7. La colonna e la città 1.Il mito della Resistenza
1.2. Una regione bianca?
La definizione del Veneto come “regione bianca” fa riferimento all’indubbia importanza che, dal punto di vista culturale, sociale e politico, il mondo cattolico riveste in questo territorio: dalla diffusione di istituzioni e realtà associative afferenti a quest’area, all’ininterrotta serie di vittorie elettorali della Dc lungo tutto il periodo della cosiddetta prima Repubblica alla forte influenza della Chiesa su mentalità, stili di vita e modelli culturali.
Tuttavia, con uno sguardo più ravvicinato alla realtà della regione, questa definizione perde un poco della sua pregnanza, poiché alcuni fattori la contraddicono: la disomogeneità tra i diversi territori, la presenza, in alcune aree, di una robusta corrente neofascista e l’emergere nei tardi anni Sessanta, soprattutto a Padova, di un movimento di estrema sinistra particolarmente agguerrito.
Come si è in parte già visto, la zona bianca corrisponde alla fascia mediana della regione,
caratterizzata dalla diffusione della piccola proprietà e del lavoro autonomo; qui si avverte con forza il ruolo della Chiesa cattolica che permea la vita associata, lavorativa e politica dei cittadini con un’organizzazione capillare sul territorio. Viceversa, nel capoluogo laico e operaio, nelle zone industriali e nella Bassa padovana, dove è estesa la popolazione bracciantile, sono i partiti e le organizzazioni della sinistra a prevalere. Questa bipartizione territoriale tra aree rosse e bianche è
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un elemento di lungo periodo nella storia della regione: anche nel biennio rosso i socialisti erano maggioranza nelle zone del bracciantato e delle fabbriche, mentre nelle campagne del medio Veneto prevalevano le forze cattoliche moderate.
Come ha notato Ilvo Diamanti, il successo elettorale della Dc, che comincia con l’inizio della guerra fredda, si correla a due motivazioni: la predilezione dell’elettorato per i partiti moderati (ne è prova il fatto che, in controtendenza con il dato nazionale, il Psi ottiene risultati migliori del Pci) e, una logica di appartenenza identitaria per cui “la Dc perciò ottiene consensi anche in quanto garante del sistema locale, del complesso di relazioni, strutture e valori sul quale si regge”291.
Riguardo al primo aspetto non può non colpire l’apparente contraddizione per cui un particolare moderatismo nel voto ai partiti istituzionali, si accompagna a un’eruzione dell’estremismo eversivo sia di destra sia di sinistra a partire dalla fine dei Sessanta, rendendo questa regione uno dei poli più caldi della stagione della violenza politica.
Ma prima di occuparci di questo aspetto, sarà opportuno vedere in che modo e con quali esiti la stagione della contestazione antiautoritaria impatterà con questo territorio in cui a lungo avevano dominato stili di vita tradizionali, caratterizzati dal rispetto delle gerarchie e del magistero cattolico. Negli anni che precedono l’esplosione del Sessantotto, anche il Veneto viene investito dai fermenti culturali che si accompagnano alle trasformazioni economiche e sociali; in particolare Padova, sede universitaria di prestigio, diviene un centro di elaborazione culturale e politica, in particolare dell’elaborazione operaista. Se negli anni sessanta, quando l’operaismo era declinato solo in linea teorica, attraverso lo studio e la pubblicazione di riviste, la sua capitale italiana era Torino, città natale di Panzieri e sede della Fiat in cui nasce «Quaderni rossi», con il 1969, la comparsa di Potere operaio e l’attività di uno dei suoi leader, il padovano Toni Negri, sarà il Veneto a diventare la principale fucina dell’operaismo. “Fra i dirigenti, Negri e Piperno erano i capi riconosciuti e indiscussi dell’intera organizzazione nazionale di Potere Operaio, rispetto alla quale la cellula veneta e in particolare padovana aveva allora una evidente posizione di preminenza, essendo la più forte e articolata sia nelle fabbriche, sia nelle scuole (principalmente nell’Università). Sicchè a Padova si svolgevano di regola le riunioni più importanti con l’intervento di dirigenti e di avanguardie di tutta la rete nazionale292.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, la vivacità culturale del contesto veneto è testimoniata anche dalla nascita di nuove importanti riviste. Nel 1958 esce il primo numero di «Questitalia», periodico cattolico di politica e di cultura diretto da Wladimiro Dorigo e pubblicato a
291 I. Diamanti, Elezioni e partiti nel secondo dopoguerra, in C. Fumian, A. Ventura, Storia del Veneto, op. cit., pp.
193-208, p. 198.
