2. Laboratorio della violenza politica.
2.2. Da Potere operaio all’Autonomia.
Su «Il Potere Operaio» del giugno del 1971 si legge: “c’è nell’esperienza comunista tutto un ventaglio di esperienze che riguardano l’esercizio della violenza per i fini più diversi: autodifesa, espropriazione, protezione interna, esercizio della giustizia proletaria come aspetto del potere operaio, danneggiamento materiale dell’organizzazione produttiva e sociale del padrone. Questo terreno compete interamente al partito, su queste cose è il partito che si muove, anticipando, forzando spesso i livelli a cui il movimento nel suo complesso è arrivato. Affiancare alla pratica della violenza di massa la pratica di una violenza preordinata e d’avanguardia, significa passare ad un comportamento da partito”318.
Il problema della violenza, della sua legittimità, dei modi e delle forme in cui praticarla è uno dei temi principali del dibattito che si svolge in seno alla sinistra radicale nei primi anni Settanta, si tratta di un problema ineludibile per due ragioni: la prima è la minaccia neofascista e reazionaria che ha il suo più vistoso epifenomeno nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ma che costituisce, nella percezione dei militanti di sinistra, una presenza costante, a tratti sovrastimata, spesso utilizzata come alibi, ma non certamente immaginaria; la seconda è l’orizzonte
rivoluzionario che i gruppi della sinistra radicale si pongono e che, in quanto tale, non può non comportare, l’ipotesi dell’uso della forza.
Si tratta di un dibattito che vede scontrarsi posizioni diverse e, all’interno di Potere operaio, prevalere la componente che considera necessario il ricorso alla violenza come strumento di lotta politica, come si vede anche dal brano qui citato. La possibilità della violenza porta con sé ulteriori questioni controverse, tra cui le principali sono la possibilità del suo uso offensivo oltre che
difensivo, l’opportunità del suo utilizzo da parte delle masse o di avanguardie, la necessità di organizzarla o viceversa di esercitarla spontaneamente.
Le ultime due questioni sono sovente intrecciate, come, per esempio, nel brano citato che propone un affiancamento alla violenza di massa di una violenza di avanguardia coordinandole attraverso la costituzione di un partito. L’idea della costruzione di un partito armato, con il compito di dirigere e gestire la violenza di massa, domina la riflessione interna a Potere operaio e ci conduce direttamente
317 TPPD, Sentenza ordinanza n. 85/81 AG contro Fioravanti Valerio e altri, 23.02.1982. 318 «Il Potere operaio» n. 40-41 del 26.5-12.6.1971
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al nodo più problematico da affrontare nel tentativo di definire la natura di questo gruppo; una problematicità dovuta non solo all’ambiguità con cui esso si è autorappresentato, alla difficoltà di orientarsi nella copiosa documentazione da esso prodotta e nella ingente mole di deposizioni e ricostruzioni giudiziarie contradditorie, ma anche alla stratificazione di interpretazioni contrastanti e inconciliabili.
L’interpretazione di situazioni, scritti e azioni che a prima vista e con la sensibilità di oggi appare inequivocabile, sovente rimanda a situazioni assai meno lineari di quello che possono apparire; un esempio è dato dal congresso di Roma di Potere operaio, in cui si discute apertamente di lotta armata, di militarizzazione, di insurrezione, di avanguardie che devono rompere gli indugi, però quando uno dei convenuti, Francesco Pardi, detto Pancho, ipotizza la scelta della clandestinità le reazioni devono essere state poco entusiaste a giudicare dalla risposta di Piperno: “…compagni a me fa meraviglia che a un congresso di Potere operaio quando si parla in maniera infelice di clandestinità la sala sia attraversata da un brivido. Io credo che questi, compagni, siano dei detriti, delle tracce di una morale sindacalistica e non di una morale da rivoluzionari”319 Questo episodio suggerisce uno scenario di notevole complessità in cui le posizioni rispetto alla violenza e
all’illegalità sono assai sfumate: in primo luogo è evidente che mentre l’ipotesi dell’adozione di pratiche violente e illegali è largamente accettata dai militanti, quella della clandestinità appare come qualcosa di disturbante almeno dalla reazione riportata da Piperno; in secondo luogo le parole di Piperno ci dicono anche che una parte della dirigenza si dimostrava non solo disponibile al passaggio alla clandestinità, ma addirittura considera questa disponibilità come un segno di maturità politica e quindi un requisito fondamentale per potersi dire membri del gruppo; questa componente, nel corso dello stesso convegno, dà vita a una sorta di struttura segreta interna all’organizzazione ma sconosciuta ai militanti chiamata Lavoro illegale che ha lo scopo di assolvere a compiti di organizzazione e coordinamento delle azioni violente, il cui carattere di massa viene quindi ridimensionato dall’essere in qualche modo gestite da un ristretto gruppo dirigente. I modi e la qualità della violenza che Potere operaio dovrebbe esprimere, la strategia di lotta, gli obiettivi sono tutti nodi su cui ben presto avverrà lo strappo tra due diverse fazioni del gruppo. Prima ancora di Potere operaio, tramonta, nel dicembre del 1971 Lavoro illegale e dalle sue ceneri nascono due sottogruppi “militari” che prefigurano la divisione politica che si consumerà a Rosolina: il Faro di Pieperno e Morucci radicato a Roma e Centro Nord di Negri che ha base a Padova e a Milano.
