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L'art 48 del Trattato CEE in relazione alle clausole d

Nel documento Il rapporto di lavoro sportivo (pagine 68-71)

2.2 La sentenza Bosman e la fine del trattamento differente per il calcio

2.2.7 L'art 48 del Trattato CEE in relazione alle clausole d

Secondo la sentenza Bosman, l'articolo 48 del Trattato non consente che norme sportive limitino il diritto dei cittadini di altri Stati membri a partecipare come giocatori professionisti, ad incontri di calcio. A giudizio della Corte, seppure tali norme non limitino il possibile ingaggio da parte dei club di giocatori cittadini di altri Stati membri, restringono comunque le sue possibilità d'impiego nella misura in cui la partecipazione a questi incontri di calcio costituisca l'oggetto essenziale della sua attività.72 D'altra parte la Corte non riconosce alcuna

rilevanza giuridica all'accordo “3+2” concluso tra la UEFA e la Commissione, in quanto, al di fuori dei casi in cui le è espressamente attribuita una competenza di questa natura, la Commissione non è autorizzata a dare garanzie relative alla compatibilità con i Trattati di un determinato comportamento e in nessun caso può autorizzare comportamenti contrari al Trattato.

La Corte si chiede «se le norme sulla cittadinanza costituiscono un ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, vietata dall'art 48.» adottando così una nozione di «ostacolo» che include le discriminazioni basate sulla nazionalità.

La Corte non afferma chiaramente — come invece fa l'Avvocato generale nelle sue conclusioni, che parla di «caso classico di discriminazione fondato sulla cittadinanza» — che le norme sportive in questioni risultano contrarie all'art. 48 in quanto comportano una discriminazione per motivi di nazionalità. Addirittura, 71 Tale sistema, in Italia, è molto diffuso a livello di campionati interregionali.

72 Come segnala l'Avvocato generale nelle sue conclusioni, nessun club ingaggerà mai molti più giocatori di quelli che potrà poi schierare in campo in ogni partita.

dal ragionamento seguito dalla Corte si può dedurre che, a suo giudizio, ci troviamo di fronte a misure applicabili indipendentemente dalla nazionalità, le quali risultano contrarie all'art. 48 in quanto costituiscono un ostacolo ingiustificato alla libera circolazione dei lavoratori. Queste le parole usate dalla Corte: «[…]alla luce di quanto precede le norme sulla cittadinanza non possono essere considerate conformi all'art. 48 del Trattato. Questa norma sarebbe altrimenti privata del suo effetto utile e il diritto fondamentale di accedere liberamente a un'occupazione, che essa conferisce individualmente ad ogni lavoratore della Comunità sarebbe vanificato». Essa rappresenta una sorta di motivazione standard. Nel caso esame siamo di fronte di una evidente ipotesi di discriminazione sulla base della nazionalità e di un esplicito divieto, espresso nell'art. 48, par. 2 e ribadito nel regolamento n. 1612/1968, secondo il quale le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri che limitano, per impresa, per ramo di attività, per regioni o su scala nazionale, il numero o la percentuale degli stranieri occupati non sono applicabili ai cittadini degli altri Stati membri, quindi violano il principio della parità di trattamento e costituiscono una disposizione incompatibile con il diritto comunitario, le norme di diritto nazionale che riservino, di fatto o di diritto, alcuni posti di lavoro al cittadino nazionale o limitino il numero dei cittadini abitanti a svolgere tale attività.

Dopo aver affermato il contrasto tra le norme sulla cittadinanza e l'art. 48, la Corte dichiara che «nessuno degli argomenti fatti valere dalle associazioni sportive e dai governi che hanno presentato osservazioni può inficiare tale conclusione», per poi esaminare nel merito la loro fondatezza.

Prima di analizzare tali considerazioni, bisogna rilevare che la circostanza che la Corte discuta le motivazioni di ordine sportivo poste alla base delle norme sulla cittadinanza può stare a significare che, in astratto, esse potrebbero, ove fossero fondate, «inficiare la conclusione per cui esiste un contrasto con l'art. 48. La circostanza che la Corte senta il bisogno di confutare nel merito le citate argomentazioni può essere interpretato come un indizio della ipotizzabilità di

«eccezioni» al divieto di discriminazione che siano basate su motivi oggettivi di natura sportiva.

Partendo dal primo dei motivi, era stato fatto presente in corso di causa che le suddette limitazioni servono a «preservare il legame tradizionale fra ogni società calcistica e il proprio Paese, cosa molto importante per consentire al pubblico di identificarsi con la squadra preferita e per far sì che le società che partecipano a gare internazionali rappresentino effettivamente il proprio Paese». La Corte confuta queste affermazioni in maniera sommaria.

Quanto all'identificazione pubblico-squadra, la Corte replica che il legame tra la squadra e lo Stato dove questa è stabilita non è inerente all'attività sportiva più di quanto non lo sia quello che intercorre tra la squadra e la città o regione di appartenenza. Dato che nessuna norma vieta ai club di schierare calciatori provenienti da altre regioni o città, mutatis mutandis si desumerebbe che nel calcio l'identificazione pubblico squadra attiene al momento organizzativo di questa e non alla provenienza dei giocatori.

Quanto alla partecipazione a gare internazionali, essa è riservata, secondo la Corte, alle «società che hanno ottenuto determinati risultati sportivi nel loro rispettivo Paese, senza che la cittadinanza dei loro calciatori rivesta un ruolo particolare».

Proseguendo nell'analisi delle giustificazioni delle norme sulla cittadinanza, la Corte affronta uno degli argomenti più frequentemente addotti per limitare la presenza degli stranieri nei campionati nazionali; essi, togliendo spazio ai calciatori locali, limiterebbero la possibilità per i giovani di affermarsi, sì da creare a lungo andare una penuria di atleti di alto livello da schierare nelle rappresentative nazionali. La Corte non ritiene fondata questa argomentazione, sulla base della duplice constatazione delle nuove prospettive di occupazione offerte ai giocatori nazionali in altri Stati membri come conseguenza della liberalizzazione, e dell'obbligo per le società che ingaggino calciatori stranieri, di permettere loro di partecipare agli incontri della propria nazionale. In altre

parole, le nazionali non soffrirebbero pregiudizio alcuno dall'abolizione di qualsiasi limite all'utilizzazione di giocatori cittadini di altri Stati membri.

2.2.8 La non applicabilità dell'art.48 del Trattato CEE alla

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