7. La colonna e la città 1.Il mito della Resistenza
1.1. La transizione dolce.
Il titolo di questo paragrafo riprende un’espressione di Emilio Franzina274utilizzata nell’introduzione al numero di «Venetica» dedicato alla storia del sindacato in Veneto nel Novecento, da Laura Cerasi che tratteggia in poche dense righe un efficace quadro della regione all’alba dell’industrializzazione:
“un Veneto rurale e insieme – anzi in forza di ciò – terza regione industriale, dove il controllo sociale proprietario e la garanzia ecclesiastica di comportamenti e identità non impediscono alla regione di essere teatro delle prime forme di manifestazioni rivendicative nelle campagne già negli ultimi decenni dell’Ottocento; dove la durezza delle condizioni di vita che alimenta la forte spinta migratoria si accompagna alla transizione dolce delle trasformazioni sociali verso il Veneto contemporaneo, dove la fabbrica diffusa dell’ampia fascia pedemontana si somma alla grande manifattura, da Schio a Valdagno alla straordinaria concentrazione industriale di Porto Marghera, costruita e alimentata dal lavoro del contadino-operaio, il metal mezzadro, convergente in bicicletta dall’entroterra”275.
Nonostante si tratti di un’importante regione industriale che, attraverso un modello originale e non privo di limiti, ha raggiunto un notevole sviluppo economico, il Veneto è stato a lungo studiato secondo le categorie del sottosviluppo e del ritardo economico e culturale, per via della persistenza di vaste zone di povertà e di arretratezza accanto a realtà assai dinamiche e prospere.
Si pensi che già all’inizio del Novecento il Veneto è la terza regione industriale d’Italia., sebbene gli stabilimenti siano concentrati in gran parte in un’unica zona compresa tra le Prealpi e la pianura che appartiene ad una fascia economica industrializzata unitaria che si estende dal Piemonte al Friuli: in particolare il Vicentino (Lanerossi, Marzotto, dalla fine dell’800) e Venezia (porto e complesso Marghera di Volpi)276.
Questa dicotomia tra zone arretrate e sviluppate si approfondisce nel corso della prima metà del XIX secolo; la storiografia ha individuato tre macro aree all’interno della regione differenti tra loro e sostanzialmente omogenee al loro interno dal punto di vista del comportamento elettorale e della
273 Intervista a Severino Galante in G. Palombarini, Il processo 7 aprile, op. cit., p. 92. 274 E. Franzina, La transizione dolce. Storie del Veneto tra ‘800 e ‘900, Cierre, Verona, 1990.
275 L. Cerasi, Cent’anni di sindacato nel Veneto. Lavora, lotta, organizzazione, in «Venetica»,13, 2006, p. 12
276 G. Roverato, La terza regione industriale, in S. Lanaro (a cura di), Il Veneto. Storia d’Italia: le regioni dall’Unità a
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composizione sociale, economica e culturale: la zona le aree montuose sono caratterizzate dalla produzione artigiana e dall’allevamento, dal corporativismo bianco, dalla piccolissima proprietà, dalla forte influenza dell’emigrazione e dalla diffusione, sul piano politico, del pensiero socialista riformatore; nella fascia collinare del medio Veneto, prevalgono l’azienda contadina e la mezzadria, le organizzazioni del movimento cattolico sono molto diffuse e qui nascono i primi poli industriali; la zona meridionale pianeggiante è una realtà di agricoltura arretrata, povertà, caratterizzata dalla grande proprietà fondiaria capitaliste coltivate soprattutto a cereali che comporta la presenza di un vasto proletariato che si riconosce principalmente nelle organizzazioni socialiste277.
Nonostante la crisi degli anni Trenta e il conseguente spopolamento, come si è visto, la zona pedemontana presenta già i prerequisiti del successivo sviluppo industriale: “attività proto-
industriali, una tradizione di sapere tecnico, risorse energetiche e materie prime, una forte vocazione allo scambio e la propensione al rischio”278. Nei primi decenni del Novecento, l’economia veneta continua a crescere e a vedere aumentare l’importanza del settore primario: seppure con grandi differenze tra le diverse zone e la persistenza di aree arretrate, l’incremento degli addetti di questo settore è, in questo periodo, più rapido rispetto alle regioni più industrializzate del paese279.
Con gli anni Sessanta si avvia il deciso salto in avanti del Veneto sulla via della modernizzazione e dell’industrializzazione; si tratta di una profonda trasformazione che farà scomparire rapidamente antichi mali regionali, come l’estrema povertà di alcune zone, l’emigrazione forzata, malattie endemiche e comporterà grandi sommovimenti in campo sociale e culturale, tra cui il più vistoso è forse il distacco di gran parte della società dal magistero e dal controllo della Chiesa cattolica sui propri costumi e stili di vita.
