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4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna

4.7. Rossa e Berard

Il 1979 è appena iniziato quando un avvenimento tragico e sconcertante riempie di orrore e rabbia l’intero Paese: il 24 gennaio a Genova l’operaio sindacalista Guido Rossa viene ucciso dalle Brigate Rosse. Poche ore dopo la diffusione della notizia, piazza De Ferrari, nel cuore della città, è invasa da una folla di centomila persone piangenti, arrabbiate, spaventate e sgomente che manifestano la loro indignazione. In gran parte si tratta di operai.

Come le Brigate Rosse, che nascono proponendosi come avanguardia rivoluzionaria rispetto al proletariato, che hanno sempre guardato alla fabbrica come al terreno privilegiato per gettare il seme della rivoluzione, siano giunte ad uccidere un operaio, trasformandosi agli occhi dei lavoratori genovesi e italiani come i nemici del momento, gli antagonisti di cui aver paura, è un problema complesso cui corrisponde più di una soluzione.

L’arresto

La storia inizia circa sei mesi prima, nel giugno del 1978, quando Francesco Berardi, operaio dell’Italsider decide di prendere contatti con le Brigate Rosse e l’avvocato Arnaldi lo presenta ad Enrico Fenzi che a sua volta lo mette in contatto con il clandestino Nicolotti198. L’idea di avere nelle

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proprie fila un operaio che lavora all’Italsider arride particolarmente all’organizzazione: attraverso lui avrebbero potuto ricevere numerose informazioni sullo stabilimento, sui progetti e i cambiamenti in atto, nonché notizie sul personale e i dirigenti. Inoltre, Berardi avrebbe potuto svolgere attività di propaganda, diffondendo segretamente volantini e tastando con discrezione il polso alle maestranze riguardo alle Brigate Rosse. Con il mondo della fabbrica è sempre più lontano e l’ostilità dei lavoratori nei loro confronti sempre più compatta; l’arruolamento di un operaio sembra un’occasione per aprire uno spiraglio in questa situazione. Ma Francesco Berardi non è l’uomo adatto: possiede una personalità facile alle infatuazioni come alle vanterie ed è inaffidabile sulle questioni pratiche. Nella sua autobiografia Fenzi ne dipinge un ritratto in cui prevale il tratto della naïveté, della generosa ingenuità. La disillusione verso la sinistra istituzionale, la voglia di agire in un momento che pareva di grandi svolte e il fascino di un gruppo di come le Br dell’epoca devono essere stati i fattori che lo portano alla decisione di diventare postino dell’organizzazione e tuttavia egli non ha idea di quelli che sono i compiti e gli atteggiamenti che il suo ruolo comporta, non si rende neppure conto dei rischi e delle durezze cui va incontro, per cui in fabbrica agisce scopertamente, cadendo nelle trappole che gli tende chi vuole verificare le voci che immediatamente erano iniziate a circolare sul suo conto, vantandosi del suo incarico, parlando troppo. Il suo ingenuo entusiasmo si scontra presto con la realtà dell’Italsider, dove, lungi dall’approvare e dal fiancheggiare l’azione delle Brr, gli operai si stanno organizzando per combatterla199.

Il Consiglio di Fabbrica dell’Italsider, allo scopo di frenare la diffusione di materiale eversivo all’interno della fabbrica, aveva deliberato che qualunque rinvenimento di opuscoli o volantini editi dalle Brigate Rosse fosse segnalato agli uffici, i quali avrebbero poi provveduto a consegnare il materiale ai servizi di vigilanza dello stabilimento, limitandone così la circolazione. Tra i membri del Consiglio c’è Guido Rossa, quarantaquattro anni, tornitore qualificato, militante da sempre nel partito comunista; di famiglia operaia, migra dal Veneto a Torino, dove lavora per alcuni anni negli stabilimenti della FIAT; quindi si trasferisce e Genova. Qui si impiega all’Italsider di Cornigliano, nell’officina manutenzione centrale dello stabilimento e, da poco tempo, era stato eletto come delegato del consiglio di fabbrica. È anche componente dell’esecutivo del consiglio di fabbrica e consigliere del circolo Italsider.