292 TPPd, Procedimento 10735/92, Fasc. Fioroni e Borromeo, Deposizione di Antonio Romito resa al PG Pietro
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Venezia, ma con redazioni anche a Roma e Milano; nel 1964 la nascita di «Classe operaia» segna il distacco di Tronti e Negri dall’operaismo nell’accezione di Panzieri e dei Quaderni rossi: ad analisi storiche di momenti significativi per la storia del movimento operaio e ad approfondimenti di temi culturali sempre letti in prospettiva politica, si accompagnano articoli militanti che pongono grande enfasi sulle lotte operaie, sull’unità della classe e sugli attacchi alla socialdemocrazie e al
riformismo, infine nel 1968 compare «Contropiano», diretta da Cacciari e Asor Rosa, che conta tra i redattori Bevilacqua, Negri, Tronti, Franchi e tratta temi culturali assai vari (cinema, architettura, economia, storia, scienze politiche, eccetera) e avviene la metamorfosi da prestigioso foglio universitario a organo del Movimento studentesco. Dal 1935 si occupava di problemi di vita universitaria, cultura e politica e progressivamente negli anni aveva assunto una connotazione più politica (nel 1966 era uscito un numero in cui si trattava di persecuzione degli ebrei); nel gennaio del 1968 usciva un numero interamente dedicato alle prime lotte del Movimento studentesco a Padova tra il dicembre del 1967 e il gennaio del 1968, con pubblicazione dei comunicati delle varie facoltà occupate, resoconti delle lotte e piena adesione alle ragioni degli studenti in rivolta: dal 1969 cambia anche veste grafica e si occupa esclusivamente di questioni relative al movimento
studentesco mondiale e alle sue lotte.
Con il Sessantotto anche in Veneto avviene l’incontro tra studenti e operai, attraverso la mobilitazione dei primi in appoggio alle lotte dei secondi, l’ingresso degli universitari nelle
fabbriche per studiarne i diversi aspetti (dalla produzione all’organizzazione sindacale alla nocività) e la presenza di giovani di tutte le scuole davanti ai cancelli.
Cuore della contestazione studentesca e delle agitazioni degli anni successivi sarà l’Università di Padova; come non pensare all’antica tradizione goliardica dell’Ateneo patavino che si intreccia in vari momenti della storia con istanze e rivendicazioni politiche antagoniste rispetto all’ordine costituito che affonda le sue radici nei tumulti risorgimentali dell’8 febbraio del 1948? Anche in epoca fascista, in un clima di pressoché incontrastata adesione ai dettami del regime, questa tradizione non viene meno, informandosi però di contenuti cari al regime; come ha ricordato Isnenghi, “non sempre la campana suona per esplicita e formale autorizzazione, il più delle volte l’iniziativa studentesca si muove all’interno di quell’area di legittimità ideologica non dichiarata, ma reale che appare storicamente connaturata all’università dell’8 febbraio: atti rivendicativi
studenteschi tra il corporativo e il sindacale; riti funebri legati alla guerra, nazionalistici e patriottici, martirologio funerario squadrista e fascista”293. E tuttavia, sebbene l’antifascismo sia debole, in alcuni casi ad esso approdano giovani che avevano aderito al fascismo spinti da ideali di giustizia e
293 M. Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia di Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, Einaudi, Torino, 1984,
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rinnovamento sociale, e che erano rimasti delusi, ne è un esempio eclatante «Il Bo» che divenne un incubatore di futuri oppositori come Ettore Luccini e Eugenio Curiel294. Ma è con la resistenza che la vocazione dell’ateneo a farsi soggetto protagonista dei conflitti sociali e politici si dispiega nel modo più evidente: con i suoi 107 studenti caduti tra le fila del movimento partigiano, l’Università di Padova è stata insignita della Medaglia d’oro al valor militare per il contributo dato alla lotta di liberazione. Nel 1943 a Padova viene istituito il centro coordinamento del Cln regionale nel rettorato di Concetto Marchesi che il 9 novembre durante l’inaugurazione dell’anno accademico pronuncia un discorso antifascista davanti alle autorità tedesche e italiane. Il rettore deve poi fuggire in Svizzera, ma prima lancia un appello alla resistenza agli studenti. L’ateneo padovano è quindi uno dei maggiori centri propulsori della resistenza veneta295. Nel secondo biennio rosso l’università di Padova torna a essere la grande protagonista di una stagione di lotte e di rivolte, anche in
