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4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna

4.8. La campagna contro le forze dell’ordine

La parola d’ordine secondo cui bisogna “colpire il braccio armato della controrivoluzione” viene lanciata nel 1978, nel contesto del più generale attacco al cuore dello Stato. Le Brigate Rosse effettuano un’analisi politico- militare della situazione in corso, secondo la quale lo scontro deve generalizzarsi e gli attacchi devono essere tesi a disarticolare l’apparato statale in tutte le sue manifestazioni. Inoltre, giudicando di essere entrati in questa sorta di fase finale, di “guerra civile dispiegata”, è necessario attaccare ed annientare le forze militari avversarie. L’eliminazione fisica dei rappresentanti delle forze dell’ordine non è più, quindi, un effetto collaterale di altre azioni, né una conseguenza di conflitti a fuoco prevedibili, ma non cercati, è invece il frutto di una precisa volontà, di un disegno preciso: carabinieri e poliziotti vanno intercettati e uccisi in quanto sono l’obiettivo di azioni omicide pianificate, come lo sono stati, ad esempio, i dirigenti di industria rispetto ai ferimenti. A Genova la campagna si concretizza, tralasciando il caso in parte diverso dell’omicidio Esposito, in due agguati mortali contro quattro esponenti dell’Arma, effettuati tra il novembre del 1979 e il gennaio del 1980.

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Il 1979 è un anno denso di avvenimenti per la città e le Brigate Rosse sono in pieno fermento: oltre alle consuete attività di volantinaggio, reclutamento e incendi d’auto, svolgono un’intensa campagna di respiro locale contro la Democrazia Cristiana in cui si inseriscono quattro ferimenti di esponenti di questo partito e l’aggressione a Rosella Sborgi, consigliera comunale democristiana.

Sempre nell’ambito di questa campagna, ma anche in quello della battaglia contro la ristrutturazione va inquadrato l’assalto militare contro la Finligure che ha luogo il 14 giugno. La Finanziaria ligure, costituita nel 1968, è l’unica che operi in ambito regionale e abbia partecipazioni in numerose aziende importanti; è costituita per il 48% di capitale pubblico, per il 40% a sottoscrizione bancarie e per il resto privata. Su un muro degli uffici, durante l’incursione, i brigatisti hanno scritto: “Individuare e distruggere i centri di ristrutturazione”, quindi sembra che la finanziaria sia stata colpita perché, secondo le Brigate Rosse, finanziava la ristrutturazione modernista e tecnocratica delle aziende genovesi. Ma quest’operazione è da collegare anch’essa alla violenta campagna genovese del 1979 contro la DC: la Finligure è considerata una società dominata dal partito cattolico, presieduta infatti da Giancarlo Piombino, ex sindaco di Genova ed ex segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Dal punto di vista militare, si tratta di un’azione molto rapida ed efficace: il nucleo operativo è costituito da Carlo Bozzo, Riccardo Dura, Fulvia Miglietta, Giuliano Marzocchi, Gregorio Scarfò (i quali irrompono nella sede della Finligure), Pietro Panciarelli, Francesco Lo Bianco, Livio Baistrocchi e Lorenzo Carpi (che vigilano all’esterno). Alle sei e quaranta del pomeriggio, una ragazza entra negli uffici della finanziaria, siti nel centro commerciale della città, dietro di lei sopraggiungono quattro uomini con le pistole in pugno; gli impiegati vengono radunati nel corridoio e viene loro domandato dove si trova il presidente, che non è in ufficio. Un brigatista sta di guardia alla porta, un altro controlla gli impiegati, mentre gli altri girano per gli uffici, si impossessano dei documenti dei presenti, di pratiche dell’ufficio, di titoli di credito per tredici milioni di lire, di moduli di assegno in bianco e tracciano scritte sui muri; poi il commando piazza tre ordigni esplosivi, intima agli impiegati di aspettare un minuto prima di dare l’allarme e si dà alla fuga. Gli impiegati obbediscono, gli ordigni non esplodono, perché difettosi. L’intera operazione dura dieci minuti, la polizia arriva subito, ma il commando si era già dileguato. Resta da chiedersi cosa sarebbe successo se Piombino si fosse trovato in ufficio, forse la conclusione poteva essere più cruenta, costituendo una replica dell’attentato al professor Peschiera.

