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3. Le Brigate rosse in Veneto.

3.3. Il duplice omicidio di via Zabarella.

Il mattino del 17 giugno del 1974 un commando brigatista, armato, si trova nella centrale via Zabarella a Padova, dove ha sede la sezione provinciale del Msi. Il commando è composto da Martino Serafino, Giorgio Semeria, Susanna Ronconi, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli. Il piano è quello di far entrare due nuclei di due persone alla volta, i primi con il compito di verificare la presenza di persone e renderle inoffensive immobilizzandole, il secondo con quello di ispezionare il luogo e requisire la documentazione.

Nei giorni precedenti i due giovani irregolari, Ronconi e Serafino, svolgono l’inchiesta preparatoria, spiando l’attività della sezione, mentre Roberto Ognibene, fingendosi un aspirante iscritto, accede diverse volte all’interno dei locali per studiare la situazione.

La mattina dell’azione, entrando nella sede, Pelli e Ognibene trovano due militanti missini, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, e li obbligano con le armi in pugno a inginocchiarsi; ma quando sono per legarli i due reagiscono, ne nasce una colluttazione che si conclude con l’uccisione delle due vittime inermi; i due irregolari rimasti sulle scale sentendo il rumore degli spari si danno alla fuga, Serafino, da quel momento, non vorrà più avere alcun contatto con le Brigate Rosse.376

374 TPVe, b. 316/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Alfredo Buonavita il 02.03.1982.

375 Verbale di interrogatorio reso da Alfredo Bonavita ai GGII Caselli e Giordana il 10-11.06.1981, TPRm, Ufficio

Istruzione n. 54/80, pp.18-19

376 Sulla dinamica e gli scopi dell’azione cfr. TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Comunicazione della Legione dei

Carabinieri di Padova, 1^ sezione alla Procura della Repubblica di Padova, 10.04.1986; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Roberto Ognibene il 08.05.1986; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di

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Era stato lo stesso Serafino a individuare la sezione provinciale del Msi come obiettivo e la sua proposta era stata quella di un furto da perpetrarsi nottetempo, quando il luogo sarebbe stato

sicuramente deserto, ma era stata giudicata più efficace un’irruzione in pieno giorno corredata di un gesto punitivo – che nelle intenzioni doveva consistere nel lasciare i presenti legati e imbavagliati nella sede377 – perché avrebbe mostrato l’aggressività e la forza delle Br.

Buonavita inquadra l’azione come un’iniziativa Brigate rosse venete nell’ambito di una campagna nazionale imperniata sul sequestro Sossi e connessa all’irruzione nella sede della Cisnal di Mestre; mentre Ognibene sostiene che sia stata decisa e organizzata autonomamente dalla colonna locale nell’ambito di una serie di azioni rivolte contro luoghi del neofascismo, di cui si voleva dimostrare il coinvolgimento nelle stragi. Semeria, da parte sua, afferma che, dopo l’attacco al fascismo di fabbrica, concretizzatosi nel sequestro Labate e nell’irruzione alla Cisnal di Mestre nel 1974, l’organizzazione si stava orientando verso la lotta contro il neogollismo che ispira, tra l’altro, il rapimento di Sossi; l’azione contro la sede del Msi è stata concepita e organizzata autonomamente dalle Br venete sull’onda emotiva suscitata dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia che persuade questi militanti della necessità e dell’attualità di un’azione contro il fascismo378; è possibile che un’azione antifascista apparisse particolarmente adeguata e prioritaria in un contesto come quello padovano in cui il neofascismo costituiva una componente non trascurabile della vita politica. Non si può escludere, inoltre, che suggerimenti potessero giungere da quei militanti che provenivano dalla Brigata Ferretto e che potevano intendere di riproporre obiettivi e modalità operative che l’avevano caratterizzata: nella ricostruzione che si trova nella prima parte del volume Terrore rosso, il duplice omicidio di Padova è indicato come la prima azione della colonna veneta, un’azione - si osserva – che doveva essere analoga alla prima della Brigata Ferretto ma che si trasforma tragicamente nel primo fatto di sangue della storia brigatista379: un salto in avanti dal punto di vista del livello di offesa che le stesse Brigate rosse non riescono a gestire, non trattandosi di un passo premeditato.