Rossa è un tipico esponente di quell’aristocrazia operaia che dagli anni Cinquanta in avanti afferma i suoi valori e i suoi diritti: competente e preparato, ineccepibile nello svolgimento delle sue

mansioni, impegnato nel partito e nel sindacato, ma disciplinato, serio, irreprensibile e orgoglioso del proprio mestiere. Insieme ai suoi compagni di partito e di sindacato, osteggiava la diffusione

199Sulla figura di Francesco Berardi: E. Fenzi, Armi e bagagli, op. cit., p. 59 e sg. e ACS, Direttiva Renzi, PCM, Aise, I

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delle Brigate Rosse in fabbrica; volantini erano sempre arrivati negli stabilimenti ed erano sempre stati, più o meno, tollerati e la decisione del Consiglio di Fabbrica appare come un segnale forte di non compromissione coi brigatisti.

È evidente che in questa situazione Berardi, col suo atteggiamento poco prudente, ha poche possibilità di non venire notato. Il 25 ottobre del 1978, alcuni operai dell’officina centrale trovano nella cabina delle macchine del caffè un opuscolo intitolato “Brigate Rosse, Risoluzione della Direzione Strategica, febbraio 1978”. Guido Rossa, informato del fatto, porta il documento nell’ufficio del Consiglio di Fabbrica e riferisce di aver visto in prossimità delle macchine del caffè Francesco Berardi, il quale presentava uno strano rigonfiamento sotto la camicia. Il Consiglio decide di denunciare Berardi al servizio di vigilanza, che, a sua volta, avverte i carabinieri della stazione di Rivarolo; una perquisizione nello stipetto e sulla persona di Berardi porta al rinvenimento di un volantino a firma Br, di un foglio di carta con annotate targhe automobilistiche e di due agende con numerosi indirizzi e numeri di telefono. Nel pomeriggio il postino è tratto in arresto mentre Rossa è interrogato a lungo dai militari.

Il giorno dopo al Consiglio di Fabbrica giunge una telefonata delle Brigate Rosse che minaccia di ritorsioni un sindacalista, non é Guido Rossa, ma cominciano a serpeggiare i timori, tuttavia il Giudice Istruttore ritiene indispensabile la testimonianza di Rossa per poter istruire il processo: sebbene la denuncia sia stata collettiva, l’unico testimone è lui. Pochi giorni dopo, il 30 e il 31 ottobre, Francesco Berardi viene processato per direttissima: al dibattimento è presente l’unico testimone, Guido Rossa, solo.

La presenza dei due colleghi nella stessa aula, l’uno accusatore l’altro accusato, suscita la curiosità dell’opinione pubblica che rimane delusa: tra i due non avviene nessuno scontro, nessuno scambio, neppure verbale; Rossa addirittura non volge mai lo sguardo verso il suo compagno di lavoro. Berardi viene condannato a quattro anni e mezzo. Qualcuno dirà in seguito, e la notizia finisce anche su alcuni giornali, che Berardi abbia indirizzato a un brigatista confuso nel pubblico un gesto eloquente indicando il sindacalista; ma la circostanza non ha mai trovato conferma e non appare neppure molto verosimile, soprattutto perché l’imputato non era certo nella posizione di dare ai suoi compagni indicazioni operative.

Rossa rimane in aula pochi minuti, solo per affermare: “Confermo quanto già dichiarato ai carabinieri”200, ma dimostrando così un coraggio e un senso civile fuori dal comune: il suo presentarsi in aula e accusare scopertamente un membro delle Br assesta un duro colpo all’organizzazione, non solo e non tanto per l’arresto di Berardi, ma perché viene scalfito il mito dell’imprendibilità della colonna che è stata intaccata sebbene nel suo anello più debole e in una figura marginale.

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L’omicidio

La Direzione di colonna decide, d’accordo coi vertici nazionali, che Rossa deve subire un’azione punitiva, ma si teme la reazione emotiva e politica che scatenerebbe un attentato contro un operaio. L’organizzazione si rende conto che colpire un lavoratore, per giunta sindacalista e comunista, le avrebbe alienato definitivamente il già remoto accesso al mondo operaio; inoltre, un fatto del genere avrebbe avuto ripercussioni enormi anche al di là della fabbrica e avrebbe isolato ancor più le Brigate Rosse. D’altra parte si ritiene che non reagire a un’aperta sfida possa essere interpretato come un cedimento, un segno di debolezza, l’indizio di una crisi. Infine si raggiunge un compromesso: ci sarà risposta, ma sarà una risposta non cruenta.

