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4. La colonna genovese delle Brigate rosse 1.Nascita della colonna

4.9. Il blitz di via Fracchia

Via Fracchia è una stretta strada a forma di ferro di cavallo, con un piccolo giardino nel centro che si trova nel quartiere di Oregina, zona popolare, arrampicata su una delle tante alture che sovrastano Genova. Non è facile trovarla, stretta com’è in mezzo ai palazzi e al confine coi prati e i pascoli di Granarolo, con la montagna disabitata; proprio questa via anonima e defilata è il teatro di due episodi cruenti della storia della lotta armata genovese: l’uccisione di Guido Rossa e quella di quattro brigatisti.

Quando, dopo l’omicidio del sindacalista, le forze dell’ordine setacciarono minuziosamente il centro storico alla ricerca di indizi, nessuno poteva immaginare che una delle basi più importanti della città si trovasse a pochi metri dall’abitazione dell’ultima vittima, al numero dodici, interno uno della stessa via. Il ritrovamento di un pulmino, che si ipotizzò usato dai brigatisti per passare la notte, nei pressi del luogo dell’omicidio rafforzò l’idea della mancanza di un appoggio logistico nella zona. Solo Antonio Esposito, il capo dell’Antiterrorismo, si era convinto, circa due anni prima, che la presenza di una base nella zona di Oregina fosse indispensabile per l’organizzazione.

L’appartamento presenta le caratteristiche necessarie alla sua funzione: è collocato nel seminterrato ed è fornito di un cortile sul retro che consente una via di fuga, così come le finestre che guardano anch’esse sul retro, le spesse tende dietro ai vetri e alla porta d’ingresso a nascondere l’interno della casa; inoltre la posizione è perfetta. Il centro si raggiunge velocemente, così come le zone residenziali di Castelletto e Carignano, teatro di numerosi ferimenti; ma, nello stesso tempo, si tratta di una zona fuori mano e assolutamente anonima, che permette una fuga rapida verso le montagne e non ospita né un negozio, né un locale pubblico, rendendo così visibile la presenza di qualunque persona estranea al quartiere. Non viene scoperto anche perché intestato da anni alla famiglia Ludmann e sfuggiva così

234 Cfr. Comunicazione di Prefettura a Ministero degli Interni in. ACS, MI, Gabinetto, affari generali, ordine

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alle indagini catastali delle forze dell’ordine che controllavano gli alloggi comprati o presi in affitto in tempi recenti. Nell’ampio appartamento – centoventi metri quadrati suddivisi in sei vani - abitava stabilmente Anna Maria Ludmann, trentatré anni, la proprietaria, che fino al 1977 aveva diviso la casa con la madre, la quale in quell’anno trasloca a Chiavari. Pochi mesi dopo il trasferimento della signora Ludmann, l’abitazione si trasforma in una base delle Brigate Rosse. Fino ad allora la giovane non aveva svolto alcun tipo di attività politica, frequentava i gruppi dissidenti cattolici nella parrocchia di Oregina e lavorava come segretaria al Centro culturale italo-francese in cui aveva studiato. Questa vita è la stessa che la Ludmann conduce dopo essere diventata la custode dell’appartamento di via Fracchia, non suscitando così nessun sospetto. Anche all’interno delle stesse Brigate Rosse, non si ha notizia di azioni a cui essa abbia preso parte o di ruoli da lei rivestiti. Tutta la sua attività politica sembra essere consistita nel fornire all’organizzazione quell’appartamento e averlo abitato e condiviso coi brigatisti per circa due anni e mezzo.

L’appartamento costituisce, insieme a quella di via Zella, la più importante base dell’organizzazione genovese. Come riferirà in seguito Patrizio Peci ai giudici torinesi; in quella casa si era persino svolta, nel dicembre passato, una riunione della Direzione Strategica, ovvero la più alta autorità delle Brigate Rosse. Questo incontro vedeva riuniti i massimi dirigenti delle colonne romana, milanese, torinese, genovese e veneta, oltre a rappresentanti di due colonne in costruzione: quella napoletana e quella sarda. L’ordine del giorno consisteva nella discussione intorno alla famosa critica mossa dai capi storici ai vertici delle BR secondo la quale l’organizzazione non si curava dei militanti detenuti ed era diventata troppo verticistica, così da soffocare il dibattito interno.