Le diverse versioni della genesi di questa azione che emergono dalle diverse deposizioni dei brigatisti, possono essere influenzate dalle differenti conseguenze penali che scaturiscono da esse, coinvolgendo un numero maggiore o minore di militanti, per cui diventa arduo ricostruire a quale livello dell’organizzazione si può attribuire la decisione di attaccare la sede di via Zabarella e in

interrogatorio reso da Giorgio Semeria il 09.05.1986; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Susanna Ronconi al PR Pietro Calogero, 01.03.1986; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Alfredo Bonavita al PR Pietro Calogero il 14.05.1985; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Attilio Casaletti il 04.04.1986; TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Martino Serafino il 13.05.1986; P. Calogero, E. Fumian, M. Sartori, Terrore rosso, cit.

377 Un tipo di “punizione” che ricorda molto quella inflitta ai capi reparto e dirigenti industriali a Torino dalle stesse Br. 378 TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Giorgio Semeria il 09.05.1986.

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quali termini; il fatto, acclarato in sede processuale, che i veneti avessero contatti costanti con i dirigenti milanesi che incontrano a Piacenza con cadenza mensile, rende difficile credere che questi ultimi non fossero stati informati dettagliatamente su un fatto così importante, ma non è possibile stabilire da quale gruppo partì la proposta e se, all’epoca, fosse prevista la necessità di una sorta di autorizzazione da parte del centro, dal momento che la struttura piramidale basata sulle colonne non era ancora stata compiutamente definita. In ogni caso l’azione è inquadrabile nell’antifascismo armato, ma non si tratta di una semplice spedizione punitiva contro il Msi, quanto piuttosto di una sorta di operazione di “spionaggio” che aveva come fine l’acquisizione di documenti e carte conservate nella sede che gettassero luce sul ruolo dello stato e del neofascismo nella strategia golpista e stragista in atto negli ultimi anni; in effetti, come si è visto nel paragrafo dedicato alla destra radicale, l’idea di un collegamento tra la strage di piazza della Loggia e la sede padovana del Msi non era del tutto peregrina.

Secondo la sua testimonianza, Buonavita in quel periodo vive in Romagna e lì viene a sapere dell’omicidio di Via Zabarella; in seguito viene incaricato dal Comitato Esecutivo di condurre un’inchiesta sul fatto; afferma che nelle Br c’era molto sconcerto perché l’omicidio non era

previsto, mentre era stata programmata un’azione di esproprio e di perquisizione nella sede missina per cercare prove sulle trame nere, pertanto Curcio in particolare era dubbioso sulla versione dell’incidente, sospettando che si trattasse di una decisione autonoma della colonna veneta, dettata dal desiderio di mettersi in luce per reagire alle accuse di immobilismo che le erano state rivolte a causa della modestia della sua attività380. Giorgio Semeria, da parte sua, nega che vi sia mai stata questa inchiesta, sostenendo che il volantino di rivendicazione viene stilato e diffuso dai veneti senza informare i vertici che si trovano così, spiazzati e furibondi, davanti al fatto compiuto381. La sera del giorno seguente al delitto una telefonata anonima alla sede de «Il Gazzettino» fa ritrovare in una cabina telefonica di Ponte del Brenta il volantino di rivendicazione; il documento, datato 18 giugno, afferma che lo scopo dell’azione era l’occupazione della sede provinciale del MSI padovano mentre l’omicidio, un effetto collaterale dovuto alla “violenta reazione” dei fascisti presenti. Si afferma che quella sede è stata la palestra di Freda e di altri protagonisti del “terrorismo antiproletario”, cui attribuiscono le responsabilità delle stragi di piazza Fontana a Milano e di piazza della Loggia a Brescia; stragi di cui incolpano anche la DC che avrebbe ordito i massacri per

promuovere leggi speciali sull’ordine pubblico. Sostengono di aver voluto vendicare i compagni morti a Brescia, assassinati da sicari fascisti per volere della DC: “essi segnano una tappa decisiva

380 TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Alfredo Bonavita al PR Pietro Calogero il

14.05.1985.

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della guerra di classe, sia perché per la prima volta il potere democristiano attraverso i sicari fascisti scatena il suo terrorismo bestiale direttamente contro la classe operaia e le sue organizzazioni, sia perché le forze rivoluzionarie sono da Brescia in poi legittimate a rispondere alla barbarie fascista con la giustizia armata del proletariato”382.

