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4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna

4.4. Il primo periodo

Come abbiamo visto la colonna genovese nasce all’inizio del 1975 e il primo anno di attività è contrassegnato da azioni modeste e da un intenso lavoro interno di organizzazione, solo nel 1977 l’organizzazione raggiungerà la completa strutturazione.

È in questo primo periodo che si comincia a provvedere al reperimento e al mantenimento delle armi, che si allestiscono i primi covi, che si intraprende l’addestramento militare sulle montagne alle spalle della città: il monte Righi, il monte Ratti e il monte Fasce. Un’altra importante attività di questa prima fase è quella costituita dalle inchieste e dal lavoro teorico: lo spoglio dei giornali, i pedinamenti, le ricerche al PRA e in generale tutti i sistemi per acquisire informazioni sui possibili bersagli andranno poi a formare l’archivio dell’organizzazione che risulterà assai completo e ricco di informazioni esatte e, talvolta, non facilmente reperibili. Il lavoro teorico non si esaurisce con l’assunzione di

171 Ho tralasciato il sequestro Costa, perché esso venne deciso, organizzato ed effettuato dal Comitato esecutivo, anche

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informazione sui personaggi che per vari motivi potevano diventare bersagli; un altro aspetto di questo lavoro è lo studio delle situazioni in cui si ritiene necessario intervenire: l’università, per esempio, ma soprattutto le fabbriche. Infatti, le Brigate Rosse risultano essere assai informate su quello che succede in questa realtà: lo stato di salute degli stabilimenti, le ristrutturazioni in progetto o in atto, i piani di sviluppo, il malcontento operaio, le notizie sui dirigenti sono tutti elementi noti all’organizzazione. Chi si occuperà in particolare delle inchieste sarà sempre Fulvia Miglietta, mentre Francesco Lo Bianco sarà tra i più interessati studiosi delle realtà industriali.

Per quanto riguarda l’attività pratica, le due azioni più praticate in questa fase sono i volantinaggi e gli incendi di automobili, particolarmente numerosi durante gli anni 1975 e 1976. Tuttavia la giovanissima colonna genovese non realizza solo azioni modeste: già in questo primo compie una grossa rapina di autofinanziamento e, seppure con l’apporto di forze esterne, organizza il rapimento a scopo di estorsione Piero Costa, appartenente a una delle più importanti famiglie dell’imprenditoria genovese.

La prima azione compiuta dalle Brigate Rosse genovesi è un attentato incendiario contro l’auto e la porta del box di Guido Canale, quarantacinque anni, ricchissimo industriale genovese, che, il 12 aprile 1969, aveva ospitato nella sua villa il “principe nero” Valerio Junio Borghese, durante la sua permanenza in Italia per organizzare un fronte nazionale di destra con finalità golpiste.

Le Br agiscono il 21 gennaio del 1975, intorno alle quattro della mattina, dando fuoco alla 500 usata dal personale di servizio della villa e tentando di appiccare il fuoco anche alla porta del garage, le fiamme sono domate da due camerieri di casa dopo pochi minuti e il fatto sarebbe passato sotto silenzio se non fosse stato rivendicato poche ore dopo. Alle nove e mezzo, infatti, un brigatista telefona alla redazione di un giornale cittadino avvertendo che un comunicato sarebbe stato lasciato in piazza Corvetto, dentro una cabina del telefono. Un cronista si reca sul posto e trova un volantino che rivendica l’attentato contro l’automobile di Canale, adducendo a motivazione i trascorsi politici di quest’ultimo. L’azione rientra dunque ancora nell’ambito di quell’antifascismo militante che accomuna molti diversi gruppi della sinistra armata dei primi anni Settanta; una tematica che nel 1975 non è più al centro dell’azione brigatista, ma che in alcune realtà ha ancora la sua importanza e Genova non può che essere tra queste.

