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4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna

4.6. Il primo omicidio

È il giugno del 1978, il caso Moro ha già trovato la sua tragica conclusione e le Brigate Rosse stanno vivendo il loro periodo di massima celebrità. L’acuirsi della violenza, che viene presentato dalle Brigate Rosse come l’inizio dell’attacco finale e frontale alla società capitalista, porta a un aumento consistente di omicidi e ferimenti su tutto il territorio nazionale e la scelta degli obiettivi appare sempre più arbitraria.

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A Genova, la colonna locale è come sempre concentrata sulla realtà industriale, forse ancor più degli altri anni; infatti, vengono bruciate diverse auto di uomini legati alle fabbriche cittadine e vengono invalidati tre dirigenti industriali e un professore impegnato nella ristrutturazione. Sempre nel 1978 la colonna genovese realizza il suo primo omicidio, fatta salva la strage di via Balbi a cui collaborò, ma che non si può considerare, come abbiamo visto, un’azione locale.

La vittima è il dottor Antonio Esposito, trentacinque anni, sposato e padre di due bambini, per anni numero uno dell’Antiterrorismo genovese, aveva indagato dal suo posto strategico nel SDS su tutti gli episodi di terrorismo e guerriglia urbana verificatisi in città, inoltre, in collaborazione con colleghi di altre parti di Italia, aveva investigato il fenomeno delle Brigate Rosse in generale e doveva aver scoperto molte cose, come dimostrano certe sue osservazioni (ad esempio la sua certezza che esistesse una base fondamentale delle Br nel quartiere di Oregina, cosa che nessun altro aveva intuito e che verrà scoperta solo dietro la segnalazione di Peci) e il rapporto riservato che aveva stilato insieme col suo collega Giorgio Criscuolo,191 capo dei Servizi di sicurezza di Torino nel dicembre del 1977: insieme avevano ricostruito un organigramma dell’organizzazione molto simile a quello reale: otto o nove colonne raggruppate in fronti e distinte in cellule, queste ultime potrebbero corrispondere alle brigate. Inoltre descrivevano il sistema di reclutamento, quello per rifornirsi di armi e di mezzi operativi come automobili e basi e indicavano persino lo stipendio percepito dai brigatisti.

Nonostante i successi riportati nell’acquisizione di informazioni sulle Brigate Rosse, Esposito non viene reintegrato nei servizi ristrutturati: dopo l’unificazione di antiterrorismo, servizi di sicurezza e ufficio politico nella Digos, viene assegnato alla direzione del commissariato di Nervi, un tranquillo quartiere periferico. Le Brigate Rosse interpretano questo trasferimento come un camuffamento per nascondere una missione ben più importante nell’ambito dei nuovi servizi segreti affidati al generale dei carabinieri Guido Grassini. Non si è mai potuto verificare se questa ipotesi delle BR avesse o meno un fondamento; il fatto che un esperto di Antiterrorismo venga estromesso dai servizi proprio nel periodo del sequestro Moro appare, in effetti, piuttosto strano, ma non ci sono elementi concreti che confortino la supposizione avanzata dai brigatisti.

L’agguato letale avviene la mattina del 21 giugno verso le nove e mezza ad opera di un commando formato da Riccardo Dura e Francesco Lo Bianco come sparatori, Adriano Duglio e Luca Nicolotti come autista. Esposito sale sul autobus numero 15 diretto a Nervi dalla fermata situata davanti al centrale cinema Augustus e resta sulla piattaforma posteriore a leggere un giornale. Dura sale alla fermata dopo la sua, mentre Duglio e Lo Bianco salgono quando l’autobus è già lontano dal centro; Duglio si ferma vicino all’autista, il suo compito consiste nel costringerlo eventualmente ad aprire le

191 Un nome che tornerà alla ribalta qualche anno più tardi, per essere stato uno dei funzionari che presero contatti con

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porte; mentre stanno percorrendo via Pisa, un elegante quartiere residenziale, Lo Bianco fa fuoco contro la vittima con una pistola silenziata. Le persone presenti cominciano a urlare e a tentare di uscire chiedendo a gran voce all’autista di aprire le porte, l’autista ubbidisce e Duglio e Lo Bianco fuggono, inseguiti per qualche tratto dall’uomo, mentre Dura spara i colpi di grazia. I tre si allontano poi a bordo di una 128 in attesa col motore acceso nelle vicinanze. In breve sopraggiungono ambulanza, polizia e carabinieri, circa mezz’ora dopo la polizia rinviene la 128 dei brigatisti abbandonata; come sempre risulta rubata e con le targhe contraffatte192.