Si nota un certo imbarazzo nelle parole delle Br, costrette, come succederà in altre occasioni e con particolare evidenza nel caso di Guida Rossa, a rivendicare un’azione non programmata che non corrisponde alla strategia messa in atto dall’organizzazione. Quel richiamo alle vittime di piazza Fontana e ancor più a di piazza della Loggia, appaiono una vera e propria captatio benevolentiae con cui cercano di accreditarsi quale baluardo antifascista contro la grave aggressione in atto e di accattivarsi così le simpatie dell’opinione pubblica in generale e dei militanti comunisti in

particolare. Torna alla mente qui, la già citata deposizione del pentito Fioroni secondo cui, nel corso di una discussione tra Curcio e Negri sul fatto di via Zabarella, il primo sostenne la possibilità di recupero del dialogo con una parte dei militanti del Pci, al contrario del professore padovano che considerava tutta la sinistra istituzionale non solo come un mondo estraneo e lontano, ma come il principale nemico da combattere, in quanto maggiore ostacolo alla realizzazione dei propositi rivoluzionari383. Inoltre quel riferimento alle vittime della strage fascista, tradisce il tentativo delle Br di porsi dalla parte delle vittime anziché degli autori della violenza omicida, segno

probabilmente del disagio provato di fronte a questo primo, inaspettato salto in avanti del proprio livello di offesa. Le Br, infatti, rivendicano l’azione, anche con un articolo su

«Controinformazione»384, asserendo che bisogna farsi carico anche degli incidenti di percorso che sono sempre possibili; scelta che sarà ribadita ogniqualvolta un nucleo operativo o una colonna gestirà un’azione in modo difforme rispetto alle indicazioni dei vertici: si pensi all’omicidio di Guida Rossa o alla richiesta di riscatto per Cirillo. Nonostante questi tentativi di mostrare all’esterno un’immagine di compattezza e decisione, l’uccisione a Padova segna una frattura traumatica in seno all’organizzazione, poiché si accende un dibattito con quanti brigatisti o simpatizzanti avrebbero preferito che l’azione non venisse rivendicata. In particolare è l’area di Autonomia a contestare questa rivendicazione, considerandola un errore tattico da parte delle Br. Secondo Alfredo Buonavita, un esponente di quest’area avrebbe consigliato direttamente a Curcio di non attribuirsi l’omicidio, così che avrebbe potuto essere accreditato ad una faida interna al mondo neofascista, così da ottimizzare il risultato politico; il brigatista ipotizza che questo

382 TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Volantino delle Br allegato a Comunicazione della Legione Carabinieri di Padova al

Procuratore della Repubblica di Padova, 19.06.1974.

383 TPPd, Procedimento 10735/92, Fasc. Fioroni e Borromeo, Interrogatorio di Carlo Fioroni presso la Casa

circondariale di Matera avanti al GI Francesco Amato e del PG Domenico Sica, 09.12.1979.

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suggeritore potesse essere lo stesso Toni Negri che all’epoca si incontrava sovente con Curcio per discutere di temi politici, in particolare relativamente a «Controinformazione» e alle lotte a Mirafiori385. Alla fine prevale l’idea della rivendicazione perché, come ebbe a dire Curcio “bisognava anche sapere che se necessario le Br uccidevano”386.

Al processo contro gli autori del duplice omicidio si costituisce parte civile Giorgio Almirante, segretario del Msi, per i danni morali e materiali arrecati al suo partito dal duplice omicidio; nello stesso dibattimento si costituisce parte civile anche Toni Negri nei confronti di Carlo Casirati, imputato per aver accusato ingiustamente del delitto, sé stesso e diversi esponenti di primo piano di Potere Operaio. Casirati, in ripetuti interrogatori a cui viene sottoposto387, riferisce dettagliatissime descrizioni dell’azione di via Zabarella e degli eventi dei giorni precedenti e successivi al fatto, sostenendo tra l’altro di essere stato coinvolto nell’azione per via della sua abilità di scassinatore da Monferdin e Liverani, affiliati a una non meglio precisata “Organizzazione” e di aver ricavato l’impressione che l’operazione fosse ordita da esponenti “del gruppo di Curcio e del gruppo di Negri” e fornisce anche i nomi di alcuni altri membri del commando, nessuno dei quali risulterà responsabile del fatto: Carlo Picchiura, Alfredo Bonavita e Corrado Alunni. Leggendo le

deposizioni di Casirati si resta colpiti da un lato dalla quantità di particolari e informazioni che danno un’impressione di veridicità e, all’opposto, da un generale senso di inverosimiglianza, sia per l’artificiosa e insistita costruzione della propria autorappresentazione in termini di bandito freddo e coraggioso, sia per circostanze del tutto improbabili: valga per tutti l’esempio dei feti sottovetro che avrebbe visto in casa di tale Alberto, affiliato a questa “Organizzazione”.