Il 1979 è anche l’anno della prima ondata di arresti genovesi, dell’omicidio di Rossa e del suicidio di Berardi, un anno drammatico, iniziato con un omicidio che ha portato isolamento e condanne all’organizzazione è destinato a chiudersi tragicamente con un duplice omicidio che, oltre a suscitare l’indignazione generale, provocherà dissensi e riprovazioni nella stessa colonna.

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La prima azione della campagna a Genova, viene, come sempre discussa, coi vertici nazionali e collegata ad altre azioni da realizzarsi in altre città. Su questo punto c’è la testimonianza di Savasta. “Per quanto riguarda gli omicidi dei carabinieri di Genova posso dire questo. Partecipai con altri del Fronte Logistico alle riunioni di Recco in cui Dura ci prospettò il programma di un’azione di annientamento che la colonna genovese voleva realizzare contro i carabinieri di Sampierdarena. Quest’azione faceva parte di un programma operativo comprendente anche l’annientamento della scorta di Badd’e Carros, la bomba contro il blindato dei carabinieri a Torino, l’annientamento di una pattuglia a Milano e l’uccisione di due marescialli e di un agente di polizia a Roma.

In quelle riunioni furono approvate queste azioni.”221

In seguito il pentito nega che durante la riunione di Recco si sia parlato dell’omicidio dei carabinieri, confermando la versione di Peci afferma che si parlò solo del problema teorico del sabotaggio. È possibile che questa seconda versione sia dettata dalla preoccupazione di preservare qualcuno da un’eventuale incriminazione o che effettivamente Savasta si fosse confuso nella prima testimonianza; quello che è certo è che l’azione di Sampierdarena è solo una parte di un più esteso progetto che coinvolge tutta la nazione: la campagna contro le forze dell’ordine che prevede esplicitamente l’annientamento del nemico. Tuttavia, come si evince dal volantino di rivendicazione, vi è anche un legame con gli avvenimenti locali e in particolare col l’arresto e il suicidio in carcere del “postino” Berardi. Infatti, il comunicato, che definisce il comando dei carabinieri di Sampierdarena come “l’appendice repressiva di una delle strutture principali della controrivoluzione nelle metropoli”, si rivolge a “tutti coloro che hanno contribuito, a livelli diversi, all’annientamento fisico e morale del compagno Berardi,” minaccia che “se i carabinieri hanno cominciato a pagare il conto, altri, e in specifico i giudici, i killers della stampa, di qualunque etichetta, dovranno duramente pagare per il loro lurido operato” e assicura che “la nostra rappresaglia sarà durissima e implacabile”.222

Ma c’è di più. Il 9 novembre la colonna romana uccide un poliziotto, Michele Granato e nel volantino di rivendicazione si fa riferimento al suicidio di Berardi, definendolo un “omicidio premeditato” perpetrato dallo Stato e si lancia un appello alla colonna genovese, perché faccia vendetta. Il motivo che spinge a rivendicare questi omicidi nel nome dell’operaio suicida è chiaro; la vicenda di Berardi viene assunta come simbolo e manifesto di quella che secondo le Br è la situazione politica e militare: le forze dell’ordine sono un esercito di occupazione che sta attuando una strategia di annientamento nei confronti dei guerriglieri, il suicidio di Berardi è una conseguenza della vita nei “lager di stato” e quindi nel suo nome vengono rivendicate le prime operazioni di controffensiva militare; da questo

221TPGe, Sentenza della Corte d’Assise contro Azzolini e altri, 26.022.1983.

222ACS, Direttiva Renzi, PCM, Dis, 2113. Attentati contro persone o cose A, fasc. 16, volantino 21.11.79

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momento ci si considera in guerra. In questo modo, l’organizzazione inquadra l’episodio di Berardi nell’ambito delle lotte interne al sistema carcerario che, come vedremo, stanno assumendo crescente importanza per l’organizzazione, soprattutto in alcuni settori delle Br, forse anche nel tentativo di recuperare almeno in parte il fatale errore politico commesso con l’omicidio di Guido Rossa.