Dopo poche decine di minuti al centralino de «Il Secolo XIX» arriva la telefonata di rivendicazione dopo due giorni viene fatto ritrovare il volantino. Il documento ricollega l’omicidio di Esposito, definito “uomo di punta dell’apparato militare del SIM defilato nel commissariato di Nervi con l’obiettivo di costruire la rete spionistica dei nuovi servizi segreti”, ad un processo di lotta globale e senza quartiere contro lo Stato, espressione della “borghesia imperialista” e colpevole di “aver operato una militarizzazione crescente del territorio” attraverso la creazione di “apparati clandestini” di polizia. Il comunicato si chiude con una serie di esortazioni a disarticolare e distruggere l’apparato militare dello Stato e a riunirsi intorno al disegno strategico della costruzione della guerra civile rivoluzionaria193.

Le notizie sulla formazione del commando, sull’esatta dinamica e sui retroscena dell’omicidio sono desunte dalle testimonianze dei pentiti. Al riguardo, Peci afferma: “Anche l’azione Esposito venne proposta, discussa, concertata ed eseguita sotto la responsabilità della direzione di colonna genovese. Naturalmente l’esecutivo era informato e seguiva la vicenda attraverso almeno uno dei suoi componenti.”194 Rivelazioni importanti sono anche quelle di Gian Luigi Cristiani, che ammette la partecipazione di Duglio, come terzo uomo a bordo dell’autobus, incaricato di far aprire le porte. La sera dell’omicidio incontra davanti all’ospedale Galliera lo stesso Duglio che gli racconta di aver partecipato all’azione, minacciando l’autista, con Dura e Lo Bianco e che fuggirono su una macchina guidata da Nicolotti. Gli riferì inoltre di essere stato costretto da Dura, con cui era in forte contrasto, a partecipare all’azione.195 Quest’ultimo particolare è sostenuto da Duglio in tutti gli interrogatori relativi all’omicidio, pur con alcune variazioni.

Durante la fase istruttoria del processo relativo alle uccisioni genovesi, egli sostiene di aver deciso di lasciare l’organizzazione e di aver comunicato la sua decisione al capo colonna Dura che nutriva, a suo dire, una profonda avversione nei suoi riguardi. Quest’ultimo gli avrebbe posto come condizione

192 Sulla dinamica dell’omicidio cfr. ACS, MI, Gabinetto, affari generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28 e

TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri.

193 ACS, Direttiva Renzi, PCM, Dis, 2113. Attentati contro persone o cose A, fasc. 16, volantino 23.06.1978,

rivendicazione uccisione di Antonio Esposito.

194Cfr. TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri 195Cfr. TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri

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per potersi allontanare dalle BR di partecipare a un’azione di fuoco, senza specificare che si trattava di un omicidio; egli, dunque, avrebbe eseguito l’inchiesta e si sarebbe incontrato con Dura, Lo Bianco e Nicolotti, la mattina del 21 giugno, senza sapere nulla riguardo all’operazione che andava a eseguire, tranne l’identità della vittima e con la personale convinzione di partecipare a un ferimento.