L’otto di ottobre dello stesso anno la colonna brigatista compie un salto di qualità dal punto di vista del livello di scontro con la rapina alla filiale della Cassa di risparmio di Genova e Imperia interna all’ospedale San Martino. Intorno alle nove del mattino, due uomini armati irrompono all’interno della banca, situata al primo piano dell’ospedale, intimano ai presenti di restare fermi e in silenzio e si impadroniscono delle buste paghe dei sanitari (centodieci o centoventi milioni di lire, secondo le stime ufficiali.). Un rapinatore dichiara: “Siamo delle Brigate Rosse, dobbiamo finanziare la guerra

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partigiana.”, dopodiché, i due fuggono, insieme ad altri due che erano rimasti in attesa, attraverso il cortile dell’istituto sanitario. Qui si imbattono in un carabiniere e ingaggiano uno scontro a fuoco; un secondo militare, sentendo gli spari, accorre a una finestra e spara a sua volta ferendo un brigatista, quindi la fuga continua a piedi, accompagnata dagli spari, finché i quattro vedono una 126 lasciata con le chiavi nel quadro e se ne servono per allontanarsi definitivamente.

Il giorno seguente, poco dopo le undici del mattino, due telefonate, una all’Ansa cittadina e l’altra al Corriere Mercantile, annunciano la presenza di un comunicato delle Br in due cabine telefoniche. Il documento, oltre a rivendicare la paternità della rapina alle Brigate Rosse, contiene un attacco al sistema sanitario. Le forze dell’ordine si mobilitano nei giorni successivi, con grande dispiegamento di uomini, posti di blocco, perquisizioni in “case sospette” e ricerche di nascondigli sulle alture e nell’entroterra, ma le indagini non hanno alcun esito.

La rapina rientra nell’ambito delle operazioni di autofinanziamento che creavano notevoli difficoltà strategiche e ideologiche ai gruppi di lotta armata; si tratta, infatti, di operazioni rischiose e la rapina al San Martino, che non finisce in un arresto per puro caso, ne è una prova. Ma ciò che soprattutto imbarazza le organizzazioni è l’impatto politico di queste azioni che possono facilmente non venir capite dall’opinione pubblica; il timore di venir assimilati alla delinquenza comune rende questo tipo di azioni deleterie per l’immagine del gruppo che le effettua, di qui l’insistenza nel sottolinearne la politicità, benché gli stessi militanti si trovino in grave disagio davanti a queste imprese, nella difficoltà di leggerle come azioni rivoluzionarie. La lezione del XXII ottobre non è stata vana. Proprio nel 1975, il problema degli espropri viene dibattuto e analizzato dalle Brigate Rosse, che operano una svolta, decidendo di rivendicarli, fatto mai verificatosi in precedenza.

Una circolare interna del 1975 spiega con chiarezza i termini della questione:

“[...] L’esproprio non deve essere affrontato semplicemente per necessità contingenti di autofinanziamento, ma va considerato come uno degli aspetti fondamentali della lotta per la costruzione del potere proletario e come una delle vie obbligate per la quale deve passare la crescita del movimento rivoluzionario. Sino a ora, per valutazione di carattere tattico, si è preferito rinunciare a fare delle azioni di esproprio oggetto di propaganda armata a livello di massa per evitare, per quanto possibile, di fornire al potere il destro per una repressione e un attacco politico che, date le nostre attuali condizioni di debolezza, ci sarebbe stato difficile parare. Ora, valutando anche che comunque sarà il potere quanto prima a prendere l’iniziativa su questo terreno (tentando di criminalizzare il movimento faranno a gara a dipingerci come una banda di rapinatori), è necessario rivalutare la situazione. […] Per avere una posizione dialettica che abbia forza nel movimento, è necessaria

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un’azione di esproprio avente dei connotati organizzativi inequivocabili politicamente, e tali da costituire un punto di riferimento a livello generale. […]”172

Il problema è, effettivamente, delicato, per le ambiguità politiche che può generare e che, difatti, saranno tra le cause della disgregazione di un gruppo come Prima Linea, ma nell’ambito delle Br è una difficoltà che viene sempre meno avvertita col passare del tempo: i brigatisti più giovani, arruolati nella seconda metà del decennio dimostrano una maggiore disinvoltura con questo tipo di azioni, anche perché le contaminazioni con la criminalità comune sono diventate più frequenti e accettate all’interno dell’organizzazione, soprattutto, come vedremo, per la colonna napoletana, che diverrà protagonista all’inizio del nuovo decennio. In ogni caso la colonna genovese, nel caso della rapina in questione, riesce a gestire con grande efficacia politica il problema, trasformando l’operazione di autofinanziamento in un’azione contro il sistema sanitario e la categoria dei cosiddetti baroni della medicina, di sicuro effetto sull’opinione pubblica. Leggiamo nella rivendicazione:

