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Caso Meca-Medina e Majcen: un passo indietro per il modello

Nel documento Il rapporto di lavoro sportivo (pagine 86-90)

2.3 Lo sport europeo dopo la sentenza Bosman

2.3.6 Caso Meca-Medina e Majcen: un passo indietro per il modello

Il caso Meca-Medina86 ha offerto alla Corte di Giustizia un'ottima opportunità

per sviluppare ulteriormente e descrivere le specifiche "norme sportive" che non rientrano nel campo di applicazione del Trattato CE.

Il sig. Meca-Medina e Macjen erano due sportivi che praticavano il nuoto a distanza, entrambi risultati positivi al nandrolone a seguito di un controllo antidoping effettuato il 31 Dicembre 1999 durante i campionati mondiali.

A seguito di ciò, gli atleti hanno presentato un ricorso alla Commissione Europea adducendo come motivazione che il codice antidoping sulla base del quale la decisione della squalifica era stata presa, costituiva un accordo tra imprese (CIO e FINA) proibito dall'art. 81 TCE ed i cui effetti restrittivi andavano al di là di ciò che era necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito ossia la lotta al doping.

Secondo i ricorrenti la soglia prevista dalla FINA aveva scarse basi scientifiche e poteva condurre all'esclusione di atleti innocenti o semplicemente negligenti. Nel loro caso, secondo i ricorrenti, il superamento della soglia di tolleranza sarebbe derivato dalla consumazione di piatti a base di carne di verro.

La Commissione europea ha respinto il ricorso, facendo notare che la normativa antidoping deve essere considerata come appartenente alla categoria “regolamenti prettamente sportivi”; i ricorrenti hanno pertanto deciso di fare appello contro la decisione della Commissione presso il Tribunale di Primo Grado. Il tribunale ha respinto le richieste delle parti poiché, in base agli obiettivi del regolamento antidoping, le norme controverse andavano valutate come puramente sportive e, pertanto, non rilevanti per l'ordinamento comunitario. Secondo il Tribunale fino a quando i regolamenti si limitano a perseguire il 85 Corte di giustizia, Donà, cit, punto 14.

proprio obiettivo (proteggere lo spirito sportivo) e non contengono alcun elemento di discriminazione, non tocca allo stesso Tribunale stabilire se le norme sono o non sono “eccessive” o “sproporzionate”. Si può quindi evincere che il Tribunale ha ragionevolmente concluso che non tocca alle Istituzione dell'Unione Europea stabilire, ad esempio, quanto nandrolone va consentito nel corpo di un nuotatore professionista.

Tale sentenza, di conseguenza può essere considerata come una chiara conferma della decisione della Commissione.

Gli atleti, sul presupposto che il Tribunale fosse incorso in un errore di diritto, hanno impugnato la sentenza innanzi alla Corte di giustizia.

Dopo l'udienza, l'Avvocato Generale Leger ha emesso il proprio parere respingendo completamente l'appello, descrivendolo come “confuso”. Quest'ultimo ha inoltre osservato che le disposizioni antidoping riguardavano gli aspetti etici dello sport e non rientravano nel campo d'applicazione dei divieti previsti dalla legislazione UE, anche se avevano delle conseguenze collaterali dal punto di vista economico. Come il Tribunale, l'Avvocato Generale ha dichiarato che la normativa antidoping riguardava questioni sportive (e non la regolamentazione delle attività di mercato) e quindi non era necessario considerare il loro effetto ai sensi della normativa sulla concorrenza ed era inutile avviare discussioni sul principio di “proporzionalità”.87

Sfortunatamente con la sentenza della Corte di giustizia del 18 luglio 2006, la situazione è diventata di nuovo estremamente confusa.

In questa sede la Corte, con un ragionamento che, per restare nel gergo sportivo potremmo definire “a tutto campo”, ammette la legittimità del ricorso, annullando perciò la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto inammissibile il ricorso sul presupposto che le sanzioni per doping fossero escluse dall'applicazione del diritto comunitario.

87 L'Avv. Gen ha considerato che non è di competenza della Corte di Giustizia pronunicarsi sul carattere scientificamente giustificato o meno di una regola adottata dal Comitato Internazionale Olimpico nell'ambito della lotta al doping.

Contro ogni attesa, la Corte ha sentenziato che, ormai, qualsiasi norma emanata da una federazione sportiva, di qualsiasi natura essa sia, deve rispettare il diritto europeo della concorrenza. Così facendo, ha messo fine alla tradizionale distinzione posta tra le “regole puramente sportive” e le altre.

