4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna
4.10. L’ultimo atto.
Dopo il blitz di via Fracchia la colonna genovese vive un momento molto particolare: se da un lato si assiste a un certo proliferare di gruppetti armati che si dichiarano fedeli all’organizzazione maggiore e sembrano dimostrare un certo successo numerico della lotta armata, dall’altro è evidente che la colonna non ha più una direzione e sta lentamente andando alla deriva. Del resto, questa è la situazione delle Brigate Rosse in generale che, benché ancora ricche di militanti e dotate di notevole forza operativa, sono ormai prive di un chiaro progetto politico, dilaniate dalle dissidenze interne e braccate dalle forze dell’ordine.
A livello di organizzazione, l’operazione di via Fracchia ha privato la colonna di un importante arsenale di armi, della sua base principale, di molto materiale di lavoro e del suo capo, Riccardo Dura, il quale viene sostituito da Francesco Lo Bianco. Lo Bianco è un ex operaio, molto interessato alla realtà e ai problemi della fabbrica, militante nella colonna fin dalla sua fondazione ed esecutore di numerosi omicidi e ferimenti.
Il nuovo capo si trova a dirigere l’organizzazione in un momento particolarmente difficile, dovendo da una parte gestire le polemiche interne sempre più aspre, le fronde, gli schieramenti faziosi e dall’altra svolgere le sue mansioni in una situazione di panico generale, mentre i militanti e gli strumenti logistici continuano a cadere sotto i colpi della repressione. In questo periodo, infatti, se è vero che entrano nell’organizzazione nuovi militanti, inquadrati nelle brigate e nei gruppi satelliti, è anche certo che diversi brigatisti, come Gianni Cocconi, Edoardo Gambino e altri, abbandonano l’organizzazione per divergenze con la linea politica.
Nelle settimane seguenti il blitz di via Fracchia, si allontana dall’organizzazione colei che era stata una dirigente fin dalle origini, Fulvia Miglietta, compagna di Riccardo Dura e responsabile del fronte della controrivoluzione. La vicenda esula dall’ambito delle divergenze politiche nazionali e riguarda una questione personale: Miglietta, infatti, pur essendo sempre stata ai vertici dell’organizzazione
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genovese, mantiene una posizione individuale piuttosto ambigua, rifiutando di partecipare ad azioni sanguinarie pur svolgendo il lavoro preparatorio ad esse, inoltre la sua fede cattolica la rende abbastanza sospetta agli occhi dei suoi compagni, soprattutto in questa fase travagliata. Alla fine di aprile del 1980 si allontana da Genova e, forse anche dalle Brigate Rosse, ma su questo vi sono informazioni contrastanti242.
Le divergenze esistono anche tra quelli che restano; vi è, infatti, una corrente che sostiene le tesi della Walter Alasia ed è in polemica con l’esecutivo e dunque col capo colonna; Lo Bianco reagisce a questa situazione soffocando il dissenso anche con mezzi violenti come le percossee instaurando un clima da assolutismo in cui non solo non vengono tollerate deviazioni dalla linea stabilita dai vertici, ma la stessa discussione è scoraggiata.
In agosto giunge a Genova Barbara Balzerani, col compito di ricomporre i conflitti in atto: la famosa “Sara” è a questo punto una delle più importanti dirigenti nazionali, assume il ruolo di capo colonna e tenta di rivitalizzare e pacificare la colonna, ma ormai è una battaglia persa e nel giro di pochi mesi l’organizzazione verrà totalmente sconfitta dall’offensiva delle forze dell’ordine.
Il primo arresto avviene per caso, il 19 settembre 1980, quando Fausto Roggerone, Roberto Garigliano e Leonardo Bertulazzi, che stanno effettuando un sopralluogo nei dintorni della stazione Brignole in previsione di un attentato alla caserma dei carabinieri della zona, vengono fermati da una pattuglia a un posto di blocco. In macchina hanno un paio di ciclostili riguardanti la lotta armata. I tre scendono dalla vettura e due di loro si danno alla fuga, mentre Roggerone rimane fermo. Garigliano viene subito catturato, mentre sta cercando di scavalcare un muraglione, Bertulazzi invece riesca a scappare e resterà latitante fino al 2002, quando viene individuato in Argentina243.I due arrestati confessano la loro appartenenza alla Brigata 28 marzo. Roggerone è un militante di secondo piano e non possiede molte informazioni, mentre Garigliano si dissocia e fornisce agli inquirenti importanti notizie, tra cui il nome del quarto membro della brigata satellite, Claudio Bussetti: quest’ultimo viene arrestato e conferma le sue responsabilità. Dalle informazioni ricevute parte l’operazione della Digos che si conclude dopo pochi giorni, il 24 settembre, con dieci arresti, quasi tutti di brigatisti.
Nel giro di un mese molti misteri vengono svelati, nomi e fatti vengono alla luce rapidamente, anche perché tutti i fermati decidono di collaborare; tra loro anche Carlo Bozzo e Gian Luigi Cristiani, i grandi pentiti genovesi, che consentono con le loro confessioni una quasi completa ricostruzione delle
242Il pentito Bozzo dichiara che Miglietta si allontana dalle BR nella primavera del 1980, producendo una lettera che ne
spiega le ragioni, ma la stessa Miglietta al momento dell’arresto, nel 1981, si dichiara militante delle BR e prigioniera politica.