conseguenza del momento particolare vissuto dall’istituzione accademica, di ridefinizione della propria identità, del proprio ruolo e, più concretamente, di adeguamento delle proprie strutture di fronte ai grandi cambiamenti che la coinvolgono. Con la liberalizzazione degli accessi
all’università, infatti, l’ateneo di Padova aveva visto crescere in maniera tumultuosa il numero dei propri iscritti che nell’arco di un decennio si era più che quadruplicato, passando dagli 11.356 dell’anno accademico 1961-62 ai 46.761 del 1972-73296; questo aumento così improvviso e notevole, non gestito in modo adeguato, ha comportato il moltiplicarsi dei disservizi dovuti al cedimento delle strutture di ricezione, con l’immediata conseguenza del venir mento di quelle agevolazioni economiche indispensabili per gli studenti meno facoltosi, dalle mense ai posti letto negli studentati all’erogazione delle borse di studio. A questa situazione critica, si somma la
reazione in gran parte negativa della cittadinanza che, se da un lato, comprensibilmente, guarda con apprensione a questa moltiplicazione di una popolazione studentesca, tradizionalmente percepita come estranea al tessuto cittadino e piuttosto turbolenta e destabilizzante; dall’altro, in alcune sue componenti, tenta di lucrare sulla disorganizzazione aumentando i prezzi di quei servizi che, venendo meno l’offerta pubblica, una parte di studenti fuori sede è costretta a procurarsi privatamente. Per tutti gli anni Settanta, l’Ateneo padovano sarà anche uno dei centri
dell’estremismo politico sia di destra, sia di sinistra, con facoltà, dipartimenti, studentati e altri spazi completamente egemonizzati da una o dall’altra di queste fazioni e teatro di episodi di violenza capillare e continua e, talvolta, anche molto gravi; per quanto riguarda Scienze politiche, come ebbe a dire Piero Del Negro, nel suo studio sull’ateneo patavino, il gruppo di Potere operaio ambiva a
294 M. Borghi, Fascismo, antifascismo, resistenza, in C. Fumian, A. Ventura (a cura di), Storia del Veneto, vol. 2, pp.
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295 Idem.
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“restituire alla facoltà quel ruolo politico che aveva avuto alle origini, ma questa volta in chiave eversiva”297.
Ma la storia della contestazione studentesca a Padova inizia però molto prima e con un segno molto diverso. Dalla metà degli anni Sessanta si registrano mobilitazioni contro riforme ritenute
inadeguate e a favore di una concezione democratica del diritto allo studio, condotte con estrema correttezza e civiltà, tanto che in un articolo significativamente intitolato Il Veneto bianco e pacifico non darà dispiaceri alla Dc, il giornalista Gigi Ghirotti interpretò la particolare mitezza degli studenti padovani come un segno di scarsa determinazione e di quel profilo culturale e, verrebbe da dire, quasi antropologica che viene generalmente indicato come tipicamente veneto, caratterizzato da moderatismo e valori cattolici: “Nelle settimane scorse gli studenti di Padova occuparono alcune facoltà. Ma, sloggiati, si preoccuparono di spazzare in terra prima di lasciare le aule. Non ruppero né un calamaio, né un vetro: maoisti che vanno a Messa, rivoluzionari che conservano il rispetto per le regole della buona creanza”298.
Questo rispetto per la buona creanza, in ogni caso, sembra un ricordo lontano un paio d’anni dopo a giudicare dalle parole che si possono leggere su un documento di bilancio della lotta nelle scuole redatto da Lotta continua in cui si rivendicano forme di lotta intimidatorie e obiettivi difficilmente ascrivibili ad una volontà di riforma democratica dell’istituzione scolastica o a velleità
rivoluzionarie: “Le forme di lotta che proponiamo vanno dal rifiuto collettivo di compiti e
interrogazioni punitive all’uscita in massa dalle aule alla minaccia diretta. Ma soprattutto quella che si rivela più efficace è lo sputtanamento feroce dei professori aguzzini su volantini e cartelli.
All’inizio la reazione dei professori è isterica, poi si ammorbidisce e improvvisamente le interrogazioni diventano facili e si può prendere un buon voto senza aprire bocca”299.
