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Nella notte tra il 17 e il 18 maggio gli uomini dei reparti speciali del generale Dalla Chiesa effettuano a Genova ottantaquattro perquisizioni, quindici interrogatori, nove fermi e sette arresti. Vengono spiccati, inoltre, quattordici mandati di cattura.

Tra le case perquisite c’è quella dell’avvocato Arnaldi, noto per aver spesso assistito imputati di reati politici; nella stessa notte cominciano ad arrivare a casa del legale telefonate di persone che chiedono la sua consulenza e il suo aiuto, molte delle persone coinvolte sono suoi amici personali. A Genova le forze dell’ordine non avevano fino ad allora mai effettuato un’operazione così articolata e spettacolare, ma già cominciano ad addensarsi le prime ombre su tutta la vicenda. Da più parti si lamenta l’eccessiva brutalità dei metodi usati dai carabinieri: porte sfondate, armi spianate e nessuna spiegazione fornita ai parenti degli arrestati. La segretezza è la cifra peculiare dell’intera operazione: ai legali non vengono fornite notizie sui loro assistiti, per alcuni giorni non possono sapere neppure in quale carcere sono detenuti, le informazioni in possesso dei giornalisti sono poche e frammentarie. Quattro arrestati sono legati all’ambiente universitario: Enrico Fenzi è un docente, Luigi Grasso, Isabella Ravazzi e Giorgio Moroni si sono laureati alla Facoltà di Lettere e Filosofia; altri due sono operai, si tratta di Massimo Selis e Gino Rivabella; Paolo La Paglia, infine, è un infermiere del San Martino. La prima cosa che risulta evidente è l’eterogeneità politica e ideologica delle persone arrestate, fermate o perquisite: tra loro vi sono ex luddisti, delegati sindacali, autonomi, simpatizzanti de Il Manifesto, appartenenti al Movimento; insomma, sono rappresentate tutte le nuances della sinistra genovese ed è difficile trovare i collegamenti tra aree politiche così diverse e spesso ideologicamente assai lontane.

Molte persone coinvolte sono nomi di spicco nell’ambito della sinistra genovese, come Grasso e Fenzi, appartenenti al movimento studentesco e processato, il secondo, pochi giorni prima per aver organizzato un’occupazione; o come Moroni e Rivabella, autonomi, entrambi imputati recentemente di associazione clandestina e poi prosciolti in istruttoria. È il primo esito clamoroso di un’operazione iniziata alcuni giorni prima dai nuclei speciali dei carabinieri ed è una violenta scossa per il Movimento, la sinistra e la città intera.

Il giorno seguente si registrano le prime reazioni; le formazioni politiche coinvolte si chiudono nel silenzio e questo è l’atteggiamento prevalente in città. Le dichiarazioni ufficiali, assai laconiche, sono improntate a una grande cautela: si auspica un rapido chiarimento della situazione e un altrettanto

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veloce accertamento delle responsabilità, nel frattempo si sospende ogni valutazione. Anche gli operai intervistati si trincerano dietro il silenzio.

Le uniche eccezioni sono costituite dall’Università di Balbi, duramente colpita e, in parte, dall’esecutivo del Consiglio di fabbrica dell’Italsider, tra i cui dipendenti si contano tre fermati e due perquisiti. Alla facoltà di Lettere e Filosofia, viene indetta un’assemblea e in un comunicato del Movimento di Lotta si mette in relazione l’operazione genovese con quella effettuata il 7 aprile a Padova. Il disegno evidente, secondo il comunicato, è quello di colpire “le avanguardie di lotta nelle fabbriche, nei quartieri e nelle scuole” di mettere fuori legge tutti i movimenti della sinistra extraparlamentare, che costituiscono l’unica vera opposizione all’estabilishment.

Il Consiglio di fabbrica emette un comunicato che, assieme alle manifestazioni di cautela, esprime la speranza che vengano rispettati i diritti costituzionali dei cittadini e dichiara che l’esecutivo si rende disponibile per contribuire a sventare ogni tentativo di strumentalizzazione.

Nei giorni successivi, l’operazione prosegue, allargandosi sia in città, sia nella zona del ponente, verso Sanremo e l’entroterra; aumenta di giorno in giorno il numero degli arresti, dei fermi e delle perquisizioni, mentre vengono spiccati nuovi mandati di cattura.