L’agguato avviene a Sampierdarena, un quartiere cerniera tra il centro e la periferia operaia e la scelta della caserma di quella zona non è casuale: furono i carabinieri di Sampierdarena ad arrestare e a interrogare Berardi, fu lì che si costituì, nel 1974, il nucleo iniziale di quelle che diventeranno le forze speciali del generale Dalla Chiesa, fu ancora a Sampierdarena che si costituì la trama del nucleo speciale che arrestò Curcio e Franceschini. Secondo la testimonianza di Gianni Cocconi, un ex brigatista genovese, rilasciata durante il processo di primo grado, il primo progetto consisteva in un attentato contro il colonnello dei carabinieri Sportiello, ma, a causa dell’incidente accaduto a Nicolotti, che sfuggì per un soffio all’arresto, l’azione venne sospesa e sostituita da quella a Sampierdarena. Il mancato attentato al colonnello Sportiello sarebbe stato assai simile a quello contro il dottor Esposito, una campagna contro le forze dell’ordine che colpisce personaggi in qualche modo rappresentativi o importanti di questi apparati. L’omicidio di Sampierdarena, invece, è il frutto di una ricerca di rimandi simbolici che riguarda il luogo e la caserma, ma che prescinde completamente dall’identità delle vittime, in una logica di guerra dispiegata.

In questo caso le vittime sono il maresciallo Vittorio Battaglini e il carabiniere Mario Tosa. Il primo, nato a Casola in provincia di Massa Carrara il 17 giugno 1935, ha quarantaquattro anni, è sposato e padre di due figli, ed è il responsabile del reparto radiomobile. Il secondo, nato a Genova il 26 luglio del 1953, ha ventisei anni e un diploma in lingue, dopo la leva, come carabiniere ausiliario, diventa effettivo per non restare disoccupato.

L’inchiesta viene svolta da Dura e dalla Maglietta; il piano originale prevedeva di sbarrare la strada alla gazzella con un’altra auto e di fare fuoco sui militari appena fossero scesi a terra; tuttavia i brigatisti non riuscirono mai a intercettare la pattuglia in dieci giorni di appostamenti, finché non li sorpresero nel bar la mattina del 21 novembre. Poco dopo le sette, i due carabinieri di pattuglia, Mario Tosa e Vittorio Battaglini, entrano in un bar vicino alla caserma, in via Monti a Sampierdarena. Il barista appoggia al banco le tazzine e si gira verso la macchina del caffè; in quel momento due uomini armati di pistole compaiono nel quadro della porta e sparano contro le vittime una serie di colpi a breve distanza e in rapida successione, seguiti dal colpo di grazia. Fuori dal bar altri due uomini coprono loro le spalle. L’azione dura pochi istanti, i carabinieri si accasciano al suolo, il barista è a terra dietro al bancone, mentre l’unica avventrice e testimone è sotto shock. I quattro si allontanano dopo essersi impossessati della mitraglietta che le vittime avevano lasciato sul sedile posteriore dell’auto. Quindi fuggono a bordo di una 128 rossa che, come sempre, verrà ritrovata dopo poche ore

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e risulterà rubata e contraffatta. A dare l’allarme è un avventore sopraggiunto nel bar; arrivano la polizia e l’ambulanza, ma per le vittime non c’è niente da fare.

Poco più tardi, intorno alle dieci, una telefonata alla redazione del Corriere Mercantile: “Qui colonna genovese Francesco Berardi. Pattugliando la zona di Sampierdarena ha intercettato, attaccato e annientato l’equipaggio di una gazzella dei carabinieri. Nei prossimi giorni avrete un nostro comunicato. Onore a tutti i caduti assassinati nei lager di Stato.”223

La reazione della città e del paese a questo nuovo attentato mortale è di condanna e di commosso dolore, le massime autorità dello Stato, dal Presidente della Repubblica Pertini al Presidente del Consiglio Cossiga esprimono, con accenti accorati, cordoglio per le vittime e rinnovano le assicurazioni di impegno nella lotta al terrorismo; i lavoratori genovesi apprendono la notizia, mentre sono riuniti in corteo per uno sciopero generale di rivendicazioni economiche e ai piedi del palco del comizio viene posto un cartello che recita: “I lavoratori sono contro la violenza. Solidarietà alle forze dell’ordine”224. Il comunicato diramato dal Consiglio di fabbrica dell’Italsider dichiara tra l’altro: “Il fatto che abbiano scelto il giorno dello sciopero generale, della vigilia di una grande manifestazione a sostegno del sindacato di polizia, dimostra ancora una volta che il terrorismo è contro gli operai”225. Sulla composizione del commando vi sono molte incertezze, dissipate poi quasi completamente durante le udienze del processo riguardante gli omicidi perpetrati a Genova; i dubbi erano causati dalle contraddizioni tra le deposizioni rilasciate dai vari pentiti durante l’istruttoria.