L’uccisione dei due uomini in via Zabarella mette in difficoltà l’intera organizzazione, segnando una completa e non voluta inversione di tendenza rispetto al sequestro Sossi: se nel secondo caso il successo politico e propagandistico era stato massimo, accrescendo la popolarità del gruppo, la prima determina una frattura tra questo e i suoi simpatizzanti. Se il punto di svolta verso quel cammino solipsistico di cui si è già detto va individuato nel passaggio alla strategia dell’attacco al cuore dello stato, tuttavia mentre l’azione Sossi, primo atto di quella strategia, non interrompe, ma anzi facilita il dialogo con il movimento, l’omicidio di Padova imprime indubbiamente

un’accelerazione sulla via dell’isolamento.

In Veneto le conseguenze di questo tragico errore si manifestano in tutta evidenza, con i provvedimenti presi dalla direzione nazionale: secondo Buonavita, Pelli e Ognibene, troppo compromessi, vengono trasferiti a Milano e al loro posto vengono mandati in Veneto lo stesso

385 TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Verbale di interrogatorio reso da Alfredo Bonavita al PR Pietro Calogero il

14.05.1985.

386 TPPd, b. 140/87, Curcio e altri, Sentenza ordinanza del Giudice Istruttore 316/86 AGI

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Buonavita e Semeria per tentare di dare vita a questa colonna che non era ancora formalmente nata388. Ma questo provvedimento non porta alla creazione di una struttura compiuta ed efficiente dell’organizzazione: dovranno passare sei anni dall’azione di via Zabardella prima che le Br riescano a portare a segno una nuova azione di rilievo in questo territorio, lungo tutta la seconda fase di vita delle Brigate rosse, quella che potremmo definire dell’attacco al cuore dello stato, la colonna veneta sopravvive in una sorta di congelamento per riattivarsi solo nel 1980 ovvero nell’ultimo biennio di vita di un’organizzazione ormai divisa e finita.

Questo primo tentativo, con il suo tragico e disastroso finale, costituisce un palese fallimento dell’organizzazione, dovuto, si ipotizza, alle difficoltà ambientali che si oppongono all’ipotesi dell’impianto di una colonna brigatista e che sono soprattutto due: la prima è la mancanza di una grande città che per la sua propria struttura consente un mimetismo e un anonimato che sono assenti in un territorio come quello veneto, la seconda è la massiccia presenza di Autonomia operaia e il suo rapporto con i brigatisti che ne condiziona i comportamenti, suggerendo un minore rispetto della clandestinità e delle sue regole proprio per poter coltivare queste relazioni di militanza e di amicizia con persone esterne ma essi vicine; potremmo insomma dire che i brigatisti veneti si trovano a vivere una condizione di minore solitudine umana e politica rispetto a quelli che operano in altre realtà, ma che questa situazione, paradossalmente, ma anche logicamente se si pensa alla strategia e alla tattica di lotta delle Br, non costituisce un vantaggio, ma un limite e un rischio per la loro attività. È interessante notare, a questo proposito, che quando giungono in Veneto i clandestini per organizzare la colonna, essi, tra le altre misure di sicurezza e di compartimentazione che tentano di applicare, chiedono agli aspiranti brigatisti che sono impegnati in relazioni sentimentali con partner esterni all’organizzazione, di rompere questi legami e interrompere le convivenze; questa prassi, indubbiamente dura, ma che costituisce un’elementare ovvia precauzione nel momento in cui si sceglie una strada come quella della clandestinità e della lotta armata, provoca in questo contesto reazioni di ribellione e provoca l’allontanamento di alcuni militanti. Anche questo atteggiamento fa pensare all’influenza di Autonomia: anche chi si avvicina alla lotta armata, in Veneto, sembra avere in mente, spesso, il modello di militanza degli autonomi, che mantengono la propria vita inalterata, agendo scopertamente e non operando in clandestinità. La struttura brigatista classica, con le sue regole rigide, le sue scelte laceranti, la sua organizzazione ferrea stenta

decisamente ad attecchire in questo territorio.