L’industrializzazione si accompagna a un marcato decentramento produttivo e funzionale, in parte eredità della storia economica e produttiva della regione, in parte volontà della classe dirigente repubblicana. Dalla metà degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta si afferma la specializzazione veneta in arredamento, tessili, calzature, meccanica strumentale e nella regione si stabilisce una delle maggiori concentrazioni di distretti industriali in Italia280. L’industrializzazione riguarda anche l’agricoltura che con la costante modernizzazione delle tecniche e degli impianti ne avrebbe
accresciuto la produttività, minimizzando gli addetti.
277 Cfr. A. Lazzarini, Contadini e agricoltura. L’inchiesta di Jacini nel Veneto, FrancoAngeli, Milano, 1982; I.
Diamanti e G. Riccamboni, La parabola del voto bianco. Elezioni e società in Veneto (1964-1992), Neri Pozza, Vicenza, 1992; M. Dissegna, Una riflessione sullo sviluppo economico veneto, in «Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento», n. 35/2009, pp. 345-
278 M. Dissegna, Una riflessione sullo sviluppo economico veneto, op. cit., p. 346.
279 Istituto Regionale per lo Sviluppo Economico e Sociale del Veneto, Le province venete nell’ultimo cinquantennio.
Profilo economico e sociale, Venezia, 1960, p. 18.
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Nasce così il cosiddetto modello veneto: un’economia che si trasforma per gradi da
prevalentemente agricola a industriale basandosi però su produzioni periferiche281, un modello che per molti fattori che lo contraddistinguono (flessibilità, lavoro nero, piccole fabbriche diffuse) non corrisponde alle caratteristiche dello sviluppo fordista; di qui l’originalità del percorso Veneto che è stata oggetto di interpretazioni diverse, più o meno articolate e complesse, oscillanti tra due visioni estreme e opposte: quella dell’incompiutezza, del mancato sviluppo che ha influenzato anche le visioni di cui si è detto all’inizio e quella del “miracolo” di uno sviluppo non traumatico e di una crescita stabile282.
L’industrializzazione di un’area depressa, com’era buona parte del Veneto, avviene col sostegno dello Stato, grazie alla Dc: si tratta di una modernizzazione tumultuosa e conflittuale fatta di grande industria pubblica e privata, media impresa leggera altamente specializzata, distretti industriali e le piccole imprese della fascia pedemontana cresciute nel secondo dopoguerra grazie agli incentivi per le aree depresse283. Con queste parole Toni Negri descrive questo passaggio cruciale: “Il Veneto contadino era sottosopra: le consuetudini arcaiche e le strutture sociali cattoliche, nel caos dei vecchi contratti agricoli che ancora pesavano sull’assetto produttivo, rendevano ancora più difficile sciogliere i nodi di tradizione e sviluppo, di una storia di miserie e di una confusa idea di
trasformazione sociale"284. Negli anni Cinquanta l’industrializzazione del Veneto si accompagna alla volontà degli amministratori politici di conservare immutati gli equilibri e le gerarchie sociali e a un diffuso sistema di sfruttamento della manodopera da parte del padronato, pertanto le condizioni di vita della popolazione restano assai dure e la modernizzazione della società stenta ad avviarsi tra bassi salari, scarsa penetrazione e incisività del sindacato, ferrea disciplina nelle fabbriche e
pervasivo controllo della Chiesa e delle autorità sulla vita privata e professionale dei lavoratori e delle lavoratrici. Tuttavia, nonostante le difficoltà e le asperità che comporta, la fabbrica attrae progressivamente sempre più persone che anelano a lasciarsi alle spalle la precarietà e la fatica della condizione contadina: nel corso degli anni Sessanta l’incremento dei lavoratori dell’industria è quasi il doppio rispetto la media nazionale285
Dalla fine degli anni Sessanta questa economia periferica intreccia relazioni internazionali con le regioni industriali europee e il suo apporto a quella nazionale ha contribuito a mitigare i costi della crisi che tuttavia ha investito anche questa regione, colpendo i settori più dinamici e innovativi,
281 M. Dissegna, Una riflessione sullo sviluppo economico veneto, op. cit., p. 350; G. Roverato, La terza regione
industriale, op. cit.
282 C. Fumian, Miti e realtà del Nordest in C. Fumian, A. Ventura, Storia del Veneto, op. cit., pp.189 e sg.
283 G. Zazzara, I consigli di fabbrica in Veneto, in «Passato e presente», n. 91, 2014, p. 87 e G. Copiello, Manifesto per
la metropoli del Nordest, Venezia, Marsilio, 2007, p. 54.