319 Requisitoria del PM Pietro Calogero nel procedimento penale contro Alisa Del Re e altri in Commissione
parlamentare di inchiesta sulla strage di via Fani sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, doc XXIII, n. 5, vol. 80, documenti allegati, p. 199.
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L’attività di Potere operaio consiste in una abbondante elaborazione teorica, dai toni e contenuti estremisti, nell’intervento nelle diverse realtà sociali e lavorative, promuovendo o inserendosi nelle lotte e mobilitazioni nel tentativo di indirizzarle verso sbocchi insurrezionali, nell’allestire in
Svizzera una struttura di supporto logistico per i militanti latitanti e nell’istituire rapporti di dialogo, collaborazione e scambio di favori con gli altri gruppi armati presenti sul territorio. La presenza di Toni Negri e del gruppo di militanti riunito intorno a lui (Alisia Del Re, Luciano Ferrari Bravo, Silvana Merelli, Egidio Monferdin, Emilio Vesce, per citare alcuni nomi) fa del Veneto, e in particolare di Padova, uno dei luoghi in cui la presenza Potere operaio è più vivace e diffusa, tanto che nel giugno del 1983 sarà proprio questa città la sede del congresso nazionale del gruppo, organizzato da Lauro Zagato. Rispetto a Potere operaio del Centro-sud, quello negriano-veneto privilegia l’azione di massa nelle fabbriche piuttosto che le azioni di avanguardia; qui è il comitato politico di Padova a dare le direttive di lotta ai vari organismo di fabbrica; per rendere la lotta in meno settaria e più di massa, le assemblee vengono gradualmente trasformate in comitati. Centro principale del gruppo è la facoltà patavina di Scienze politiche che si configura non solo come un centro di riflessione e produzione intellettuale e di attivismo politico, ma anche uno di quegli spazi che venivano definiti dai militanti “di esercizio del contropotere”, ovvero dominati dalla presenza degli aderenti del gruppo che ne mantenevano il controllo e l’egemonia attraverso intimidazioni, scontri con gli oppositori, azioni punitive, difensive e offensive che diventeranno via via sempre più violente. Alcune frange del gruppo ventilano l’ipotesi di un passaggio a forme di lotta armata vera e propria: si procurano armi, materiali per la falsificazione di documenti,
effettuano esercitazioni militari, fino a giungere, caso unico nel panorama nazionale, a dare vita a una formazione che comprende anche militanti delle Br. Si tratta della Brigata Erminio Ferretto, di cui si parlerà più avanti, che avrà vita breve e stentata, ma che appare significativa proprio per la sua unicità. A questo punto però anche la parabola di Potere operaio volge al termine, aprendo la strada a nuove e più aggressive formazioni estremiste: con il congresso di Rosolina del 1973, si consuma la crisi definitiva con la conseguente scissione tra la corrente di Scalzone e Piperno e quella di Negri. Sono diversi i motivi di divisione, ma il punto dirimente è la diversificazione di posizioni tra Negri da un lato e Piperno e Scalzone dall’altro rispetto al problema della forma che dovrebbe assumere il gruppo: le due fazioni abbracciano due ipotesi alternative, ovvero seguire la via spontaneista del movimentismo, il primo, e strutturarsi come un partito, i secondi. Questa differenziazione era già emersa l’anno precedente nel convegno di Campo Bisanzio, a Firenze; ma a Rosolina, nel clima di tensione determinato da diversi fattori, non ultimi l’evidenza del fallimento del progetto politico e militare di guida e indirizzo del movimento e le lacerazioni prodotte dalla tragedia provocata a Primavalle, a Roma, da militanti del gruppo, la frattura si rivela insanabile e
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porta alla rottura definitiva, alla fine del gruppo unitario di Potere operaio e alla nascita di diversi soggetti facenti capo ai diversi leader.