Afferma, infatti: “Dura salì con Esposito e si mise davanti, Lo Bianco salì con me e si pose dietro, io mi misi vicino all’autista e Nicolotti ci seguiva in auto. Non vidi lo sparatore ma sentii colpi silenziati e pensai a Lo Bianco, uscimmo e mentre correvo verso l’auto sentii altri colpi forti e capii che era Dura. Fu Dura a dirmi che fu un omicidio togliendomi ogni dubbio, da quel momento non ebbi più contatti con le BR.”196 Durante il dibattimento modifica leggermente questa versione affermando di aver saputo in cosa consisteva l’azione a cui collaborava, ma di aver dovuto accettare sotto minaccia di morte da parte di Dura e come pegno per poter uscire dall’organizzazione: coinvolgendolo in un crimine così grave, il capo colonna si sarebbe assicurato contro una sua eventuale delazione. Questa versione dei fatti appare molto improbabile, perché si danno moltissimi casi di militanti che hanno lasciato l’organizzazione senza dover pagare alcun pegno o incontrare resistenze. La politica delle Br, in questi casi, sembra piuttosto improntata a un atteggiamento opposto: resta nei ranghi e viene incaricato di azioni importanti chi si dimostra determinato e convinto, mentre chi non si sente di continuare viene lasciato andare in quanto la presenza di un militante non consenziente costituirebbe un rischio e un impaccio per tutta l’organizzazione. Del resto le dichiarazioni della Miglietta contraddicono la versione di Duglio e anche Cristiani durante il dibattimento ritratterà la sua dichiarazione, negando la veridicità di questa circostanza che sarà ritenuta inaccettabile anche dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova.

“Nessuno è mai stato costretto a partecipare a un’azione. Anzi, i nuclei dovevano essere omogenei nella determinazione sia rispetto all’obbiettivo che alle modalità di intervento. Il dissenso era tollerato, vigendo il principio del centralismo democratico. Se dopo le discussioni uno restava della sua idea doveva rimettersi alla decisione della maggioranza. La sanzione massima sarebbe proprio stata di non poter partecipare all’azione.”197

L’omicidio Esposito è dunque il primo commesso dalla colonna genovese e la data del tragico avvenimento coincide con quella dell’entrata in camera di consiglio della Corte di Torino, impegnata a giudicare l’operato del nucleo storico delle Brigate Rosse. Si tratta del maxi processo ai primi capi dell’organizzazione, un processo travagliato che ha patito numerosi rinvii e sospensioni e segnato drammaticamente, in questa sua ultima riapertura, dall’assassinio del maresciallo Rosario Berardi a Torino.

196 Ibidem 197 Ibidem

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Le due azioni, quella genovese e quella torinese, sono molto simili: entrambi hanno come obiettivo un ufficiale di polizia, entrambi avvengono in concomitanza di un’importante tappa del processo torinese, entrambi hanno come scopo l’annientamento della vittima, sono, infatti, due atti dello stesso disegno, vale a dire dimostrare la vitalità militare delle Brigate Rosse in un momento di fragilità politica dovuta ai dissidi interni generati dalla gestione e dalla conclusione del caso Moro e rispondere alla repressione delle forze dell’ordine con la forza.

Nel volantino di rivendicazione l’azione viene inserita nella logica del generale attacco al cuore dello Stato sferrato dalle Brigate Rosse. Nell’ambito della guerra dispiegata la parola d’ordine è colpire i servitori e gli uomini di punta di questo stesso Stato. Tuttavia, Esposito è colpito per un doppio motivo, giacché uomo dello Stato e perché i brigatisti lo consideravano un membro importante dei servizi segreti, quindi un responsabile della repressione e un diretto avversario militare. Quindi questo omicidio, seppure inseribile nella campagna contro le forze dell’ordine, è ancora un omicidio esemplare, in cui viene colpita una figura perché rappresenta un potere ritenuto da abbattere o perché quella persona in particolare è punibile, secondo le Brigate Rosse, in base a precise accuse.

I successivi omicidi genovesi, ad esclusione del caso Rossa che è assai più complicato, saranno invece da inscriversi a pieno titolo nell’ambito della campagna contro le forze dell’ordine e le vittime saranno scelte ancor più arbitrariamente, senza nessuna logica esemplare o propagandistica, ma come se si fosse veramente entrati in una dimensione di guerra civile.