La decisione è di creare un finto posto di blocco, rapire l’operaio, marchiarlo con la scritta spia sulla fronte e lasciarlo legato ai cancelli dell’Italsider201, una soluzione, che però, risulta presto impraticabile. Infatti, si tratta di un’azione molto complessa, che richiederebbe l’impiego di almeno una decina di militanti e sia a causa del tempo che occorrerebbe per portarla a termine, sia per il dispiegamento di mezzi e uomini, potrebbe essere facilmente sventata dalle forze dell’ordine, col conseguente rischio di cattura di molti membri del commando.

A questo punto si determina un passaggio tanto paradossale quanto significativo del livello di brutalizzazione raggiunto dalle Br in questa fase, si decide infatti di procedere a un ferimento, per la sola ragione che questo tipo di azione, assai più grave e cruenta, comportava meno problemi di organizzazione e per questo motivo viene approvata. Sembra incredibile che per ovviare a un problema tecnico si decida di alzare tanto il livello di offesa, passando da una gogna a un’invalidazione, eppure questo fatto è confermato da diverse testimonianze, così come il fatto che l’omicidio fosse esplicitamente escluso.

A proposito racconta Peci, precisando che riferisce solo voci riportate: “Mi risulta che l’azione fu discussa a tutti i livelli. Debbo precisare che inizialmente il problema venne posto in modo molto generico, prospettando la possibilità di un’alta gamma di azioni che andavano dalla scritta in fronte “spia” con vernice indelebile all’azzoppamento come massimo. Venne esplicitamente esclusa la possibilità dell’omicidio. Fu il fronte a proporre come priorità questa operazione alla colonna. Aggiungo che tale azione rimase sotto la direzione dell’esecutivo che la controllava da vicino tramite un membro che non sono in grado di indicare”202. Questa dichiarazione è confortata da quella di Carlo Bozzo, militante della colonna genovese, il quale afferma che Rossa non doveva essere ucciso; egli

201 Le diverse testimonianze parlano di diversi progetti di gogna: oltre a quella descritta, si parla di riempirlo di pece e

piume o di scrivere “spia” su un cartello e legarglielo al collo, in tutti i casi si tratta di azioni non cruente. Cfr. TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri e TPG, Sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Genova del 10.11.84 contro Azzolini e altri.

202Testimonianza di Patrizio Peci, resa durante l’istruzione del processo genovese riguardante le uccisioni e riportata

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racconta di aver incontrato un paio di giorni dopo l’omicidio Fulvia Maglietta203, la quale gli riferisce che l’omicidio è stato un grave errore e che anche l’invalidazione sarebbe stata un ripiego, essendo fallita un’azione che consisteva nel prelevare Rossa, inscenando un finto blocco stradale, e nel legarlo ai cancelli della sua fabbrica con un cartello al collo.”204 Stessa versione fornisce Marina Nobile: “Non fu un’uccisione sbagliata, fu un’uccisione per sbaglio. Inizialmente dovevano prenderlo, coprirlo di pece e piume e legarlo ai cancelli dell’Ansaldo, ma era un’azione complicata, dovevano essere almeno in una decina e il primo tentativo è fallito. Allora hanno deciso di sparargli in un ginocchio, l’intenzione era quella di punirlo per la delazione, ma non di ucciderlo”205.

Viene così organizzato il ferimento sotto la supervisione dei vertici nazionali, secondo le parole di Peci. Si decide di attendere la vittima sotto casa, come sempre, ma stavolta c’è un problema in più: Guido Rossa abita in via Fracchia, a pochi metri da una base cittadina delle Brigate Rosse; una delle priorità è quindi quella di rendere chiaro a chi svolgerà le indagini che nella zona il commando non poteva contare su appoggi logistici. Infatti, il nucleo operativo aspetta la vittima nascosto dentro un furgone famigliare Fiat 850, rubato e con documenti e targhe contraffatte. Il furgone, posteggiato dietro l’auto di Rossa viene abbandonato sul posto e gli inquirenti trovano all’interno una barba finta, coperte, giornali a indicare senza ombra di dubbio che i brigatisti avevano quel mezzo come unica base nei dintorni. Un altro problema consiste nella notizia, rinvenuta durante l’inchiesta, che Rossa sia un esperto di karatè e che quindi possa difendersi; una reazione difensiva è da scongiurarsi perché potrebbe far degenerare la situazione e portare a gravi conseguenze.