243 Bertulazzi è stato arrestato dall’Interpol, ma rimesso in libertà il 5 giugno del 2003, poiché il governo argentino ha
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attività della colonna a partire dalle sue origini. Gli inquirenti riescono così a individuare e sequestrare diversi supporti logistici e molto materiale appartenente all’organizzazione, come appartamenti, automobili, armi e scritti.
Sono assai numerose le operazioni fruttuose e i rinvenimenti importanti che si avvicendano nell’autunno del 1980: sul monte Fasce, situato alle spalle di Genova e frequentato dai brigatisti per le esercitazioni militari, il 29 settembre, viene ritrovata, nascosta in un bidone di plastica, la mitraglietta sottratta ai carabinieri di Sampierdarena dopo l’omicidio, insieme ad una pistola e a diverse munizioni; vengono inoltre scoperti diversi depositi: un box in centro, fornito da Gianfranco Zoja, il laboratorio fotografico di Francesco Sincich, l’appartamento di via Zella e quello in località Cervo nell’imperiese. L’individuazione di quest’ultima base è importante perché consente di raccogliere, per la prima volta, elementi sull’attività brigatista in questa zona.
In effetti, la colonna genovese ha cercato di espandersi in provincia, scegliendo il Ponente e soprattutto la zona di Imperia; qui si era stabilito Giuseppe Mastellone, il quale custodiva nel deposito diverse armi dell’organizzazione. Tuttavia, i progetti di azioni in quest’area non si sono mai realizzati, consistendo sempre l’attività imperiese in un semplice supporto logistico per la colonna genovese. Ma la scoperta più importante è sicuramente il rifugio di via Zella, la più importante della città, dopo quella di via Fracchia. A dare il via alle indagini è una traccia fornita da Carlo Bozzo, secondo il quale a Genova vi è ancora una base inespugnata, situata nella zona compresa tra Sampierdarena e Rivarolo, vicino all’autostrada Milano - Genova. Via Zella si trova a Rivarolo, un quartiere periferico e popolare; è una via stretta che costeggia l’autostrada arrampicandosi sul monte, i suoi palazzi sono stati costruiti negli anni Cinquanta. La zona risponde alle caratteristiche che le Brigate Rosse auspicano per le loro basi: anonimato, mancanza di esercizi pubblici e di passaggio di folla, vie di fuga, ambiente proletario. L’appartamento scelto dall’organizzazione è al primo piano, come di regola, del civico undici, il più vicino all’autostrada, il terrazzino dell’abitazione si affaccia direttamente sulla scarpata che porta ad essa. La posizione strategica deve aver spinto l’organizzazione a scegliere questo anonimo appartamento come una delle due basi più importanti della città. Dopo alcuni giorni di pedinamenti e sopralluoghi, gli inquirenti individuano la casa. Gli agenti della Digos e i carabinieri giungono sul posto il primo ottobre, intorno alle diciannove e trenta, circondano l’abitazione e suonano ripetutamente il campanello senza ottenere risposta; dopo diversi tentativi risponde una voce di donna e quando la porta si apre, poliziotti e militari si trovano davanti un’anziana signora a custodia di un arsenale. Nella base vengono, infatti, trovati un mitra, quattro pistole, quattro bombe a mano e due anticarro, un fucile di precisione e molte munizioni; inoltre ricetrasmittenti sintonizzate sulle onde della polizia, schedari, un ciclostile e una macchina da scrivere. L’anziana donna si chiama Caterina Picasso, ha settantatré anni ed è l’intestataria
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dell’appartamento. È una persona sola, vedova, che è vissuta fino a cinque anni prima in un altro quartiere della città; dopodiché ha acquistato l’appartamento in via Zella, dove non ha stretto amicizia con nessuno e dove nessuno sapeva cosa succedeva nella sua casa – deposito, in cui lei abitava stabilmente e che custodiva con scrupolo; gli altri membri dell’organizzazione andavano di tanto in tanto alla base, soprattutto Riccardo Dura che si faceva passare per suo nipote e vi restava talvolta a lungo. Caterina Picasso, nome di battaglia Rina, aveva dunque un ruolo preciso nell’organizzazione che ricopriva con scrupolo e dedizione.
I suoi coimputati, intanto, detenuti in isolamento nel carcere di Marassi rilasciano numerose dichiarazioni che provocano altri arresti. Il 27 ottobre, una nuova retata dei Carabinieri e della Digos porta alla cattura di molti irregolari della colonna, tutti rilasciano dichiarazioni, più o meno articolate e utili. Così, come in seguito a una reazione a catena, i militanti genovesi cadono uno dopo l’altro. A questo punto la storia della colonna genovese è conclusa.
La quasi totalità dei suoi dirigenti è ancora in liberta, alcuni verranno arrestati dopo poco, altri resisteranno più a lungo, altri ancora sono tuttora latitanti, ma la sconfitta militare e politica delle Brigate Rosse locali si è ormai consumata: l’inespugnabile e supercompartimentata colonna genovese, ormai da tempo isolata e avulsa dalla realtà, è completamente debellata.
La sconfitta militare non è che l’inevitabile conseguenza di una sconfitta politica che l’ha preceduta e che si è consumata a tappe, ma che ha nell’uccisione di Guido Rossa, il suo momento più rappresentativo.