L’operazione è sempre condotta all’insegna del riserbo e della segretezza (per alcuni giorni non si hanno certezze neppure in merito all’identità degli arrestati), mentre in città l’atmosfera si arroventa sempre più. L’assenza di informazioni certe, il coinvolgimento di personaggi noti e di alcuni importanti centri della vita cittadina (Università, Italsider, San Martino), l’eterogeneità politica dei fermati tra cui vi è persino un anarchico, la mancanza di certezze riguardo le imputazioni e le veementi proteste di innocenza dei diretti interessati, sono le principali fonti di polemica. Più passa il tempo, più, negli ambienti colpiti, lo stupore e il riserbo lasciano il posto alle proteste, da più parti si esprime l’impressione che si stia, per così dire, sparando nel mucchio. Mentre i gruppi della sinistra parlamentare sostengono la tesi della provocazione nei confronti del Movimento, tesa a distruggere l’area del dissenso, anche il Consiglio di fabbrica dell’Italsider emette comunicati sempre più preoccupati. A Balbi si avvicendano le riunioni, le assemblee e le manifestazioni di protesta e di solidarietà verso gli arrestati. La Federazione socialista ricorda l’inefficacia nella lotta al terrorismo di una persecuzione ideologica indiscriminata e il pericolo derivante dalla confusione, mentre il PSDUP lamenta i metodi usati dal generale e la mancanza di trasparenza; anche il Partito Radicale è attestato su posizioni simili. A sinistra resta solo il Pci a difendere completamente l’operato delle

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forze dell’ordine e della magistratura e a esprimere piena fiducia nell’operazione, al punto di espellere un suo iscritto appena ricevuta notizia del suo arresto249.

Alla chiusura dell’istruttoria, il 15 novembre 1979, vengono prosciolti diversi imputati e rinviati a giudizio Enrico Fenzi, Isabella Ravazzi, Claudio Bonamici, Giorgio Moroni, Luigi Grasso, Guatelli Mauro, Massimo Selis, Antonio De Muro, Silvio Iennaro, Paolo e Lorenzo La Paglia, Massimo Marconcini, Walter Pezzoli e Angelo Rivanera per rispondere del delitto di partecipazione in banda armata. Sono rinviate a giudizio anche due infermiere del San Martino per falsa testimonianza, avendo negato di aver ospitato in casa loro due coimputati.

La sinistra genovese si stringe intorno agli imputati e il movimento sembra ritrovare per un breve momento coesione e energia: la solidarietà e l’indignazione si concretano in una attività di controinformazione che mira, prima, a rompere la segretezza che circonda la vicenda e, dopo, a smontare le accuse e a propugnare la tesi della provocazione volta a distruggere i movimenti. Intanto, conclusa l’istruttoria, si cominciano ad avere notizie più precise: le prove raccolte ai danni degli indagati risultano essere prove indiziarie, l’elemento più grave è quello a carico di Enrico Fenzi e Isabella Ravazzi, nella cui casa di campagna viene rinvenuta, durante la perquisizione al momento dell’arresto, una pistola nascosta nel camino; l’accusa si regge principalmente su le confessioni di tre testimoni. Importanti informazioni erano state raccolte da due ufficiali di Polizia Giudiziaria, i quali, dopo l’assassinio di Guido Rossa, sottoposero Francesco Berardi a diversi interrogatori informali, facendo leva sulla crisi che l’uomo stava attraversando dopo la morte del collega. Nel corso di questi colloqui mai verbalizzati; Berardi fornisce numerosi elementi che portano all’identificazione di Fenzi nell’uomo che fornì all’operaio i volantini da distribuire in fabbrica.

Le indagini sulla lotta armata a Genova, inoltre, avevano ricevuto impulso dall’attività dei nuclei speciali dei carabinieri che avevano individuato e sentito due donne che saranno al centro di infuocate polemiche: Susanna Chiarantano e Patrizia Clemente. La prima ha militato nell’estrema sinistra genovese fino al 1974 e ha in quest’ambito molte relazioni e amicizie; negli ultimi tempi aveva lavorato presso Enrico Mezzani, personaggio ambiguo assai noto in città. Quello che è certo è che la sua testimonianza sarà alla base dell’incriminazione di diverse persone e che le dichiarazioni che rilascerà a Lotta Continua, su cui si tornerà, suscitano non poche perplessità. Patrizia Clemente è meno nota in città e pare che abbia militato nell’Autonomia. Le sue dichiarazioni portano all’arresto di alcune persone, ma la giovane non presenzierà ai processi, si trasferirà all’estero e non si avranno sue notizie se non dopo molti anni, quando tornerà a Genova per scagionare alcuni imputati.