Secondo Savasta, le Brigate Rosse cercarono di scongiurare questa evenienza, proprio per timore di uccidere la vittima: “Su Rossa riferisco quanto mi disse Dura in occasione di un nostro incontro a Viareggio in cui gli avevo portato due bombolette di gas: “Ci sarà un attacco al sindacato in termini militari e sarà di tipo dimostrativo. Siccome vogliamo solo ferirlo, questo sindacalista, volevo sapere quali sono gli effetti di questo gas”. Aggiunse che usavano il gas perché sapevano che il soggetto girava armato o praticava karatè, era insomma in grado di difendersi, e gasandolo avrebbero mantenuto lo scontro a un livello basso, senza correre il rischio di ucciderlo.”206

All’alba del 24 gennaio 1979, il commando, composto da Lorenzo Carpi, in veste di autista, Riccardo Dura e Vincenzo Guagliardo, è appostato in via Fracchia. Alle sei e mezza compare Rossa; Guagliardo e Dura gli si avvicinano mentre questi sta salendo sulla sua auto, Carpi aspetta in macchina. Guagliardo spara, non è chiaro se mentre Rossa è in strada o quando è già a bordo, su

203Membro della Direzione di colonna a Genova

204Testimonianza di Carlo Bozzo, resa durante l’istruzione del processo genovese riguardante le uccisioni e riportata

nella Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri.

205 Intervista rilasciata da Marina Nobile all’a. il 06.08.2003.

206TPV, Deposizione rilasciata da Antonio Savasta all’autorità giudiziaria il 3 maggio 1982 in TPVe, Busta C, fascicolo

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questo punto le dichiarazioni sono contrastanti; comunque, prima o dopo gli spari, la vittima raggiunge l’abitacolo e vi si chiude dentro. L’azione doveva finire così, ma Dura, che aveva semplicemente una funzione di copertura, è convinto che Guagliardo abbia fallito il bersaglio e spara a sua volta attraverso l’abitacolo. È questo il colpo che fredda Rossa, raggiungendolo al cuore. Nessuno si accorge di nulla, il corpo rimane all’interno dell’automobile fino alle sette e mezza, quando una ragazza, compagna di scuola di Sabina Rossa, la figlia sedicenne del sindacalista, lo scopre, chiama la madre, dà l’allarme. Sul luogo arrivano polizia e carabinieri, incominciano le indagini, recuperano i sei bossoli calibro 9 e 7,65, eseguono i rilievi e scoprono il furgone.

È ancora Bozzo a raccontare l’accaduto, riferendo ciò che gli raccontarono i protagonisti:

“Guagliardo sparò alle gambe di Rossa che si rifugiò nella sua auto in cui venne raggiunto da Dura che lo uccise, forse per sbaglio o forse perché riteneva che fosse giusto. Carpi non ne sapeva niente e capì che era successo qualcosa di grave quando udì gli spari, visto che Guagliardo doveva agire con un’arma silenziata.” Riferisce che un paio di settimane dopo l’omicidio, incontra Dura che gli dice di essere stato lui ad ammazzare Rossa207.

È, infine, Carpi a raccontargli dettagliatamente i fatti: “Il nucleo aspettava Rossa dentro il pulmino posteggiato poco lontano dalla sua auto. Ci fu un ritardo nell’uscita del nucleo, la vittima si accorse di qualcosa e scappò verso l’auto; mentre stava entrando, Guagliardo gli sparò alle gambe e ancora, mentre era seduto, attraverso il finestrino. Rossa teneva la portiera chiusa e si muoveva nell’auto, Dura, mentre Guagliardo se ne stava andando, ruppe il vetro col calcio e lo uccise.”208

Miglietta, infine, precisa che l’omicidio è il frutto di un errore commesso da Dura:

“La Direzione di colonna e il Comitato Esecutivo erano per ferirlo. Dura spara pensando che Guagliardo non fosse riuscito a colpirlo e lo uccide per errore. Fu lo stesso Dura a raccontarmi questo.”209

Le reazioni a questo tragico episodio sono immediate e unanimemente improntate alla commozione, alla rabbia e alla condanna210. A migliaia le persone scendono in piazza in tutta Italia; Genova si ferma spontaneamente e una folla sgomenta si raduna in piazza De Ferrari, culmine di tante manifestazioni, un tricolore listato a lutto sventola da una finestra dell’antico palazzo ducale. Dalle nove del mattino iniziano a svuotarsi scuole, fabbriche, uffici e negozi, si improvvisano cortei che da tutte le zone della città riversano nella piazza migliaia di persone, arrivano delegazioni di operai anche

207 Testimonianza di Carlo Bozzo, resa durante l’istruzione del processo genovese riguardante le uccisioni e riportata

nella Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri.