Circa l'annullamento della decisione del Tribunale di primo grado, la Corte, richiamando il fatto che l'attività sportiva è disciplinata dal diritto comunitario in quanto configurabile come attività economica, precisa che le disposizioni del Trattato che garantiscono la libera circolazione delle persone e la libera prestazione dei servizi non si applicano alle questioni che interessano esclusivamente lo sport e che, come tali, sono estranee all'attività economica. Tuttavia, questo principio importante deve essere interpretato in maniera restrittiva e non può essere invocato per escludere un'intera attività sportiva dalla sfera di applicazione del Trattato, né soprattutto per escludere tout court l'applicazione degli artt. 81 e 82 TCE (ora art. 101 e 102 TFUE) alle cosiddette norme “puramente sportive”.

In un passaggio fondamentale e alquanto controverso della sentenza, infatti, la Corte ha affermato che anche se tali norme non costituiscono restrizioni alla libera circolazione, perché sono “puramente sportive” e, come tali estranee all'attività economica, una siffatta circostanza non implica né che l'attività sportiva interessata si sottragga necessariamente all'ambito di applicazione degli artt. 81 e 82 TCE né che dette norme non soddisfino i presupposti d'applicazione propri dei detti articoli.

Così la Corte annulla la sentenza emessa dal Tribunale di primo grado sul presupposto che questi ha commesso un errore di diritto nel dichiarare che la regolamentazione antidoping non risponde ai presupposti d'applicazione propri del diritto comunitario. Nella controversia in esame, precisa tuttavia la Corte, l'obiettivo risiede nella lotta al doping nell'ambito delle competizioni sportive e ciò è giustificato dalla necessità di assicurare la parità di chance tra gli atleti, tutelare la salute, garantire l'integrità delle competizioni nonché di difendere i valori etici dello sport.

Per questi motivi, anche se la regolamentazione antidoping fosse considerata quale decisione di associazione d'impresa, questa sarebbe giustificata dal perseguimento di un obiettivo legittimo e perciò compatibile con il diritto comunitario alla concorrenza.

Tuttavia, aggiunge la Corte, per potersi sottrarre al divieto sancito nell'art. 81 n. 1 del Trattato CE (ora articolo 101 n. 3 TFUE), le restrizioni imposte (comprese le sanzioni conseguenti) devono limitarsi a quanto necessario per assicurare il corretto svolgimento della competizione sportiva.

Una regolamentazione del genere potrebbe infatti risultare eccessiva, da un lato nella determinazione delle condizioni atte a fissare la linea di demarcazione tra le situazioni che rientrano nel doping sanzionabile e quelle, che non vi rientrano, e dall'altro nella severità delle sanzioni.

É sulla base di queste considerazioni e per il fatto che i ricorrenti non hanno precisato né dimostrato il livello di soglia dell'anabolizzante, che la Corte ha ritenuto che le norme federali e le sanzioni irrogate non erano andate al di là di quanto necessario per assicurare il corretto svolgimento delle competizioni sportive.

A ben vedere i ricorrenti hanno perso la battaglia intrapresa vedendosi confermata la squalifica, e tuttavia ne hanno vinta un'altra. La Corte infatti, ha affermato il principio secondo il quale gli organi sportivi non possono sottrarsi da un controllo sulla loro attività invocando l'eccezione sportiva. Affinché la specificità dello sport possa essere invocata si deve infatti verificare sia la concordanza tra specificità dichiarata e regola posta, sia la proporzionalità tra regola e fine. Si tratta a ben vedere di un giudizio di razionalità cui sottoporre le decisioni sportive, rimesso, apparentemente. alle autorità Antitrust ma concretamente al vaglio della Corte di Lussemburgo.

In altri termini, le federazioni sportive e le leghe saranno responsabili dell'organizzazione e dei regolamenti delle rispettive discipline, ma dovranno ispirarsi al principio della ragionevolezza e della proporzionalità anche nel caso di norme “puramente sportive”.

Infatti, a seguito della sentenza Meca Medina, indipendentemente dall'impatto economico sul mercato che determinate misure sportive potranno avere, esse dovranno essere proporzionate al conseguimento di obiettivi legittimi per essere compatibili con le disposizioni rilevanti in materia di concorrenza.

In particolare, tutte le sanzioni disciplinari in ambito sportivo potranno essere oggetto di ricorso sia alle autorità nazionali sia a quelle comunitarie.

Esse, invero, potranno essere definite come delle «misure o condizioni per l'esercizio di un'attività sportiva» e, quindi potranno impedire a un' atleta di lavorare o a un club di partecipare a competizioni sportive con gravi conseguenze economiche.

Ad esempio, le stesse sanzioni sportive che comportano la retrocessione di una squadra in una serie inferiore ovvero una penalizzazione in classifica, potrebbero essere ritenute delle misure “non proporzionate” ai sensi della normativa sulla concorrenza.

Il ragionamento svolto dalla Corte di giustizia sembra allarmare, e non poco, buona parte del “governo dello sport” preoccupato da un controllo giurisdizionale che potrebbe insinuarsi fin dentro la regolamentazione tecnica degli eventi sportivi.

2.3.7 Caso Bernard: indennità di formazione e libertà di

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