Il 1980 è un anno cruciale, quello che determina la sconfitta delle Brigate Rosse, quello in cui molti dei misteri che avvolgevano l’organizzazione vengono svelati e in cui crolla il mito della sua invincibilità. È l’anno delle retate in cui cadono molti brigatisti, dei primi pentiti, della scoperta di basi e documenti importanti, degli arresti eccellenti. Tra questi ultimi c’è la cattura di Patrizio Peci, membro della colonna torinese e del fronte logistico nazionale, che per la sua qualifica di dirigente conosceva molte persone e fatti relativi all’intera organizzazione e di Rocco Micaletto, ex capo della colonna genovese. Peci decide presto di parlare e le sue dichiarazioni saranno alla base di importanti operazioni di polizia che porteranno a pesantissime e irreversibili sconfitte per le Brigate Rosse, tra cui l’irruzione in via Fracchia.

A Genova, l’anno delle Br era cominciato con l’agguato di Albaro in cui erano stati uccisi due carabinieri e ferito molto gravemente un ufficiale dell’Esercito; si trattava della seconda azione mortale in pochi mesi contro rappresentanti dell’Arma. Negli ultimi giorni prima del blitz la colonna era stata particolarmente attiva: il 24 marzo era stato perpetrato un ferimento ai danni di

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Giancarlo Moretti, esponente della Democrazia Cristiana, il 25 bruciata l’automobile di un dirigente dell’Ansaldo, il 27 diffusi volantini al porto.

L’opinione pubblica seguiva questi avvenimenti con apprensione, lo Stato, a Genova, appariva in difficoltà, ma nel frattempo le forze dell’ordine stavano indagando sulla base delle informazioni acquisite da Peci, la Ludmann era pedinata e la sua casa era controllata.

L’operazione scatta venerdì 28 marzo, contemporaneamente ad altri interventi dei nuclei speciali dei carabinieri a Torino e a Biella che portano a dodici arresti e due fermi. La notte tra il 27 e il 28 di marzo nell’appartamento sono presenti tre brigatisti, oltre alla Ludmann: Lorenzo Betassa e Pietro Panciarelli ex militanti della colonna torinese, secondo Peci allontanati perché identificati e da poco trasferiti a Genova e Riccardo Dura, il capo della colonna genovese.

Il 28 aprile, alle quattro e trentacinque del mattino, i carabinieri dei reparti speciali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fanno irruzione nell’appartamento di via Fracchia; al termine dell’azione tutti e quattro i brigatisti sono morti e un maresciallo, Rinaldo Donà, trentanove anni, è gravemente ferito e perderà un occhio235.

Poco dopo le tredici le Brigate Rosse telefonano alle redazioni de «Il Secolo XIX», minacciando una cruenta rappresaglia, che nella proporzione di morti annunciati, evoca sinistri ricordi: “Qui Brigate Rosse. I carabinieri hanno ammazzato quattro nostri compagni, ma non finirà così. Per ognuno di loro ammazzeremo dieci carabinieri.” Telefonate dello steso tenore si ripetono nei giorni successivi. È la prima volta che a Genova l’organizzazione subisce un colpo così duro, la prima volta che vengono uccisi dei brigatisti, che viene scoperta una base e che le forze dell’ordine si impossessano di tanto e tanto importante materiale. Sono necessari due furgoni per trasportare dall’appartamento alla caserma dei carabinieri tutto il materiale trovato: armi, munizioni, molto esplosivo al plastico, bandiere con il simbolo delle Br, documenti falsificati, attrezzi per la falsificazione di documenti e targhe, macchine da scrivere e ciclostili, raccolta di articoli relativi all’organizzazione, volantini di rivendicazione degli attentati genovesi, mappe e planimetrie di caserme, impianti e obiettivi militari. Ma il ritrovamento più clamoroso è quello dell’archivio contenete le schede delle inchieste delle Brigate Rosse riguardanti i possibili obiettivi di attentati o le persone già colpite. I fascicoli riguardanti le potenziali vittime, dettagliatissimi molto precisi, sono tenuti in costante aggiornamento, ogni cambiamento anche minimo dei movimenti quotidiani viene registrato; in essi sono annotati abitudini, indirizzi, numeri di targa delle auto usate, orari, zone preferenziali per un attentato e un curriculum vitae comprendente anche le motivazioni per cui la persona verrebbe colpita; i nomi delle

235 Per la ricostruzione dell’episodio si veda ACS, Direttiva Renzi, PCM, AISE, Serie Attività eversiva e violenta, fasc.