Sarebbe ingeneroso e scorretto ridurre il Movimento studentesco al contenuto di questo infelice documento che è però interessante nella misura in cui testimonia il cambiamento repentino del clima politico e sociale che si respira nella regione, in cui il tradizionale moderatismo sembra essere incrinato da venti di radicalismo e di violenta aggressività. Dalle interessanti testimonianze di ex studenti padovani raccolte da Paola Caldognetto emerge tutta la complessità del fenomeno della contestazione sessantottina e la dirompente portata dei suoi esiti, soprattutto sul piano esistenziale, culturale, della mentalità; è su questo piano che si vedono maturare cambiamenti radicali, svolte impreviste, nuovi cammini, a volte quasi non percepiti dagli stessi protagonisti, a fronte di un
297 P. Del Negro (a cura di), L’Università di Padova. Otto secoli di storia, Signum Padova Editrice, Padova, 2001,
p.176.
298G. Ghirotti, Il Veneto bianco e pacifico non darà dispiaceri alla Dc, in «La Stampa», 27.03.1968
299 Fondazione Feltrinelli, Fondo Nuova sinistra, b. 21-7, Lotta Continua, dal Veneto, Lotte nella scuola, Venezia, Porto
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sostanziale fallimento del progetto politico collettivo, avvertito, quello sì, da tutti gli attori sulla scena. Così, per esempio, studenti e studentesse provenienti da famiglie proletarie, in precarie situazioni economiche, determinati a conseguire la laurea necessaria a trovare un impiego dignitoso, liquidano l’esperienza sessantottina come “una questione interna alla borghesia”, un lusso che potevano permettersi i ricchi che non dipendevano dalle borse di studio o stigmatizzano la proposta di istanze ingiuste come il voto politico egualitario, per poi raccontare brevemente gli effetti per nulla trascurabili che questo passaggio ha avuto sulle proprie vite: il conseguimento di una seconda laurea per “capire meglio il mondo”, l’acquisizione della capacità di parlare in pubblico e
l’emancipazione da una morbosa timidezza contadina, la comprensione dell’importanza di una coscienza civile, della cittadinanza attiva300.
Nel corso del 1968 si susseguono le occupazioni delle sedi delle facoltà patavine tra cui i prestigiosi palazzi Dal Bo e Liviano; mentre il rettore sceglie la strada della repressione chiedendo l’intervento delle forze dell’ordine che procedono a sgombri coatti, molti docenti si mobilitano a fianco degli studenti, condividendo le loro istanze di democratizzazione dell’istituto universitario, in particolare i docenti subalterni che avanzavano proprie rivendicazioni di categoria301. Oltre alle università, sono coinvolte dall’ondata contestataria anche le scuole superiori che saranno anche uno dei principali luoghi di radicamento dell’Autonomia operaia che in questo modo, secondo Baravelli, realizzava il doppio obiettivo di “occupare” porzioni di territorio e di assicurarsi un folto bacino di reclutamento per l’organizzazione delle manifestazioni e degli scontri di piazza302.
Nella primavera del 1968 anche sul fronte del movimento operaio si avvertivano i primi fermenti, ma la scintilla non scoppia in quella che sarebbe diventata la zona calda delle lotte operaie, ovvero l’area industriale di Porto Marghera, bensì nel cuore del Veneto bianco e profondo e nel luogo simbolo di un modello paternalista vincente. Il 19 aprile, a Valdagno, un gruppo di operai del lanificio Marzotto in sciopero si scontra con le forze dell’ordine: i disordini culminano
nell’abbattimento della statua del conte Marzotto e nell’assalto alle ville dei dirigenti e terminano con l’arresto di 47 lavoratori. La rivolta spontanea e violenta esplode inopinatamente proprio nell’azienda modello del paternalismo virtuoso producendo un notevole impatto simbolico, in particolare l’immagine iconoclasta degli operai che abbattono la statua di una figura emblematica come quella del fondatore della Marzotto assurge a simbolo del nuovo vento che sta soffiando, sia per chi lo percepisce come un’onda di innovazione e di antiautoritarismo, sia per chi lo teme come
300 P. Caldognetto, La nascita del movimento studentesco a Padova tra cronaca e testimonianze orali, in «Venetica» n.
24/2011, pp. 97-126, pp. 21 e sg.
301 P. Caldognetto, La nascita del movimento studentesco a Padova tra cronaca e testimonianze orali, in «Venetica» n.
24/2011, pp. 97-126.