Secondo Bozzo: “L’inchiesta venne eseguita da Dura. L’azione si inseriva in una campagna contro i carabinieri decisa a livello nazionale. Il piano prevedeva il blocco dell’auto dei carabinieri con un’altra e il fatto che Norae Dura avrebbero sparato col mitra, uccidendo i militari. Dopo un primo sopralluogo, Nora addusse un’influenza diplomatica per cui venne sostituita da Lo Bianco. Questi due con Baistrocchi e Carpi dovevano costituire il nucleo e si recarono per dieci giorni a Sampierdarena senza mai riuscire a intercettare i carabinieri. Il decimo giorno videro i carabinieri nel bar. Baistrocchi si appostò sulla strada per assicurare la fuga, mentre Lo Bianco e Dura si introdussero nel bar e li uccisero. Poi, rubata la mitraglietta dall’auto dei carabinieri, fuggirono verso la macchina in cui Carpi li aspettava. Io e Porsia criticammo l’azione soprattutto perché i carabinieri non erano in servizio.” Secondo Cristiani, invece, Baistrocchi non partecipò all’azione, ma al suo posto c’era Panciarelli. Aggiunge “che quel giorno i carabinieri uscirono in anticipo dalla caserma, che il nucleo li attese per un po’ e poi si allontanò rinunciando all’azione. Transitando, però, per via Monti, videro

223Progetto memoria, La mappa perduta, Sensibili alle foglie, Roma, 1994, p. 432

224 Sulla reazione al duplice omicidio cfr. comunicazioni Prefettura a Ministero degli Interni in. ACS, MI, Gabinetto,

affari generali, ordine pubblico/incidenti, 1976/80 b. 28.

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l’auto parcheggiata davanti a un bar e decisero di intervenire.”226 Durante il dibattimento, però, Cristiani specifica che la presenza di Panciarelli era stata da lui dedotta, ma che non può esserne certo. Nella stessa circostanza, Miglietta indica Baistrocchi come quarto partecipante al delitto e dichiara fallito il progetto originario e l’omicidio nel bar il frutto di una decisione improvvisa; molto probabilmente, quindi, il commando è formato da Francesco Lo Bianco, Livio Baistrocchi, Riccardo Dura e Lorenzo Carpi nel ruolo di autista. Quello che non è certo è se il nucleo è composto da quattro o da cinque persone, cioè il gruppo di fuoco più l’autista in attesa, in quest’ultimo caso il quinto uomo potrebbe essere Panciarelli. Altra incertezza riguarda il ruolo dei vari membri, vale a dire chi ha il compito di sparare e chi di coprire le spalle ai killers.

Nella deposizione di Bozzo è contenuta una frase molto importante, quella che afferma che lui ed Enrico Porsia, militante irregolare, criticano l’azione. In effetti l’operazione spaccò in due la colonna e suscitò polemiche e aspre critiche. Bozzo pone l’accento su uno dei termini della disputa, ovvero la modalità dell’azione, particolarmente odiosa, perché le vittime erano inermi e voltate di spalle. Questo aspetto provocò dure contestazioni tra i militanti, ma ad esso se ne aggiunge uno più generale che riguarda lo stesso concetto di “guerra civile dispiegata” e di logica dell’annientamento che non era condiviso da tutta l’organizzazione.

L’agguato di Albaro.

Il duplice omicidio di Sampierdarena è l’ultima azione dell’anno per le Brigate Rosse genovesi, ma il 1980 si apre tragicamente con una nuova azione mortale contro l’Arma che avviene il giorno seguente il primo anniversario dell’assassinio di Guido Rossa.

Le vittime sono Emanuele Tuttobene, Antonio Casu e Luigi Raimundo. Il primo, nato a Valguarnera in provincia di Enna il 21 novembre 1926, sposato con due figli, è un tenente colonnello dei Carabinieri, già comandante della Compagnia centrale e adesso dell’ufficio Oaio (operazioni, addestramento, informazioni, ordinamento). Il secondo, nato a Mores in provincia di Sassari l’11 luglio 1930, anch’egli sposato e padre di due figli, è appuntato dei carabinieri, da venticinque anni presta servizio come autista militare. Il terzo è un colonnello dell’Esercito in servizio alla Legione dei carabinieri.

È possibile che le Brigate Rosse abbiano scelto un’alta carica dell’Arma per conferire all’azione un carattere più simbolico ed esemplare rispetto al recente attentato di Sampierdarena, ma le dichiarazioni dei pentiti sono concordi nell’affermare che la scelta delle vittime fu determinata da convenienze pratiche e che si trattò di una soluzione di ripiego rispetto a un obbiettivo originario difficilmente raggiungibile.