224, 1980-1982, Comunicazione del CS Genova al direttore della 1 divisione SISMI del 24.03.1980 e gli articoli sulla stampa locale.

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possibili vittime sono migliaia e per gli inquirenti si pone un interrogativo: informare o no gli interessati. Il timore, vista la quantità delle persone “schedate”, è quello di scatenare il panico, di far scattare un’emergenza ingestibile; d’altronde, una volta trapelata la notizia dell’esistenza dell’archivio, è molto difficile convincere l’opinione pubblica dell’opportunità di non avvisare gli interessati che, inoltre, potrebbero tutelarsi maggiormente. Dopo qualche giorno di polemica prevale il partito della trasparenza.

Nel corso della giornata i carabinieri effettuano una serie di perquisizioni e controlli in varie zone della città, mentre il centro storico viene perquisito a tappeto dagli agenti della Digos; tutte le vie di accesso al centro storico sono bloccate per molte ore e i passanti che devono uscirne vengono perquisiti e controllati. Il quartiere del Carmine, dove si trovava fino a circa un anno prima la sede di Autonomia, è fatto oggetto di un’operazione massiccia di polizia: circa duecento i poliziotti impiegati, centinaia di case perquisite, camionette di traverso per la strada, mitra spianati, porte sfondate, ma non viene effettuato alcun fermo o arresto. Secondo la Questura, questa operazione, scattata alle sette del mattino ad opera di agenti di Genova e di Alessandria, è indipendente da quella dei carabinieri, l’operazione della Digos prosegue il 29 marzo nella zona del porto, ma sempre senza esiti.

Nelle prime ore le sole identità accertate sono quelle di Anna Maria Ludmann e di Lorenzo Betassa, dopo tre giorni a questi si aggiunge il nome di Pietro Panciarelli, ma per nessuno c’è un riconoscimento ufficiale. Domenica 30 marzo le Brigate Rosse fanno ritrovare in via San Vincenzo il seguente comunicato, datato 29 marzo che recita: “Alle organizzazioni combattenti- al movimento rivoluzionario- a tutti i proletari. Venerdì 28 marzo a Genova, quattro compagni delle Br sono stati uccisi dai mercenari di Dalla Chiesa. Dopo aver combattuto e trovandosi nell’impossibilità di rompere l’accerchiamento, dopo essersi arresi, sono stati trucidati. Sono caduti sotto le raffiche di mitra della sbirraglia prezzolata di regime i compagni […] Imbracciare il fucile e combattere. Questi compagni erano consapevoli che, decidendo di combattere, avrebbero affrontato la furia omicida della borghesia e che avrebbero potuto essere uccisi. Ma la certezza che il combattere per la vita, per la libertà in una posizione di avanguardia, in prima fila, è un compito che i figli migliori e più consapevoli del popolo devono assumere su di sé per rompere gli argini da cui il movimento proletario spazzerà via la società voluta dai padroni. Per loro come per molti operai, la scelta è stata molto precisa: combattere e vincere con la possibilità di morire anziché subire e morire a poco a poco da fermi e da strumenti usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. Oggi, Roberto, Cecilia, Pasquale, Antonio sono caduti combattendo.[…]”236.

La sollecitudine con cui il documento è stato redatto e diffuso fa pensare a un preciso piano propagandistico delle Brigate Rosse, che in questo modo ostentano la loro intatta esistenza ed

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efficienza. Dal testo del volantino emerge con evidenza la volontà di presentare i morti di via Fracchia come combattenti caduti, come si evince dal ricorso insistito alla fraseologia di guerra (“rompere l’accerchiamento”, “combattere”, “imbracciare il fucile”, “sono caduti”); la descrizione del fatto in termini militari rappresenta la scena svoltasi nell’appartamento come una battaglia e l’uccisione dei brigatisti come l’esecuzione di militari arresi e disarmati dopo il combattimento, quindi come un crimine di guerra che non può non richiamare alla mente le efferate uccisioni di partigiani inermi ad opera delle forze nazifasciste: ancora una volta, seppure implicitamente, ci si richiama alla Resistenza, in particolare nella sua accezione di guerra di classe, in questo caso, per conferire legittimità morale al proprio operato.