Secondo la testimonianza di Antonio Temil, il seminario di fondazione dell’Autonomia Operaia Organizzata viene organizzato proprio presso l’Università di Padova, forse nel luglio del 1973: in quella circostanza viene affrontato il tema della lotta armata e della sua necessità rispetto ad un progetto insurrezionale, delle sue modalità, della compartimentazione, ma non si ipotizzano attentati; in questa stessa occasione viene predisposta un’organizzazione strutturata i cui principali organismi sono: l’Assemblea autonoma della Alfa Romeo di Arese, Assemblea Autonoma di Porto Marghera, vari organismi milanesi e padovani320. Secondo la sentenza della Corte d’Assise di Padova, l’Autonomia Operaia Organizzata “riesce a collegare e a proiettare in un quadro strategico unitario organismi autonomi di fabbrica, di scuola e di territorio costituiti e operanti in diverse regioni della penisola […] La realtà che prende vita da questa nuova esperienza è un’organizzazione che […] tende […] attraverso un processo di graduale omogeneizzazione (centralizzazione),
compatibile con le peculiarità di ognuno, a dirigerli e a disciplinarli in modo unitario nella comune prospettiva della guerra civile di lunga durata”321.
Padova e il suo circondario diventa così, insieme a Milano, il centro propulsore dell’Autonomia operaia nella versione negriana che presenta una triplice faccia: la mobilitazione politica, l’attività violenta e illegale di massa e l’azione clandestina e criminale; non tutte le tre componenti
riguardano tutti i militanti, naturalmente, in particolare l’ultima riguarda frange minoritarie ed estremiste. Mentre fioriscono i comitati di fabbrica, i collettivi e le assemblee autonome nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, si moltiplicano gli agiti violenti, intimidatori, illegali, eversivi e teppistici: dai furti nei supermercati agli scontri violenti durante le manifestazioni, dalle notti dei fuochi alle spedizioni punitive contro militanti neofascisti, dalle autoriduzioni alle azioni di intimidazione i professori e studenti nelle università. Un ruolo importante nella predisposizione di una rete logistica efficiente per l’organizzazione è giocato dalla ditta Elsist che, costituita nell’aprile del 1973 da Antonio Temil, Antonio Ferrari e altri militanti di Potop, ufficialmente si occupa della vendita di apparecchiature elettroniche per spettacoli, ma che parallelamente si incarica di fornire apparecchiature elettroniche all’organizzazione che possano servire all’attività politico-militari. Vi è un aspetto che potremmo definire tipico di Potere operaio prima e dell’Autonomia padovana, poi, perché non rintracciabile in altre organizzazioni ed è l’utilizzazione di una sorta di personale specializzato, afferente alla malavita, per la realizzazione di rapine e altre attività criminali di
320TPPd, Procedimento 10735/92, Dichiarazioni rese da Antonio Temil al PM Pietro Calogero presso la Caserma CC
Ponte di Brenta, 25-26 settembre 1982.
321Sentenza della Corte d’Assise di Padova citata in A. Naccarato, Violenza, eversione e terrorismo del partito armato a
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autofinanziamento; un sistema che porta alla prevedibile conseguenza di una degenerazione
delinquenziale, il cui esempio più lampante e odioso è costituito dal caso di Carlo Saronio, militante della stessa organizzazione autonoma; rapito a fini di estorsione da Carlo Casirati, autore di
numerosi colpi per conto di Potere operaio, e sempre da lui ucciso per un errore nel dosaggio del narcotizzante322. Non tutte le azioni di autofinanziamento vengono delegate alla manovalanza malavitosa, talvolta sono gli stessi militanti a compiere furti e rapine; quando una di queste, ad Argelato, finisce in tragedia con l’uccisione del brigadiere Andrea Lombardini, sarà la rete facente capo a i vertici di Potere operaio a coprire e sostenere la fuga e la latitanza dei colpevoli che sono riusciti a fuggire, mentre Bruno Valli, catturato, si suiciderà poi in carcere dopo l’arresto.