208 TPGe, Sentenza della Corte d’Assise contro Azzolini e altri, 26.03.1983. 209Ibidem

210 Per le reazioni all’omicidio di Rossa si vedano oltre alla stampa dell’epoca, le comunicazioni relative a

manifestazioni, scioperi, telegrammi e iniziative di solidarietà in ACS, MI, Gabinetto, affari generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28.

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da Torino e Milano. Il giorno seguente, all’Università e nella sala Chiamata del porto si svolgono due assemblee per discutere l’accaduto. In quella studentesca, organizzata dalla Unità delle sinistre, si analizza il fenomeno della violenza politica e si indaga su quali possono essere gli strumenti per contrastarlo.

Nella sala Chiamata parla Ottaviano Del Turco, delegato della Flm, ricorda il collega, la sua onestà e il suo coraggio, invitando i lavoratori a seguire il suo esempio e chiedendo allo Stato giustizia. Prende la parola anche un membro del Collettivo portuali, per difendere la posizione di chi si dichiara “né con le BR né con lo Stato”, affermando che il collettivo non appoggia la politica del governo e dei vertici del sindacato, ma non per questo lo si può accusare di complicità con le Brigate Rosse da cui prende le distanze e che afferma essere un fenomeno estraneo alla classe operaia.

In tutte le fabbriche, dalle nove alle undici, si svolgono assemblee, a quella dell’Italsider partecipa anche un rappresentante dell’Anpi. Intanto, organizzazioni politiche e sindacali, enti varie e scuole emanano comunicati di condanna.

Il Pci, già colpito un anno prima col ferimento di Carlo Castellano, vive il suo giorno più luttuoso: “Questa volta si è voluto colpire direttamente il partito, il movimento sindacale e la classe operaia, a ulteriore conferma che, quali che siano gli obbiettivi scelti di volta in volta dai criminali terroristi, quali che siano le sigle dietro le quali si mascherano, essi altro non sono che il braccio armato di un disegno reazionario diretto a far retrocedere il paese e a piegare la classe operaia e il movimento democratico”211. Al momento del processo per questo omicidio, quattro anni dopo il fatto, il Partito Comunista, l’associazione sindacale Flm e il Consiglio di fabbrica dell’Italsider chiedono di potersi costituire parte civile nel processo per l’omicidio di Rossa, adducendo a motivazione che fosse intenzione delle Brigate Rosse colpire, con quella azione, direttamente il PCI e il sindacato; tuttavia l’istanza viene respinta, suscitando diverse polemiche. L’ordinanza motiva così la decisione: “Si può rilevare che l’assunzione da parte del movimento operaio, attraverso le sue articolazioni politiche e sindacali, di fini che riguardano, insieme ai lavoratori, tutta la collettività è un fenomeno tipico di questi ultimi anni, ma questi fini, proprio per la loro natura sono e rimangono a carattere generale e, in quanto tali, nell’ambito giudiziario, non possono che essere tutelati, in via esclusiva, dal pubblico ministero”212.

In attesa dei funerali, che si svolgono il 27 gennaio, una lunga fila di persone sfila per tutto il giorno davanti alla salma, che è stata portata nel teatro Cral dell’Italsider, per rendere omaggio al sindacalista assassinato. La partecipazione alle esequie è imponente, una folla enorme convenuta anche da altre città rende omaggio a Guido Rossa. Nel corso della notte decine di treni speciali e centinaia di pullman

211«Il Secolo XIX» del 25 gennaio 1979, p. 8 212«Il Secolo XIX» del 3 febbraio 1983, pag. 9

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sono giunti a Genova da ogni parte d’Italia, soprattutto le organizzazioni sindacali si sono mobilitate: migliaia di operai arrivano da Torino, Milano, Roma, Napoli, Emilia Romagna, Toscana e Calabria. Ai funerali partecipano molte autorità, tra loro Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Paolo Emilio