Infine, il volantino fornisce importanti particolari sull’identità dei brigatisti uccisi e sul loro ruolo all’interno dell’organizzazione; ma benché ora si sappia che il quarto uomo ucciso era un importante dirigente, gli inquirenti non riescono a identificare l’ex marittimo Roberto. Il nome di Riccardo Dura non viene mai pronunciato, nonostante risultasse scomparso dal domicilio dal 1976 e la polizia avesse un intero fascicolo dedicato a lui, il mistero dell’identità del quarto morto resta tale fino a che, il 4 aprile, le Br saranno le stesse Br a rivelarlo. Una voce maschile telefona all’Ansa, rivela il nome e conclude con una minaccia: “Qui Brigate Rosse, colonna genovese Francesco Berardi. Riccardo Dura è il nome del compagno non ancora identificato. Sia chiaro a tutti, ai carabinieri in particolare, ai magistrati e ai giornalisti che pagheranno per la macabra e lurida messinscena di questi giorni. Niente resterà impunito.”237

Dopo la telefonata sono stati rintracciati diversi conoscenti di Dura che confermano che il giovane aveva un cuore sormontato dalla scritta “love” tatuato sul braccio e infine la madre, Celestina Di Leo, si presenta all’obitorio per la formale identificazione. Ma non si è trattata di una messinscena, come la definiscono i brigatisti: l’identità di uno dei più importanti membri della colonna era completamente sconosciuto agli inquirenti, segno evidente di quanto poco si sapesse fino a quel momento della struttura e dell’organico delle Br genovese; il mito dell’imprendibilità della colonna si spiega con questa vicenda che mostra che a Genova la compartimentazione era stata scrupolosamente rispettata, impedendo che al di fuori dell’organizzazione trapelassero notizie in grado di orientare le forze dell’ordine. Il rovescio della medaglia di questa impenetrabilità è ovviamente l’isolamento che emerge anch’esso con evidenza dopo il blitz, nella constatazione che un leader molto stimato e considerato dai propri compagni, risulta al di fuori dell’organizzazione un perfetto sconosciuto. Con il crollo della compartimentazione, dovuto alle confessioni di Peci, resta solo l’isolamento: via Fracchia segna l’inizio della fine sul piano militare per la colonna, mentre la fine politica è già realtà.

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Se in alcuni settori dell’opinione pubblica prevale la soddisfazione e il sollievo nel vedere intaccata l’imprendibile colonna cittadina, da più parti si guarda con preoccupazione a un’operazione dall’esito così cruento e la mancanza di notizie certe alimenta i sospetti più foschi. I giornalisti, i fotografi e persino i poliziotti sono tenuti lontani dall’appartamento, la magistratura attende con crescente nervosismo una relazione ufficiale sull’accaduto e dispone una perizia balistica. Col passare del tempo, la situazione si fa sempre più tesa, mentre la magistratura è palesemente tenuta all’oscuro e tra carabinieri e polizie aumentano i contrasti238; inoltre la Digos offre collaborazione ai militari che rifiutano, così le due indagini proseguono parallele e tra polemiche reciproche. Il gruppo radicale presenta un’interrogazione parlamentare al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Interni per sapere tra l’altro: come si è svolta l’operazione, quale sia il giudizio del Governo sulle modalità operative dell’irruzione e se il Governo non ritenga che questo tipo di strategie non siano estranee ai criteri di efficienza ed efficacia cui dovrebbe ispirarsi l’opera di prevenzione e repressione.