“Mercoledì 8 ottobre un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la filiale della Cassa di risparmio di Genova e Imperia, situata nell’ospedale San Martino di Genova. Nel corso dell’azione sono stati espropriati centodiciotto milioni di lire destinati gli stipendi dei medici dell’ospedale. Il sistema sanitario nella nostra società capitalista è un anello essenziale dello sfruttamento del proletariato. Infatti, il sistema dei padroni, dopo aver creato la maggior parte delle malattie attuali, non ha alcun interesse a curare decentemente un lavoratore ammalato; preferisce cinicamente sostituirlo con uno nuovo di zecca: produce certamente di più. Inoltre, l’organizzazione serve egregiamente ad incrementare i guadagni dei padroni dell’industria farmaceutica che produce in continuazione medicinali il più delle volte inutili e spesso dannosi. [...] L’esproprio degli stipendi, esclusivamente quelli dei medici, costituisce una tassazione che le forze rivoluzionarie impongono a questa casta di baroni reazionari che costruiscono la loro ricchezza e i loro privilegi speculando cinicamente sulla pelle dei lavoratori”173.

Il riferimento alla malasanità, alle ingiustizie di classe, agli onorari da capogiro degli specialisti insigni, alle disparità di trattamento dei pazienti, al cinismo e allo scarso impegno della classe medica sono argomenti di sicura efficacia. Al di là dell’attacco personale, più o meno mirato, la combinazione di propaganda demagogica e sollevamento di un problema per molti aspetti reale va a segno: infatti, insieme alle indignate proteste di medici e autorità, sono molte le voci di consenso, rispetto alle dichiarazioni contenute nel comunicato, non rispetto all’azione in sé, che, in qualche modo, passa in secondo piano. Le azioni minori, come i roghi delle auto, avvenuti nell’ambito dell’ospedale San

172Citato in Soccorso Rosso, Brigate rosse, op. cit., pp. 125-126.

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Martino, dove operavano diversi irregolari, susciterà sempre la simpatia, più o meno velata, di larghi settori dell’opinione pubblica.

Il medico viene dipinto come un vero nemico della classe operaia, facendo particolare riferimento a varie figure professionali, quali il medico della mutua, il medico di fabbrica, il medico legale e l’ostetrico, familiari al mondo a cui ci si rivolge. A questo punto, si passa ad attaccare, in particolare, sei medici in servizio presso l’ospedale rapinato: il Sovrintendente Sanitario, il Direttore Sanitario, un celebre oncologo, il primario di Pneumologia, il primario di Ematologia e il Responsabile di Pronto Soccorso174.

Questa azione si inserisce, quindi, in una strategia simile a quella delle prime Brigate Rosse, tesa a stimolare il consenso e farsi portavoce di esigenze sentite dalla popolazione; sebbene le Br siano già entrate nella fase dell’attacco al cuore dello Stato, la neonata colonna sembra seguire una strada autonoma in questo primo periodo, prendendo con cautela contatto con il territorio, attraverso azioni che sono in qualche modo legate alle diverse realtà cittadine, oltre che alle esigenze dell’organizzazione.

Due settimane dopo la rapina si verifica la seconda impresa importante della colonna genovese: il 22 ottobre viene sequestrato per cinque ore Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo meccanico nucleare. Il dirigente industriale è uscito col figlio, mentre cinque brigatisti lo aspettano sotto casa sua, ad Arenzano, quando sopraggiunge, intorno alle venti, quattro di loro lo aggrediscono, colpendolo con un violento pugno in faccia, mentre il quinto, armato, li copre. Dopo averlo incappucciato, lo caricano su un furgone, che parte velocemente, seguito da una Fiat 500 con a bordo un sesto uomo; Casabona viene fatto scendere a Recco, qui è legato a un albero con catene e manette e sottoposto a un interrogatorio, con domande precise sul suo lavoro e i suoi superiori. I brigatisti abbandonano il dirigente dell’Ansaldo ancora legato, dopo averlo picchiato e rapato a zero; poco dopo la mezzanotte telefonano alla redazione de «Il Secolo XIX»: “Brigate Rosse...il dirigente dell’Ansaldo rapito stasera è stato rilasciato nell’immondezzaio di Recco. Ha capito? Recco. Procuri che lo vadano a prendere.”175