249 Sulle indagini si vedano gli articoli coevi di «Lotta continua» e della stampa citttadina e le comunicazioni della

Prefettura di Genova al Ministero degli Interni in ACS, MI, Gabinetto, affari generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28

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Le polemiche intorno ai metodi con cui sono state condotte le indagini, le perplessità riguardo a diversi aspetti della vicenda non si spegneranno fino alla sentenza di primo grado che assolverà, tredici mesi dopo l’arresto, tutti gli imputati. Ma già nell’estate del 1979, è chiaro che la colonna genovese non è stata sbaragliata. Essa continua la sua attività ed è evidente che le persone arrestate non costituiscono il nerbo dell’organizzazione. La sentenza assolutoria giungerà dopo un lungo processo che divide l’opinione pubblica e suscita dibattiti e grande interesse.

Il processo inizia il 14 aprile del 1980, poco più di una settimana dopo il blitz in via Fracchia250. Pochi giorni prima, la Chiarantano ha rilasciato un’intervista a «Lotta Continua», in cui racconta una storia abbastanza incredibile: sostiene di essere andata a lavorare nel 1978 da Mezzani, in seguito alla lettura di un annuncio e senza avere idea che avrebbe dovuto lavorare per lui; Mezzani le avrebbe imposto di infiltrarsi negli ambienti dell’estrema sinistra genovese per poi riferire ai carabinieri informazioni incriminanti e lei si sarebbe prestata perché in condizioni di sudditanza psicologica. Mezzani respinge tutte le accuse e dichiara di non avere niente a che fare con la faccenda; la stessa Chiarantano correggerà ancora la sua versione e il suo racconto appare poco credibile, ma ormai su tutta l’operazione si profilano ambiguità e lati oscuri251. Il clima è sempre più teso; in una città esasperata dai troppi episodi di morte e violenza che si sono avvicendati nell’ultimo anno e mezzo, colpita virulentemente dalla lotta armata e sottoposta a una dura repressione, questo processo appare carico di simbolismi e significati. La grande scommessa per la democrazia è quindi quella di riuscire a esercitare in un simile momento una giustizia serena e imparziale.

Ma prima che si arrivi alla conclusione del processo, si verifica un drammatico evento: l’avvocato Edoardo Arnaldi si suicida per sfuggire all’arresto. Cinquantacinque anni, passato dall’avvocatura civile a quella penale nei primi anni Settanta, per seguire esclusivamente, salvo rarissime eccezioni, processi a sfondo politico, dapprima aveva difeso i militanti del movimento studentesco da lievi imputazioni, poi la sua notorietà era cresciuta con l’assistenza prestata ad alcuni membri del XXII ottobre, a Giuliano Naria, a Patrizio Peci; aveva inoltre fatto parte del collegio di difesa nel processone di Torino contro il nucleo storico delle Br. Era stato un giovanissimo partigiano, aveva militato nel PCI fino al 1952, poi si era avvicinato alle posizioni più libertarie del Partito Socialista e nel 1976 era stato candidato alle elezioni comunali nelle liste di Democrazia Proletaria, ottenendo numerose preferenze. Fu rappresentante a Genova di Soccorso Rosso e presidente della Lega per i diritti dell’uomo. Dedito all’assistenza dei brigatisti, lavorava senza sosta, nonostante gravi problemi di

250 Sull’istruttoria e il processo si vedano le comunicazioni del Prefetto al Ministero degli Interni del 6 maggio e 7

giugno in ACS, MI, Gabinetto, affari generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28 e TPG, Sentenza della Corte d’Assise del 03.06.1980 e Sentenza della Corte d’Assise d’Appello del 23.02.1982.

251 Sulle vicende legate all’inchiesta si vedano gli articoli pubblicati in quei giorni da «Il Secolo XIX e da «Lotta

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salute, a contatto con le dure realtà delle carceri speciali, mentre l’avventura delle Brigate Rosse disegnava la sua parabola discendente e vedeva travolti nella disfatta molti amici, compagni e famigliari dell’avvocato.

Negli ultimi mesi Peci aveva iniziato a parlare e le accuse investono anche Arnaldi, il quale, secondo il pentito, costituiva un tramite tra i brigatisti detenuti e quelli in libertà e aveva, inoltre, escogitato quei cavilli legali che, utilizzati dai militanti delle BR, avevano più volte inceppato i processi e messo in difficoltà i giudici. I carabinieri sospettavano di lui fin dai tempi del sequestro Moro a causa del fatto che l’avvocato aveva avuto un colloquio in carcere con Sante Notarnicola, il quale non era suo assistito e dopo pochi giorni le Brigate Rosse proposero uno scambio tra il Presidente della DC e un gruppo di detenuti tra cui lo stesso Notarnicola.