Il primo aprile, il Procuratore capo di Genova indice una conferenza stampa in cui comunica che alla Procura non è ancora giunto un rapporto sui fatti, mentre il materiale sequestrato nella base è sempre custodito nella caserma dei carabinieri; ancora quindi non ci sono risposte alle richieste di chiarimento riguardo alla dinamica dei fatti. Il 4 aprile la Procura riceve il rapporto dei carabinieri che, anziché fare luce sui molti aspetti oscuri, suscita nuovi interrogativi. Nella prima versione, un brevissimo comunicato ufficiale del comando generale dell’Arma diffuso il giorno stesso dell’azione, i carabinieri avevano affermato di aver bussato, essersi qualificati e aver ricevuto risposta; l’uomo che si presenta all’uscio chiude repentinamente col catenaccio la porta, appena compreso che si tratta di un intervento dei carabinieri e spara contro i militari dopo l’abbattimento della porta, ferendo il maresciallo Benà, a questo punto i carabinieri rispondono sparando contro tutti gli occupanti dell’appartamento, avendo notato che erano armati di tre pistole e una bomba a mano e temendo una reazione. Il rapporto divulgato dalla Procura è più circostanziato, ma ancora poco esauriente: dopo l’ingresso dei carabinieri, il brigatista avrebbe sparato, ferendo Benà, e i militari avrebbero risposto uccidendolo; poi il conflitto ha una pausa, come confermano tutti i vicini di casa che sentirono i rumori, durante il quale i carabinieri accendono una torcia per illuminare il corridoio, dove hanno già notato gli altri presenti avanzare carponi. A questo punto il rapporto parla di “una brusca reazione da parte dei tre”, senza specificare di che in cosa consista. Il 7 aprile il magistrato inquirente procede al primo sopralluogo nella casa di via Fracchia, in cui non è ancora potuto entrare nessuno, salvo i carabinieri del nucleo speciale; l’appartamento, finalmente aperto a magistratura e giornalisti, rivela

238 Interessante, in particolare, la posizione di Francesco Forleo, esponente di punta del movimento per la riforma e la

sindacalizzazione della polizia, che pur riconoscendo l’importanza della scoperta di una base così importanti, manifesta riserve sul modo di condurre l’operazione. Cfr. F. Forleo Gli anni di piombo a Genova. Due storie parallele, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere, A.A. 1997 – 1998, p. 150.

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particolari che non troveranno mai una spiegazione. Sul muro del pianerottolo accanto alla porta, a circa trenta centimetri da terra, vi sono quattro fori provocati dalla raffica di un mitra, ma nella ricostruzione ufficiale non si fa cenno ad una sparatoria sulle scale, di cui peraltro non parlano neppure i vicini; inoltre la porta non presenta alcun segno di forzatura.

Contro l’operazione di via Fracchia molte voci si levano indignate e preoccupate, temendo di veder degenerare la risposta repressiva in una spirale di violenza e di vendetta; è soprattutto la stampa a sottolineare incongruenze e zone d’ombra, mentre la sinistra radicale avanza apertamente l’ipotesi di un’esecuzione volontaria di brigatisti inermi per vendicare la morte dei carabinieri uccisi a Genova o, semplicemente, per esibire una prova di forza dello Stato contro i suoi nemici239. Molti anni dopo, nel 2014, «Il Corriere mercantile» pubblica lee fotografie scattate dai carabinieri subito dopo la sparatoria, sollevando nuovi dubbi sulla dinamica dei fatti.

D’altro canto, il Generale Dalla Chiesa in un’intervista dichiara che i morti di via Fracchia sono stati causati dalla reazione “non solo legittima, ma proporzionata all’offesa ricevuta” all’attacco dei brigatisti che per primi aprono il fuoco, colpendo il maresciallo Benà ad un occhio240. Si tratta di una versione molto stringata e semplice, ma che mette a fuoco un elemento che può essere molto importante, cioè il ferimento del maresciallo: in una situazione di pericolo e tensione come quella di un’irruzione in quella che si sapeva essere un’importante base di una delle colonne più agguerrite delle Br, il ferimento grave di uno dei membri del nucleo, può scatenare una reazione incontrollata; potrebbe essere questa la ragione della strage e la successiva reticenza degli uomini di Dalla Chiesa si spiegherebbe con la volontà di mettere più possibile in ombra un’operazione che, sebbene sia stata un successo, è stata però condotta, senza la necessaria freddezza e ha portato all’uccisione di quattro persone.

La reazione della città non si fa sentire, si ha un’impressione di grande stanchezza e sconcerto, sembra prevalere l’incapacità di esprimere una posizione politica in uno scenario sempre più assurdamente violento; non ci sono manifestazioni, proteste vistose e coordinate, le forze politiche e i movimenti per lo più tacciono, con alcune importanti eccezioni, come il sindaco Cerofolini che esprime rammarico per la conclusione cruenta, addebitandone però la responsabilità alla situazione creata dal