226Entrambe le testimonianze sono state rese durante l’istruttoria del processo, riguardante le uccisioni genovesi e

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Un altro dato che emerge con evidenza dalle testimonianze è il carattere improvvisato dell’operazione, organizzata in tutta fretta. Ricorda Bozzo che “la vittima venne scelta all’ultimo momento per la sua metodicità e non per le sue funzioni.” Afferma che l’inchiesta fu molto superficiale e che l’azione venne eseguita lo stesso giorno del primo sopralluogo.227 Aggiunge Savasta: “Fu una decisione improvvisa approvata, penso, dal Comitato Esecutivo. Quest’azione improvvisa e irregolare fu decisa per controbilanciare la sconfitta in Sardegna.”228 Importante infine la dichiarazione di Peci: “Ho saputo da Roberto di Genova quanto segue sull’omicidio Tuttobene. Le BR di Genova volevano colpire un capitano ma la cosa si rivelò difficile sia per le irregolarità di orario del soggetto, sia per il fatto che (volendo colpire quando andava a Messa, sempre alla stessa ora), c’era il rischio di coinvolgere anche la moglie. Un giorno, i genovesi avevano deciso di commettere l’omicidio all’uscita della Messa, ma poi ebbero l’impressione che il capitano si fosse accorto di qualcosa, perché teneva la mano all’interno della giacca come per impugnare l’arma. Allora decisero di studiare l’esecuzione dell’azione nei pressi della caserma. Qui notarono un colonnello con orari precisi per cui decisero di colpire lui. Era Tuttobene.”229

Il 25 gennaio, intorno all’una e un quarto, una 128 blu con a bordo il colonnello Raimundo, il Colonnello Tuttobene e l’appuntato Casu, sta transitando per via Riboli, una strada stretta e tranquilla nel quartiere residenziale di Albaro; è diretta verso l’abitazione del colonnello. In giro c’è molta gente, sono quasi tutti studenti che escono dalle scuole vicine; appoggiati a un muro due uomini con in mano sacchetti di plastica, aspettano. Come l’automobile li raggiunge i due si parano davanti e sparano due raffiche di proiettili con le loro pistole, nel frattempo i testimoni terrorizzati urlano e fuggono in tutte le direzioni. Terminata l’azione i due brigatisti fuggono a piedi verso un’auto che li aspetta da qualche parte e si rifugiano a casa di due irregolari. I due carabinieri sono in fin di vita, mentre il colonnello Raimundo, pur ferito gravemente, riesce a uscire dall’auto, raggiungere una vicina portineria e telefonare alla moglie. I soccorsi arrivano presto, ma sono inutili per Tuttobene e Casu, mentre Raimundo perderà un occhio ma si salverà. L’auto è crivellata di colpi, se ne contano ventuno, mentre per terra vi sono trenta bossoli calibro nove lungo.

La dinamica dell’azione risulta chiara e non vi sono contraddizioni tra le testimonianze. Secondo Bozzo, “Un’inchiesta superficiale venne eseguita da Lo Bianco, Baistrocchi, Dura e Panciarelli. Al fatto parteciparono Dura, Baistrocchi, Lo Bianco e Carpi come autista. Il nucleo imboccò via Riboli e quando l’auto li raggiunse, Baistrocchi si girò e iniziò a sparare col mitra che però si inceppò, allora intervenne Lo Bianco che sparò tutto il suo caricatore, poi si avvicinò ai due carabinieri e sparò con

227TPG, Sentenza della Corte d’Assise di Genova del 26 febbraio 1983 contro Azzolini e altri. 228Ibidem

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la pistola. Mi fu detto che tentarono nel limite del possibile di non colpire Raimundo.” Svela inoltre che la mitraglietta usata è quella sottratta ai carabinieri di Sampierdarena.230 Miglietta conferma questa versione231, mentre Cristiani è meno preciso e nella sua versione le parti degli sparatori sono invertite, ma questo è l’unico particolare in cui non concordano: “Parteciparono in quattro: Baistrocchi, Lo Bianco come esecutori, Carpi come autista e un altro che non so indicare. Il primo a sparare fu Lo Bianco, ma il mitra gli si inceppa; interviene allora Baistrocchi col suo mitra, mentre Lo Bianco continua a sparare con la pistola.”232 Anche Roberto Raso e Tiziana Traverso, due