Il Consiglio di Fabbrica dell’Ansaldo, dopo un’assemblea, diffonde un comunicato di esecrazione e condanne dell’attentato e di solidarietà al dirigente e alla sua famiglia; tra l’altro, nel documento si legge che, quantunque l’azione sarebbe stata condannata dal Consiglio di Fabbrica anche se avesse colpito un dirigente inviso agli operai, si vuole precisare che Casabona non è affatto un fascista e che i suoi rapporti con gli operai sono sempre stati democratici, aperti e corretti; infine, si iscrive il sequestro nell’ambito della strategia della tensione, secondo il consueto schema della sinistra

174ibidem

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ufficiale. Comunicati stampa dei Consigli di Fabbrica dell’Ansaldo di Campi e di Sestri Ponente, dei Cantieri Navali Riuniti, del PCI, delle federazioni provinciali di Cgil, Cisl e Uil, del Sindacato ligure dei dirigenti industriali parimenti stigmatizzano l’accaduto.

Lo stesso Vincenzo Casabona, infine, risponde alle accuse mossegli dai brigatisti, respingendole con sdegno e accusando i suoi stessi carnefici di fascismo, considerando la violenza intimidatoria dei loro metodi. Casabona è, infatti, accusato, nel volantino di rivendicazione, di essere un fascista, l’organizzatore di una rete di spionaggio all’interno dei reparti con il compito di schedare gli operai “rossi” e di creare un clima terroristico per soffocare le lotte. Da ultimo, le Br annunciano che l’interrogatorio è stato soddisfacente: “[…] Su questi argomenti è stato interrogato ed ha svelato e confermato nomi e fatti che non mancheremo di prendere in considerazione. Successivamente è stata rapato, come si addice ad un fascista del suo pari, e quindi rilasciato nell’immondezzaio di Recco […]”176

Le accuse rivolte a Casbona sono molto simili a quelle rivolte a Ettore Amerio, all’epoca del suo rapimento. I due dirigenti avevano lo stesso incarico, l’uno all’Ansaldo e l’altro alla Fiat e all’epoca del primo sequestro vennero diffusi nella fabbrica genovese volantini che contenevano la minaccia: “Oggi ad Amerio, domani a Casabona”. Le due figure presentano forti analogie nei ritratti dipinti dalle Brigate Rosse, le accuse loro mosse sono identiche: questa operazione si inserisce, dunque, nella lotta interna alle fabbriche che l’organizzazione aveva ingaggiato nei primi anni di attività, ma che continuerà a svolgersi durante tutti gli anni Settanta, anche se in qualche maniera oscurata dal più spettacolare “attacco al cuore dello Stato”.

Nei mesi successivi la colonna genovese non commette azioni eclatanti, limitando la sua attività al volantinaggio e agli attentati incendiari, ma nel giugno del 1976 le Br tornano drammaticamente alla ribalta, prima con la strage di Salita Santa Brigida e il 28 giugno del 1976 con l’assalto, in viale Sauli, nel centro di Genova, la sede dell’Intersind, l’associazione delle aziende dello stato per le vertenze sindacali.

Intorno alle quattordici e mezza due uomini a volto scoperto suonano alla porta della sede, un dipendente apre e fanno irruzione i due seguiti da altri due uomini e una donna, tutti mascherati. Tutti i membri del commando sono armati e costringono i tre dipendenti presenti a entrare in stanze di disbrigo, dove vengono legati. Dopodiché, i brigatisti iniziano a esplorare l’ufficio, sottraendo documenti che ritengono interessanti; altre cinque persone, sopraggiunte nel frattempo, vengono imprigionate a loro volta insieme agli altri, tra questi il direttore dell’Intersind che viene privato anche dei documenti personali. L’azione dura circa un quarto d’ora, da ultimo i brigatisti tracciano sui muri la stella a cinque punte e varie scritte: ” Lotta armata per il comunismo”, “BR, portare l’attacco alle

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organizzazioni del potere padronale”, “Attaccare e distruggere i covi della Confindustria e dell’Interisnd”. Il giorno dopo un comunicato delle BR rivendica l’azione.