La difficoltà di definire in qualche modo il contenuto della definizione “Autonomia operaia” è determinata dalle diverse e contradditorie componenti che in essa sono comprese: dai collettivi femministi alle formazioni terroriste, dai seminari accademici sui testi sacri del marxismo ad atti di vandalismo e piccoli furti, dalle lotte in fabbrica alle rapine in banca, la galassia autonoma si presenta come un territorio di cui non è agevole disegnare la mappa. Restando alla versione veneto- negriana, per la quale sarebbe più corretto parlare di Autonomia Operaia Organizzata (AOO), si tratta di un gruppo non molto vasto numericamente, ma che incide profondamente nel territorio in cui opera. Qualche dato permette di quantificare il livello di impatto di questa organizzazione sul territorio a partire dal numero di persone coinvolte che si possono quantificare in qualche centinaia: nel 1977, solo in Padova, gli aderenti ai collettivi sono circa 500 e il giornale «Autonomia» ha una tiratura di circa 5000 copie a numero 323, mentre nel 1979, secondo il Prefetto, sono circa 500 nella provincia e 300 nel capoluogo324.
Sebbene AOO poggi su un progetto eversivo e violento, esso non sembra essere totalmente condiviso e neppure compiutamente conosciuto da tutti i militanti. La sua attività, infatti, si compone anche di azioni antagoniste non violente e condotte alla luce del sole, come la partecipazione e l’indirizzo delle lotte operaie e, in generale, dei lavoratori e degli studenti. Particolarmente difficile da definire è la posizione dei principali mezzi di informazione e di
propaganda dell’Autonomia padovana: l’emittente radiofonica Radio Sherwood e le riviste «Rosso» e «Autonomia» sono canali di comunicazione pubblica, dai toni e contenuti radicali ed estremisti, ma che svolgono un’attività pubblica e legale. Tuttavia diversi testimoni hanno sostenuto che avessero anche un ruolo di coordinamento, di copertura o di cerniera rispetto ai collettivi armati,
322 Sul caso Saronio cfr. TPPd, Procedimento 10735/92, Interrogatorio dell’imputato Carlo Casirati reso al PR di Milano
Spataro presso la Casa circondariale di Brescia, il 04.01.80 e TPPd, Procedimento 10735/92, Interrogatorio di Carlo Fioroni presso la Casa circondariale di Matera avanti al GI Francesco Amato e del PG Domenico Sica, 09.12.1979.
323 M. Tari, Fuochi di Autonomia a nordest, in S. Bianchi, L. Carminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie,
DeriveApprodi, Roma, 2008, p. 252.
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sebbene la circostanza non abbia trovato riscontri positivi in sede processuale. Per esempio, Il pentito Savasta afferma che la redazione di «Autonomia» fosse l’organo dirigente dei Collettivi veneti e del loro livello militare e illegale325; Mario Ferrandi, ex autonomo, sostiene che “la struttura di Rosso è sempre stata una struttura tradizionale congegnata per muoversi
contemporaneamente nella illegalità da un lato ed in ambiti pubblici e legali dall’altro”; secondo Vittorio Olivero presso Radio Sherwood si era costituito un comitato di coordinamento “militare”
dei gruppi autonomi che doveva “coordinare l’attività di violenza diffusa praticata dai vari gruppi con sigle di comodo”326; questa ipotesi è stata poi negata dalla magistratura che ha assolto il direttore Emilio Vesce e gli altri responsabili dell’emittente che avevano subito una lunga
carcerazione preventiva per le gravi accuse ricevute.327. Radio Sherwood nasce, in realtà, nel 1976 come uno spazio condiviso da tutte le anime della sinistra antagonista, ma viene rapidamente egemonizzata dai Collettivi e dal ‘77 ne diviene sostanzialmente l’organo informativo, ospitando nei propri locali anche la redazione delle riviste del gruppo, fino a divenire una loro proprietà, sancendo una situazione di fatto.
In conclusione si propongono tre descrizioni dell’Autonomia che nella loro radicale difformità mostrano l’estrema sfaccettatura e complessità del fenomeno.
Secondo Angelo Ventura, nelle aule dell’Ateneo patavino “imperversavano la violenza squadristica, le agitazioni e le contestazioni degli estremisti organizzati”328 e la produzione teorica dei “cattivi
maestri” padovani non è classificabile come meramente accademica, trattandosi, viceversa, di “documenti di partito, di direttive politiche organizzative e operative – certo inserite in un preciso contesto ideologico – volte a sviluppare un’organizzazione politico-militare articolata in diversi livelli, avente lo scopo di attuare una strategia insurrezionale nella forma della guerra civile di lunga durata. Documenti e direttive che trovano una geometrica corrispondenza nello sviluppo del
terrorismo e della violenza squadristica organizzata”329.
