• Non ci sono risultati.

Caso Kolpak

Nel documento Il rapporto di lavoro sportivo (pagine 96-99)

2.4 La condizione degli atleti-cittadini extracomunitari con cui l'Unione

2.4.1 Caso Kolpak

Maros Kolpak era un giocatore di pallamano di cittadinanza slovacca93 in

possesso di permesso di soggiorno, che svolgeva regolarmente un'attività subordinata all'interno di una squadra militante nel campionato tedesco di seconda divisione.

Secondo la regolamentazione della federazione sportiva tedesca, tutti i “cartellini” dei giocatori di cittadinanza appartenente a uno Stato terzo dovevano riportare l'aggiunta di una lettera “A” davanti al numero di matricola e ciascun club non poteva tesserare più di due giocatori contrassegnati con tale lettera. L'unica eccezione a questa limitazione era prevista per un giocatore di cittadinanza terza, il cui paese avesse firmato un Accordo di Cooperazione od Associazione con la Comunità Europea in forza del quale si stabilisse la piena equiparazione dei cittadini dello Stato associato ai cittadini comunitari sotto il profilo della libera circolazione. Poiché l'accordo con la Repubblica slovacca faceva esclusivamente riferimento alla non discriminazione dei lavoratori e non anche alla libera circolazione, a Koplak era rilasciato un “cartellino” contrassegnato dalla lettera “A”, identico a quello previsto per gli atleti extraeuropei.

Poiché però l'articolo 38.1 dell'Accordo prevedeva che «nel rispetto delle condizioni e modalità applicabili in ciascuno Stato membro, il trattamento accordato ai lavoratori di nazionalità della Repubblica slovacca legalmente occupati nel territorio di uno Stato membro è esente da qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità per quanto riguarda le condizioni di lavoro, di retribuzione o di licenziamento, rispetto ai cittadini di quello Stato membro», Koplak fece ricorso di fronte al giudice tedesco, lamentando l'esistenza di una discriminazione fondata sulla nazionalità in ordine alle condizioni di lavoro rispetto ai giocatori comunitari.

93 Questo caso si riferisce al periodo antecedente l'entrata nell'Unione Europea della Slovacchia, avvenuta il 1° maggio 2004, che tuttavia vantava un accordo di associazione.

Riprendendo la sfida di Bosman al meccanismo delle “quote nazionali”, secondo Koplak la mancata equiparazione agli atleti comunitari rappresentava una chiara limitazione alle sue possibilità di impiego lavorativo. Nonostante l'Accordo di associazione, infatti, gli atleti slovacchi come lui continuavano ad essere considerati “extraeuropei”.

Il giudice a quo, chiamato ad esprimersi, ha esperito un rinvio pregiudiziale di interpretazione in ordine alla effettiva portata dell'Accordo Comunità- Slovacchia in relazione alla libera circolazione dei lavoratori.

Prima di procedere, la Corte ha preliminarmente riconosciuto che l'articolo 38 dell'Accordo avesse efficacia diretta e che dunque Koplak avesse diritto di farlo valere di fronte al giudice nazionale dello Stato membro ospitante. La Corte ha infatti affermato che una disposizione contenuta in un accordo concluso dalla Comunità con paesi terzi deve essere ritenuto direttamente applicabile quando stabilisce un obbligo chiaro e preciso, non subordinato all'intervento discrezionale di alcun atto ulteriore da parte degli Stati membri.

Detto questo, i giudici europei si sono poi espressi sulla portata del principio di non discriminazione enunciata da tale articolo, precisandone i confini di applicazione.

Come era già stato affermato dalla Corte fin dalla sentenza Walrave e poi confermato nella sentenza Donà e Bosman, il divieto di discriminazione basata sulla nazionalità, enunciato dalla libera circolazione dei lavoratori, si applica anche alle norma emanate dalle associazioni sportive.

La Corte dichiara che, poiché la partecipazione alle competizioni sportive attiene alle condizioni di lavoro del calciatore straniero, con la previsione di un limite di utilizzabilità di cui al regolamento federale sopramenzionato, l'atleta subiva chiaramente una discriminazione fondata sulla nazionalità, vedendosi limitata la possibilità di esplicare la propria attività lavorativa. Quindi la federazione sportiva non può porre limiti allo svolgimento dell'attività lavorativa di atleti professionisti provenienti dallo Stato con cui sussiste un Accordo di Associazione.

Fermo restando l'indiscutibile portata innovativa della decisione in commento, la Corte di giustizia ha preferito un'interpretazione restrittiva dell'Accordo di Associazione stipulato tra Comunità Europea e Repubblica slovacca con riguardo al principio della libertà circolazione, mentre ha dato piena applicazione al c.d. effetto Bosman circa il divieto di discriminazione dei lavoratori. I giudici hanno infatti riconosciuto che la portata della libertà di circolazione prevista dall'accordo è più limitata rispetto all'analoga libertà, riconosciuta dall'art. 39 TCE, dei cittadini comunitari che hanno il diritto di spostarsi liberamente nei Paesi europei per cercare lavoro.

La previsione dell'Accordo, cioè non si estende al diritto di accesso al mercato del lavoro, ma riguarda la fase relativa allo svolgimento dell'attività, per cui, in presenza di un regolare contratto di lavoro tra l'atleta e una società sportiva, al giocatore deve garantirsi un trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, retribuzione e licenziamento, identico a quello previsto a favore dei cittadini comunitari. Per la Corte, dunque, l'unica differenza tra i cittadini comunitari e quelli extracomunitari, riguarda il diritto di circolare sul territorio dell'Unione riconosciuto solo ai primi; le federazioni sportive, pertanto, non potranno prevedere limiti all'ingaggio o all'utilizzo dei Paesi associati, laddove l'accordo preveda il principio di non discriminazione dei lavoratori. Inoltre poiché ogni Stato membro deve considerarsi sovrano nel regolamentare gli ingressi di cittadini extracomunitari nel proprio territorio, l'atleta che vorrà spostarsi in un altro Stato membro dell'Unione, dovrà entrare legalmente nel nuovo Stato, rispettando i limiti dei flussi migratori da questo stabiliti, successivamente essere legalmente assunto e solo in questo caso poter pretendere un trattamento equiparato ai cittadini comunitari circa l'effettivo esercizio della propria attività lavorativa.

Koplak rientrava in tale categoria: egli era infatti già sotto contratto con una società tedesca e, pertanto, aveva già regolarmente accesso al mercato del lavoro dello Stato membro ospitante.

In questo senso, la Corte ha rilevato che Koplak non aveva chiesto, e non avrebbe neppure potuto ottenere, un piena assimilazione ai cittadini comunitari sotto il profilo della libera circolazione, ma si era limitato a chiedere di non essere discriminato per quanto riguardava le modalità di occupazione rispetto ai cittadini comunitari, ai sensi dell'Accordo di Associazione.

Tenendo conto di tutto questo, la Corte ha dato ragione alle rivendicazioni di Koplak, stabilendo che la norma sportiva tedesca risultava incompatibile con l'Accordo di Associazione Comunità-Slovacchia, relativamente alle condizioni di lavoro dei cittadini slovacchi.

Nel documento Il rapporto di lavoro sportivo (pagine 96-99)