All’attacco all’Intersind partecipano sicuramente Rocco Micaletto, Riccardo Dura e Fulvia Miglietta; gli ultimi due sono anche gli autori dell’inchiesta preparatoria. Sull’identità degli altri due brigatisti, invece, non c’è certezza definitiva a causa delle contraddizioni tra le dichiarazioni dei pentiti177. L’assalto all’Intersind è l’unica azione di rilievo, anche se piuttosto modesta, che le BR genovesi compiono nel 1976, continuando a privilegiare azioni dimostrative di lieve entità come gli incendi di automobili. In realtà, questo è l’anno di un fatto clamoroso per Genova e per tutto il paese: il primo omicidio politico pianificato della storia italiana della lotta armata. Ma questa azione, come abbiamo già visto, è interamente gestita dalla direzione nazionale, limitandosi la colonna cittadina a fornire il supporto logistico.

Anche la prima azione importante che ha luogo a Genova nel 1977 è frutto dell’iniziativa dei dirigenti nazionali, ma in questo caso l’apporto dell’organizzazione locale è stato più significativo, non solo, infatti, i militanti genovesi forniscono supporti logistici fondamentali, ma svolgono anche l’inchiesta preparatoria per un’importante impresa di autofinanziamento: il rapimento a scopo di estorsione di Piero Costa. I Costa sono la più importante famiglia di armatori della città, il cui patriarca, Angelo è stato anche presidente di Confindustria; ma negli anni Settanta la loro azienda è in grossa crisi, crisi che coinvolge in questo periodo parecchi rami dell’industria cittadina. Inoltre dall’estate del 1976 l’azienda dei Costa era interessata da aspri contrasti sindacali in seguito a progetti di disarmo o di cessione della flotta per ovviare alla crisi.

Il 13 gennaio, intorno alle diciannove e mezza, Piero Costa, ingegnere di quarantadue anni, viene aggredito sotto casa da sei uomini armati, picchiato duramente (riporterà tra l’altro la frattura di una costola) e caricato a bordo di una 132 Fiat. I rapitori chiamano la famiglia chiedendo il riscatto, ma non è diramato nessun comunicato dalle Brigate Rosse: come sempre, nelle azioni di autofinanziamento, il momento della rivendicazione è gestito prudentemente e quasi con imbarazzo. La prigione dell’ostaggio ricorda quella del giudice Sossi, un cubo di legno e polistirolo costruito all’interno di una stanza di un appartamento, i suoi carcerieri sono Calogero Diana, Fulvia Miglietta e Riccardo Dura, quindi un forestiero e due dirigenti della colonna genovese. Dopo lunghe e difficili trattative, il 26 marzo la famiglia si reca a Roma, per pagare il riscatto di un miliardo e mezzo di lire, l’operazione non è intralciata dagli inquirenti e si svolge senza contrattempi. Il 4 aprile, dopo ottantun giorni, l’ostaggio viene liberato. Cinque volantini firmati dalle Brigate Rosse, uno trovato nelle tasche

177 Questi primi atti della colonna Genovese sono ricostruiti in TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 10.12.81

contro Arnaldi e Sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Genova del 25.11.82 contro Arnaldi e altri; altre notizie sono reperibili sulla stampa cittadina dell’epoca.

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dell’ostaggio, gli altri posti in due cabine telefoniche, rivendicano il rapimento. Sono le stesse BR a telefonare al Palazzo dei Giornali per informare sul luogo del rilascio. I soldi del riscatto, il più ricco patrimonio che le Br siano riuscite a estorcere fino al sequestro di Cirillo, verranno in parte divisi tra le varie colonne e in parte serviranno a finanziare l’operazione Moro.

Circa due mesi dopo il rilascio dell’ingegner Costa, la colonna genovese mette a segno il suo primo ferimento, entrando così in una nuova fase della sua storia. Il primo periodo di organizzazione e di azioni modeste è terminato e da questo momento la colonna entra nella sua piena maturità, inserendosi nelle campagne nazionali con azioni frequenti e riuscite e facendo di Genova un polo fondamentale dell’organizzazione178.

4.5. I ferimenti

Il 24 febbraio 1982, davanti alla Corte d’Assise di Genova, si celebra il processo di primo grado contro i brigatisti imputati della lunga serie di ferimenti che ebbe in luogo in città; Fulvia Miglietta, in una testimonianza resa durante il dibattimento, parla diffusamente delle operazioni di ferimento: “Nell’estate del 1977 dal centro giunse l’indicazione di sviluppare le nostre conoscenze sulla Democrazia Cristiana del polo genovese, sulle comunicazioni e sulle fabbriche. Si trattava di un approfondimento di conoscenza per giungere poi alla campagna. Dopo un periodo di analisi e