizioni della teatralità, di «dislocare lo sguardo, conquistarsi di volta in volta il punto di vista».236

Su questo versante, andiamo a chiudere il filo del discorso richiamando un'altra idea proposta da Ferdinando Taviani, quella del ruolo giocato, nella cultura teatrale novecentesca, dall'amatorialità.237

Lo studioso esplora questo concetto per spiegare da un punto di vista poco frequentato le dinamiche generative della Riforma teatrale primo-novecentesca; noi lo evocheremo per provare ad avvicinarne altre, quelle della nuova teatrologia. Non per il dato di non-professionismo o di inesperienza teatrologici che emerge dall'analisi della formazione di quei primi studiosi di una disciplina ancora da farsi; non per l'inesistenza, all'epoca, di un simile campo di studi, che abbiamo visto comunque essere accompagnato e preceduto da altre forme di sapere teatrale: Taviani non sviluppa il concetto su questi versanti – che non a caso lo studioso associa alla terminologia legata invece al “dilettantismo” –, ma su quelli, ben più stimolanti della trasformazione di quelle condizioni di estraneità iniziale in una logica strutturale, in un discorso programmatico, in un progetto di un teatro diverso, «come se la parola saltasse nel suo dentro, e vi scoprisse un'altra dimensione».238

Il nodo di interesse si rinviene innanzitutto nelle modalità in cui viene posto il problema: non tanto a livello del fronteggiarsi di un sistema strutturato e riconosciuto con un altro minoritario e ancora fluido, ma sul piano della differenza culturale che entra in gioco e presiede l'origine di un altro modo di pensare (e fare) il teatro:

«In realtà la differenza fra il teatro professionale e quello degli amateurs non era (solo) una questione d'anticamere, di stadi di formazione, ma di sistemi e mentalità diverse, di

235 F. Marotti, Storia documentaria del teatro italiano, cit., p. 313. 236 F. Cruciani, Comparazioni..., cit., p. 10.

237 Ferdinando Taviani, Amatorialità. Riflessioni a partire dal dilemma di Osanai Kaoru: teatro eurasiano, teatrologia

comparata e l'emisfero amatoriale, «Teatro e Storia», XIX, 26, 2006, pp. 263-313.

dislivelli di cultura interni all'organizzazione teatrale complessiva. Dietro il non ancora teatro degli amateurs c'era un altro teatro».239

Forse possiamo accogliere questa prospettiva anche rispetto al nostro oggetto: provando a immaginare come, al di là del “non ancora teatro” di quella prima generazione di studiosi – la loro intensa ricerca del proprio specifico, le imprese di perimetrazione sul versante tematico e teorico- metodologico –, ci fosse, in effetti, tutto un altro modo di pensare il teatro rispetto a quello all'epoca in uso, tanto negli studi che sulla scena, che poi emergerà come dirompente negli anni successivi. Il percorso storiografico di Taviani si muove fra gli itinerari tracciati dalle «due gambe» del teatro occidentale, quelle «del professionismo e dell'amatorismo», disegnando le condizioni di un'insoddisfazione per la cultura vigente, le sue convenzioni e le sue pratiche: alle origini di quella che è conosciuta come la Grande Riforma del teatro nel Novecento, secondo lo studioso, c'è un «rifiuto insieme dell'ethos del teatro di professione e dell'inferiorità del teatro amatoriale», che però non si concretizza solo in termini di negazione od opposizione, ma si trasforma «in un atteggiamento che potremmo chiamare sperimentalismo, estremismo, ricerca continua, continuo scontento per ogni risultato acquisito, fame del nuovo, lavoro su di sé. Oppure amatorialità».240