Così il 19 aprile, verso le nove del mattino, i carabinieri si presentano, con un mandato di arresto in casa Arnaldi; l’avvocato non appare chiede ai militari di potersi preparare e mentre questi procedono alla perquisizione, prepara la sua borsa, rassicura la famiglia che lo assiste nei preparativi e fa alcune telefonate, una all’Ordine degli avvocati, per sapere come proteggere il materiale che teneva nell’appartamento coperto dal segreto professionale, per lo stesso motivo chiama la Magistratura torinese che lo ha rassicura. A un certo punto, i carabinieri trovano due pistole regolarmente registrate, le appoggiano su un tavolo e la famiglia spiega di aver ricevuto minacce e di avere avuto paura negli ultimi tempi. Sempre tranquillamente, Arnaldi si avvicina al tavolo, afferra una delle due pistole, lasciate incustodite, corre verso il bagno e si spara un colpo in bocca, nessuno fa in tempo a fermarlo252.

Le ripercussioni sul processo non si fanno attendere: dapprima si teme una nuova sospensione, ma gli impedimenti tecnici vengono velocemente superati e si decide di andare avanti, l’udienza del 23 aprile è quasi esclusivamente commemorativa, gli avvocati presenti ricordano il collega e Giorgio Moroni legge con voce commossa una lunga dichiarazione fremente di rabbia e dolore.

Il funerale di Edoardo Arnaldi è un momento cruciale, l’ultima tappa della parabola del movimento a Genova. Circa quattromila persone seguono il feretro avvolto da una bandiera rosse dall’abitazione al cimitero di Staglieno; l’imponente corteo che attraversa la città è composto da tutte le anime della sinistra genovese, tranne il Pci253. Al di là del dolore e del lutto, il movimento genovese sembra forte, vitale e unito, pur nella diversità delle sue tante anime. Ma è davvero un funerale e un commiato: questa sarà l’ultima volta che il movimento genovese si troverà a manifestare unito; la sua crisi, già irreversibile, lo porterà velocemente alla disgregazione definitiva.

252 Sulla vicenda dell’arresto e suicidio di Arnaldi cfr. ACS, Direttiva Renzi, PCM, AISE, Serie Attività eversiva e

violenta, fasc. 224, 1980-1982, Comunicazione del CS Genova al direttore della 1 divisione SISMI del 21.04.1980.

253 Sui funerali di Arnaldi si veda la comunicazione della Prefettura di Genova al Ministero degli Interni in ACS, MI,

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Il processo si trascina ancora per più di un mese e il 3 giugno si conclude con l’assoluzione con formula piena di tutti gli imputati. È una sentenza importante che coinvolge l’opinione pubblica in un momento in cui, di fronte alla minaccia del terrorismo e della lotta armata, il dibattito tra gli opposti schieramenti del garantismo e del giustizialismo era particolarmente acceso .

Il generale Dalla Chiesa si fa portavoce dell’amarezza e dello sdegno che provano in molti alla fine di questo lungo e drammatico processo, definendo la sentenza con la frase divenuta celebre “è l’ingiustizia che assolve”. Il Prefetto di Genova, comunicando al Ministero degli Interni le aspre contestazioni dell’arma, commenta che il comportamento del Presidente della Corte è stato sorprendente durante tutto il processo e sembrava influenzato dal clima creato dall’estrema sinistra o dalle minacce incombenti sui giudici da parte del terrorismo254.

Fenzi, dopo molti anni, commenterà: “È vero. Sono stato assolto ingiustamente rispetto alla realtà delle cose, però continuo a ripetere molto serenamente che con quell’istruttoria e quel processo, un giudice non poteva fare altro che assolvermi”255.