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un ciclone devastatore. La sommossa operaia era stata scatenata dalla serrata decisa dall’azienda nel corso di una difficile contrattazione; un mese dopo, la Marzotto firma un’intesa con Cisl e Uil in cui vengono riconosciuti i delegati dei sindacati, ma la Cgil respinge l’accordo e propone la
continuazione delle lotte che portano all’occupazione degli stabilimenti. È il primo segnale del fatto che il Veneto sta lasciandosi alle spalle il tradizionale immobilismo, avanzando nuove domande di partecipazione politica e inedite istanze di potere nel mondo della fabbrica; le lotte del secondo biennio rosso portano alla luce le contraddizioni del Veneto contemporaneo, del suo sviluppo tumultuoso e diseguale: sindacati, preti operai e gruppi della sinistra extraparlamentare denunciano le condizioni di vita dei quartieri proletari e delle fabbriche, il costo eccessivo degli affitti per gli studenti fuori sede e la carenza di strutture universitarie per ospitarli, la nocività e l’inquinamento provocato dall’industrializzazione; la piaga del lavoro sommerso e così via. Silvio Lanaro ha ben descritto le cause e le caratteristiche dell’emergere dell’antagonismo operaio in Veneto: “Nei punti di più elevata concentrazione, la quarta leva di operai-contadini … si trova schiacciata per la prima volta dagli automatismo della fabbrica post-tayloristica, con gli alti tassi di nocività, la dittatura del cronometro, il cumulo delle mansioni, l’aumento inesorabile della dotazione di macchinario, l’aggancio sempre più stretto del salario alla produttività attraverso il cottimo e i “premi”. Difeso alla meglio da un sindacato che stipula solo contratti di categoria o si arrocca nelle sue guarnigioni – le Camere del lavoro – il nuovo proletariato industriale scopre allora il proprio antagonismo, in forma di irriducibile estraneità a tecniche inedite di disciplina, prima ancora che di avversione al modo di produzione capitalistico come tale: ha inizio l’epoca delle agitazioni a sorpresa, degli scioperi spontanei, degli autunni roventi”303.
Quando l’onda contestataria comincia a ritirarsi, sono i gruppi extraparlamentari, che in qualche modo ne raccolgono l’eredità, a mantenere il collegamento tra la mobilitazione studentesca e le rivendicazioni operaie; tra questi è Lotta continua a raggruppare il maggior numero di militanti. A Padova può contare su circa 200 aderenti nel 1973; è favorevole ad una sorta di confederazione dei gruppi extraparlamentari per aumentare la forza della proposta radicale grazie all’unità dei soggetti, ma Potere operaio si oppone304. A Porto Marghera la presenza di questo gruppo si fa
particolarmente sentire, nelle agitazioni alla fabbrica tessile Chatillon, in cui alle rivendicazioni salariali, alle richieste di parificazione normativa tra operi e studenti e alla denuncia della nocività si combinano gli attacchi al sindacato e che possono contare sull’appoggio degli studenti delle scuole superiori veneziane; nelle lotte alle industrie ottiche Galileo contro le discriminazione delle
303 S. Lanaro, Geneaologia di un modello, in S. Lanaro (a cura di), Storia di Italia, op. cit., p. 93
304ACS, MI, Gabinetto, Movimenti e partiti politici, 1971-75-b.25, Comunicazioni del Prefetto di Padova al Ministero
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lavoratrici, lo sfruttamento degli apprendisti e in generale contro tutte le forme di differenziazione tra i lavoratori, ancora una volta in contrapposizione alla linea del sindacato. Ma l’impegno di Lc, qui come altrove, oltrepassa anche i cancelli delle fabbriche e si estende al mondo della scuola, ai problemi della pendolarità, del lavoro artigiano e a domicilio, alle questioni di vita quotidiana nei quartieri di Ca’ Emiliani, Catene, Ghirignago, Ca Roma, Bissuola, Zelarino, S. Marco, Macallèe in piccoli centri come Spiena, Mirano, Salzano, Noale, Martellago, Scorzè, Mogliano Veneto, Favare, Mira, dove risiedono operai e proletari 305.
Avanguardia operaia ha una consistenza molto più modesta, ad esempio a Padova conta appena una quindicina di aderenti nel 1974306, ma a Venezia e a Verona dimostra una certa vitalità: si inserisce nelle problematiche del lavoro, occupandosi di sicurezza e nocività, di forme e organizzazione delle lotte, di vertenze su cottimo, licenziamenti e salari e ottenendo un particolare seguito tra i Comitati unitari di base di ferrovieri, trasportatori, spedizionieri e metalmeccanici. A giudicare dai documenti di propaganda e di lotta prodotti, la sezione veneziana si dedica soprattutto al mondo del lavoro, inserendosi oltre che nelle realtà già citate, tra i lavoratori del porto, della grande distribuzione, delle vetrerie di Murano, mentre quella di Verona si occupa anche di antifascismo, problematiche dei quartieri proletari, questione femminile. Entrambe sono molto attive su fronte delle scuole, nelle