Seguendo la storia della riconversione dell'“amatorismo” in un'altra, nuova cultura teatrale, si incontrano dunque elementi che si pongono nei termini di una certa risonanza rispetto al profilo della teatrologia delle origini: lo sperimentalismo proprio della ricerca continua e l'insoddisfazione per i concetti prestabiliti si accompagnano a tutto il lavoro che quei maestri, all'inizio del XX secolo, hanno riproposto in continuazione e con irriducibile insistenza sul fare ogni volta tabula rasa della propria conoscenza, sullo «stare nella partitura – per utilizzare una sintesi efficace messa a punto da Franco Ruffini – in condizioni di extraterritorialità, cioè senza farsene schiavi»,241 non

permettendole di cristallizzarsi nel suo ripetersi, insomma sul continuare a rifondare il teatro proprio per mantenere solido il dominio del teatrale. La «particolare atopia» di un certo teatro descritta da Ruffini,242 la sua “extraterritorialità” sono idee che ritornano con insistenza nelle riflessioni e negli

studi che i teatrologi producono anche attraverso l'eredità giunta per strade lunghe e complicate in Italia dai maestri della scena del primo Novecento; anche Fabrizio Cruciani è tornato sul tema formulando alcuni dei suoi concetti più efficaci, come quello di “teatro come luogo dei possibili”, su cui ci sarà modo di tornare spesso in questa parte. Lo studio del teatro prima e dopo la sua istituzionalizzazione, nel Rinascimento e nel Novecento – dunque della “amatorialità” in quanto oggetto di indagine –, va senza dubbio a costituire un territorio di ricerca sostanziale per questa prima generazione degli studi. E sembra anche in qualche modo influenzarne i propositi, se, come dice ancora Ruffini riprendendo le idee di Cruciani «in questo essere sempre altrove sta il valore del teatro».243 Nell'osservare i movimenti possibili dell'idea dell'amatorialità fra i maestri del teatro

novecentesco e i nuovi studi teatrologici, fra l'altro, ci sono livelli di concordanza anche sul piano della causalità, se pensiamo alle forme di insoddisfazione nei confronti della cultura vigente che presiedono la possibilità di immaginare e poi fare quel teatro diverso. Ma, per provare a comprendere il problema del paradigma degli studi teatrologici, non è solo questo piano di risonanza morfologica ad interessarci. L'ipotesi di una doppia operatività che combina il piano dell'oggetto di indagine con la prospettiva teorico-metodologica è interessante, e sarà verificata lungo tutta l'indagine che si sviluppa in questa parte; si prova ora a sperimentarne il funzionamento seguendo il ragionamento di Taviani sull'“amatorialità”, per capire come tale connessione potrebbe funzionare al livello delle aperture genetiche che segnano le origini e gli sviluppi della nuova

239 Ivi, p. 276. 240 Ivi, p. 302.

241 Franco Ruffini, Conversazione a più voci, in Id. Per piacere. Itinerari intorno al valore del teatro, Bulzoni, Roma

2001, p. 16.

242 Ibidem. 243 Ivi, p. 14.

teatrologia. Lo studioso, nella sua storia, va oltre il piano morfologico e rileva come quel dato di estraneità originario si radichi come elemento strutturale, come logica – si potrebbe dire paradigma – di quell'“altro teatro”. Qui, l'amatorialità non è più una condizione e nemmeno un concetto, ma una “forma mentis” che va a plasmare le modalità in cui quella cultura differente si origina e, facendosi tradizione, invece che ripetersi, torna a rigenerarsi:

«È soprattutto dall'amatorialità come forma mentis che cresce l'estremismo nel modo di pensare il teatro. Cioè la reinvenzione dei suoi valori».244

Ci sarà modo, in chiusura, di tornare sulla questione per verificarne il funzionamento anche ad altri livelli. Per il momento è sufficiente annotare che, attraverso l'osservazione del caso dei maestri del teatro del primo Novecento – fra l'altro su statuti piuttosto prossimi a quelli del nostro oggetto di studio – si dà l'ipotesi che un presupposto materiale possa convertirsi, trasformato, in una logica: è possibile così immaginare che l'approfondimento di tali dati originari dia luogo a una messa in discussione delle convenzioni vigenti e, dunque, presieda la possibilità di immaginare (e poi di fare) un altro teatro, trasformando quella condizione iniziale in forma mentis.

1.4.3 LANUOVATEATROLOGIAELA “TRADITIONDELANAISSANCE”. LECONSEGUENZEDELPROCESSODI

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