Davanti all’uscita del carcere di Marassi c’è una folla che esulta, festeggia la scarcerazione di famigliari, amici e compagni politici, ma anche il trionfo di una determinata concezione della politica e della giustizia. Scrive Lotta Continua: “È stato il primo applauso contro la cultura del sospetto che ci sia stato in Italia; il primo pieno, totale, dirompente: 16 assolti su 16 imputati. […] Sette ore di camera di consiglio hanno cancellato il sospetto? No. O quantomeno non è detto che debba essere così: dimostrare ecco il problema che si sono posti i giudici genovesi, primi, clamorosamente, a negare la cultura del sospetto.”256

In ogni caso la magistratura ha dato prova di serenità e fermezza, pronunciando una sentenza che, seppure risulterà “sbagliata” nel caso di alcune persone, si basa sugli elementi concreti che ha preso in esame, senza farsi condizionare dal clima arroventato.

Infatti la sentenza d’appello, che contraddice in gran parte l’esito di questo processo, viene emessa circa un anno e mezzo più tardi, alla luce di fatti e conoscenze nuovi e inequivocabili; quando ormai i pentiti si erano moltiplicati e la colonna genovese aveva svelato molti dei suoi misteri. In questo lasso di tempo, Fenzi verrà arrestato a Milano, armato, munito di documenti falsi e insieme a Moretti; Walter Pezzoli morirà in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine; Lorenzo La Paglia ammetterà le sue responsabilità e Antonio De Muro verrà chiamato in correità da altri brigatisti. Il processo di appello inizia il 5 novembre del 1981, mentre si sta celebrando il primo grado per gli arrestati della seconda ondata di arresti genovesi che ha sbaragliato gran parte della colonna cittadina e ha provocato

254 Comunicazione della Prefettura di Genova al Ministero degli Interni del 07.06.1980 in ACS, MI, Gabinetto, affari

generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28.

255intervista a Fenzi, in S. Zavoli, Le teste dell’idra, op. cit. 256«Lotta Continua» del 6 giugno 1980, pag. 5

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numerose confessioni. Come al tempo del primo dibattimento una parte dell’opinione pubblica invita alla cautela, a non cadere nella trappola della “logica del sospetto”, mentre un’altra legge questo appello come un’occasione per veder ribaltata una sentenza considerata iniqua; i toni però sono meno veementi, in parte perché vi sono maggiori certezze e in parte perché il Movimento non esiste praticamente più.

La sentenza, emessa il 23 febbraio del 1982, desta stupore in tutti. Per cinque imputati, Paolo La Paglia, Massimo Marconcini, Claudio Bonamici, Silvio Iennaro e Angelo Rivanera, viene confermata l’assoluzione. Gli altri vengono condannati a pene che oscillano dai due ai cinque anni (per il solo Fenzi), ma non per l’accusa di partecipazione in banda armata, reato di cui furono assolti la prima volta, bensì per quello di associazione sovversiva, un delitto più lieve. Tutti i condannati, tranne Fenzi, De Muro e La Paglia, hanno sempre continuato a protestare la loro innocenza che in diversi casi è stata alla fine riconosciuta, al termine di un lunghissimo iter processuale. Del resto. è un fatto che, a parte questi ultimi, nessun altro imputato risulterà appartenere alle Brigate rosse, quando l’organigramma della colonna genovese sarà resa nota attraverso le deposizioni dei collaboratori di giustizia.

L’intera vicenda va a costituire un episodio emblematico rispetto al dibattito sul garantismo che imperversava in quegli anni. Il blitz genovese, simile nelle modalità e vicinissimo nel tempo a quello di Padova, solleva una serie di importanti interrogativi sulla legittimità di simili operazioni. Il coinvolgimento di tante persone risultate innocenti, il sistema di colpire aree politiche spesso, ma non sempre (non è così ad esempio nel caso delle formazioni anarchiche e libertarie), contigue ideologicamente alla lotta armata, l’utilizzo nelle indagini di infiltrati e informatori a volte inattendibili e comunque ambigui, urta la sensibilità democratica di molti cittadini. È indubbio che, in realtà provinciali come quella di Genova e ancor più di Padova, la vicinanza fisica e gli inevitabili rapporti personali tra brigatisti ed esponenti del movimento fa sì che questo tipo di azioni porti a qualche risultato positivo e a far cadere nella rete taluni militanti della lotta armata. D’altronde l’obiettivo di colpire duramente le Brigate Rosse non è stato raggiunto, la vita di molte persone non colpevoli di alcun reato è stata segnata, talvolta anche pesantemente, da ingiuste carcerazioni, il clima politico già rovente è stato ulteriormente surriscaldato. La grave crisi di stabilità attraversata dallo Stato italiano e le pressioni di un’opinione pubblica e di forze politiche agguerrite e schierate su opposti fronti hanno probabilmente influito sull’esito dei due dibattimenti processuali che sono