284 T. Negri, Storia di un comunista, Ponte alle grazie, 2016, p..40
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mentre la piccola industria flessibile, a basso rischio di impresa, ha resistito e prosperato286; il costo di questo sviluppo è pagato quindi in termini di bassi salari, precarietà e lavoro nero, caratteri di un sistema di sfruttamento della manodopera che colpisce soprattutto le lavoratrici. Inoltre, la
dimensione ristretta delle aziende è frutto di un’imprenditorialità diffusa, incentivata dai bassi costi e dai limitati rischi che un’impresa di piccole dimensioni comporta, che ha dato luogo a grandi successe e improvvise fortune, ma anche a storie di fallimenti e di effimere avventure.
Nella seconda metà degli anni Settanta anche il complesso industriale di Porto Marghera entra in una fase di crisi che si approfondirà nel decennio successivo: con gli effetti dello shock petrolifero, combinati al ritardo tecnologico e scientifico e alla delocalizzazione, si comincia a registrare una contrazione della produzione e del numero di lavoratori; inizia così un lento declino che segue immediatamente la fase di massima espansione che risale infatti alla seconda metà del decennio precedente. Terzo complesso industriale d’Europa per ampiezza, con una produzione
prevalentemente afferente ai settori chimico e metalmeccanico, costituisce una realtà di grande importanza economica in cui lavorano oltre 35.000 persone nel momento di maggiore vitalità. E tuttavia, questa vastissima zona industriale si percepisce da più punti di vista principalmente come un corpo estraneo nel contesto in cui è inserita: rispetto al panorama regionale costituito soprattutto di aziende medie e piccole, rispetto alla zona agricola che la circonda e alla Venezia lagunare di cui, è stato scritto, costituisce una “dissonante introduzione”287; un’estraneità il cui aspetto più
minaccioso è costituito dall’impatto sulla salute dei lavoratori e sull’equilibrio dell’ecosistema lagunare, temi che saranno al centro delle lotte operaie a cavallo tra i decenni Sessanta e Settanta288. Al di là del caso particolare di Porto Marghera, si può in conclusione tracciare una sintesi del modello Veneto, citando le parole di Fontana, secondo cui “importanti ingredienti di questo tipo di sviluppo furono l’omogeneità socio-culturale delle zone di insediamento e fondamenti ideologici e solidaristici delle organizzazioni cattoliche, il ruolo del credito popolare (banche popolari, casse rurali) e delle istituzioni locali. Infrastrutture e iniziativa di sostegno alla piccola impresa vennero sia dall’azione trainante delle imprese incubatrici, sia da forme di autorganizzazione”289.
286 G. L. Fontana, Lo sviluppo economico dall’Unità a oggi, op. cit.; S. Brusco, S. Paba, Per una storia dei distretti
industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, in F. Barca, Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Donzelli, Roma, 1997, pp. 265-334; Istituto Regionale di studi e ricerche economico-sociali del Veneto, Lo sviluppo territoriale del Veneto negli anni ’70. Decentramento urbano e diffusione territoriale, Franco Angeli, Milano,
1985; Id., L’industrializzazione diffusa nel Veneto, Franco Angeli, Milano, 1986.
287 L. Cerasi, Passato e futuro di Porto Marghera. Colloquio con Francesco Indovina (aprile 2016), in «Venetica», op.
cit., p. 227.
288 Sul polo industriale di Marghera cfr. G. Zazzara, Il Petrolchimico, Il Poligrafo, Padova, 2009; L. Cerasi, Passato e
futuro di Porto Marghera. op. cit.; Ead., Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Franco
Angeli, Milano, 2007; C. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti negli anni Sessanta. Porto Marghera-Venezia. 1955-1970, Franco Angeli, Milano, 1996.
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Un sistema produttivo dai caratteri così particolari e disomogenei tra le diverse realtà che la regione presenta, vede nascere una classe operaia altrettanto disomogenea e difforme rispetto al modello offerto dai lavoratori delle grandi fabbriche delle città industriali del paese.
“A differenza di quanto avvenne nelle grandi città del Nord Ovest […] una classe operaia esclusivamente autoctona e socialmente frammentata, nei cui conflitti di lavoro va soppesato il ruolo delle tradizioni locali, delle subculture politiche territoriali e dei differenti sistemi sociali aziendali.”290
La debolezza del Pci e della Cgil, il moderatismo, l’influenza delle organizzazioni cattoliche e del paternalismo, il legame col mondo rurale sono tratti dominanti di molte realtà industriali venete, soprattutto del Veneto profondo. Se la differenza con le realtà metropolitane sono profonde, tuttavia c’è un aspetto sociologico più accomunante di quanto non appaia a prima vista: la componente operaia di origine contadina, poco o nulla sindacalizzata, non avvezza ai meccanismi della
contrattazione di fabbrica non è forse poi così diversa da quella dei giovani meridionali immigrati nelle grandi fabbriche milanesi, genovesi e torinesi. Si tratta in entrambi i casi di “nuovi operai”, privi di legami sindacali, di orgoglio professionale, di cultura di fabbrica e di appartenenza partitica che costituiranno la parte preponderante della forza antagonista della grande fiammata contestataria del 1969.