Viceversa dalle parole di Paolo Pozzi, autonomo, redattore di «Rosso», arrestato nell’ambito
dell’inchiesta del 7 aprile, sebbene non manchino elementi di autocritica, soprattutto riguardo al velleitarismo e alla mancanza di progettualità del movimento, esce il quadro di un movimento generoso, capace di sprigionare grandi energie e, soprattutto, di promuovere una vera rivoluzione esistenziale.
325 TPVe, Busta C, fascicolo Cerica, Dichiarazioni rese da Savasta al PM Calogero nell’interrogatorio del 06.02.1982. 326 TPVe, Busta P, fascicolo Autonomia, Dichiarazione riportata nella relazione di servizio del vicequestore di Venezia
Impallomeni al Dirigente della DIGOS di Mestre, 10.02.1982.
327 Deposizione citata in A. Naccarato, Violenze, eversione e terrorismo, op. cit., p. 70. 328 A. Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, op. cit., p. XXVII
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“C’era una cosa soprattutto, buona ed eccezionale, in questo movimento: per la prima volta è stato posto il problema di che cosa fosse vivere in modo diverso da un sistema tradizionale; per la prima volta è stato posto il problema che non si poteva aspettare i ‘due tempi’, come nella tradizione comunista classica: prima si fa la rivoluzione poi si pensa al rapporto uomo-donna, alla famiglia, eccetera. Per questo molto spesso i comunisti, eversori dal punto di vista politico, erano i più di destra, tra virgolette, nella gestione dei rapporti umani: il comunista classico era grigio, era il comunista della III Internazionale. Il movimento del ’77 ha dimostrato che non era poi così impossibile riuscire a fare alcune cose. Di certo la difficoltà è stata nell’assicurare la continuità, e non solo non ci siamo riusciti ma con le nostre azioni abbiamo scatenato, come ‘risposta’ da parte dello Stato, la repressione totale. Quel che non capimmo allora o che capimmo in ritardo, fu che non si sarebbe mai arrivati da nessuna parte continuando a protrarre i sabati pomeriggio nel centro di Milano a fare appropriazioni e autoriduzioni. Non ci siamo mai chiesti: e dopo? Pensavamo semplicemente che dovesse nascere e seguirci un movimento spontaneo; eravamo moltissimi, è vero, ma credevamo di essere molti di più, addirittura la maggioranza del Paese, ed è evidente che non lo eravamo; pensavamo che la rivoluzione dovesse avvenire con un processo di cumulazione, tanti supermercati espropriati, tanti concerti sfondati, tanti biglietti non pagati, fino a un
sommovimento generale totale; e quindi, ogni problema era rimandato al dopo. Questa era l’Autonomia, e proprio la diffusione capillare e orizzontale, non strutturata, l’essere un enorme calderone in cui ribolliva qualsiasi cosa che fosse anti-Stato, anti-padroni, anti-sistema, fu il suo stesso limite. Era un movimento sovversivo, nel senso che voleva sovvertire ogni cosa, rovesciare qualsiasi rapporto sociale, anche personale – uomo/donna, famiglia tradizionale – e, molto
probabilmente, ha sovvertito anche troppo fino a sovvertire sè stesso330.
Infine Giorgio Bocca scrive parole che non insistono sull’aspetto criminale, ma tratteggiano comunque un ritratto desolante e cupo che, nella sua forse eccessiva malevolenza, ha il pregio di metter a fuoco con spietata esattezza alcuni tratti sociologici del fenomeno, parlando di “una confederazione rissosa di arrabbiati e di emarginati, di intellettuali in cerca di potere, di ultimo operaismo e anche di “oscura canaglia””331.
Evidentemente queste tre descrizioni appaiono inconciliabili tra loro, eppure tutte paiono utili a delineare un quadro realistico di un fenomeno di cui è impossibile, alla luce delle risultanze emerse in sede processuale, ignorare la componente violenta e criminale; che presenta sicuramente i tratti di un ribellismo confuso, velleitario e inutilmente aggressivo; che conta tra i suoi militanti non pochi
330 P. Pozzi, La sovversione del ’77: l’Autonomia operaia, in «Paginauno» n.16, febbraio-marzo 2010 nella versione
web alla url: http://www.rivistapaginauno.it/Autonomia-operaia.php.
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personaggi ambigui; ma che al contempo si fa anche, pur in modo contradditorio e sgangherato,