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VI. 2 1 Knight is absent

VI. 3. Assenza

Lo spazio artistico di The Real Life of Sebastian Knight è caratterizzato da un elemento attivo ad ogni livello testuale: l’assenza. Questa componente è profondamente radicata nella struttura del romanzo, ed è in particolar modo legata all’uso di dispositivi metafinzionali che conferiscono al suo significato sfumature particolari. Similmente a Barabtarlo (2003), anche Yona Dureau identifica l’assenza come tratto distintivo non soltanto dei personaggi e del romanzo in questione, ma addirittura

dell’intera produzione nabokoviana. Basando il suo complesso studio Nabokov ou Le Sourire du chat (2001) sull’uso sistematico degli spazi vuoti, ‘les blanc’ (Dureau 2001: 15), Dureau illustra le molteplici declinazioni del termine in un’ampia casistica di opere, definendo The Real Life of Sebastian Knight come un’ “allégorie de l’absence” (Dureau 2001: 403). Questa osservazione viene generalizzata da Lanchester che sostiene che il romanzo “is full of absence” (Nabokov 2001: 175), mentre Manganelli insiste sulla dimensione dell’assenza come fondamento della narrazione:

Questo libro breve e ‘leggero’ – pare avere la consistenza ingannevole del sughero – è in realtà un libro astutamente ambizioso; il suo obiettivo a me sembra quello di costruire un tessuto di parole – mi ripugna chiamarlo ‘romanzo’ – attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale, indefinibile. Questa assenza contiene, inoltre, un ulteriore gioco, quasi un pun, una astuzia verbale. La vita di Sebastian Knight, quella ‘vera’, è perduta, perché nessun indizio porta al centro; lo scrittore è una larva, una immagine simile a quelle che si colgono prima del precipizio del sonno. Ma vi è dell’altro: lo scrittore non possiede il tempo come serie; il tempo è un luogo matematico nel quale si raccoglie tutto ciò che altri chiamerebbe ‘il mondo’ (Nabokov 2005: 228-229).

Il tema dell’assenza emerge con particolare forza nella costruzione dei personaggi del romanzo, persino quelli minori. Le donne più importanti della vita di Sebastian non sono infatti rintracciabili. La madre è morta (così come il padre); la fidanzata Clare Bishop, affetta da un particolare tipo di miopia, l’ametropia (anomalia rifrattiva) che causa una visione sfuocata, in seguito alla fine del loro rapporto, sembra essere scomparsa nel nulla. Persino l’amante di Sebastian, Madame Lecerf, è assente. V. la cerca, anteponendo addirittura la narrazione di questa indagine a quella sul fratellastro. In realtà, si scopre che Madame Lecerf è assente semplicemente perché non esiste: il suo nome è un sostituto per la vera identità di Nina Rechnoy.

L’elemento dell’assenza, nella sua veste numerica, è inoltre presente non solo nel nome di Olga Olegovna Orlova, ma anche nel diario in cui la donna ha registrato fatti di poco conto connessi con la sua vita. È significativo che sul giorno della nascita di Knight la donna appunti solamente alcuni dati meteorologici: era una bella giornata invernale priva di vento, con temperatura di dodici gradi Reamur sotto zero18. Considerando il

18 Potrebbe essere interessante ragionare ulteriormente su questa circostanza. Réaumur è un’unità con la quale si misurava la temperatura particolarmente diffusa in Europa, e soprattutto in Russia (Sulle unità di misura in fisica, cfr. Selleri 1993: 319). Il punto di congelamento di questa scala si situa a zero gradi, mentre quello di ebollizione a ottanta. Dodici °r corrispondono a quindici °C. Per meglio apprezzare il gioco di Nabokov, conviene visualizzare la formula per iscritto: 15 °C = 12 °r x 1.25. La ripetizione dei numeri 12, 15 nelle possibili combinazioni 12, 15 contenute in 1,25 crea un inferno di

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punto in cui si innesta, il dettaglio della temperatura acquisisce un certo rilievo che va oltre la mera funzione descrittiva: il numero zero rappresenta nuovamente il punto di inizio del testo. Tuttavia, la particolare data di nascita di Sebastian, annotata anche nel diario della Orlova, destabilizza il potenziale valore generativo dello ‘zero’ come punto di origine. Se infatti nel romanzo rappresenta un punto di inizio, non si può dire che rappresenti lo stesso in relazione all’eroe. L’artista è infatti nato l’ultimo giorno dell’ultimo mese dell’ultimo anno del diciannovesimo secolo (31. 12. 1899)19: una sorta di vicolo cieco. In questo senso, lo ‘zero’ inteso come punto di origine viene a coincidere circolarmente con lo ‘zero’, la sostanziale assenza di informazioni che il lettore percepisce una volta giunto alla fine del romanzo. Una simile lacuna, che ripropone ancora una volta il tema dell’assenza come perno attorno al quale ruota il romanzo, determina anche l’assenza di una reale biografia, tradendo la promessa contenuta nel titolo.

Lo zero, in questo caso, più che rappresentare un punto d’origine contiene fatalmente in sé il germe di uno speculare fallimento. A livello intradiegetico, con l’inconcludenza della ricerca di V.; a livello extradiegetico, con il tradimento delle aspettative del lettore. In questo senso, lo zero dell’origine non è altro che referente del vuoto, dell’assenza o, come sostiene Jane Zwart “the zero as an emblem of the novel” (2003: 218).

Similmente ad Olga Orlova, anche V. è contraddistinto da un’assenza rintracciabile non solo del nome, ma anche nel complesso della sua caratterizzazione. Sul conto narratore, infatti, si sa molto poco, fatta eccezione per le sue considerazioni sull’indagine che sta conducendo e dei suoi scarni ricordi di infanzia, sui quali si stende l’indelebile, soffocante ombra del fratellastro. Da queste memorie emerge già una prima ‘tipologia’ di assenza del fratellastro, che trattava con assoluta freddezza il narratore: “with a shove of his shoulder he pushes me away, still not turning, still as silent and distant, as always in regard to me” (Nabokov 2001: 14). La loro relazione era debole a tal punto che “Sebastian's image does not appear as a part of [his] boyhood” (Nabokov 2001: 15).

La morte di Knight, la sua assenza ormai definitiva non fa altro che peggiorare la situazione, è un’impronta permanente nell’esistenza finzionale del narratore, da un lato tormentandolo, dall’altro il dolore della perdita del fratellastro scatena in V. il desiderio di scriverne la biografia. L’ispirazione per una simile impresa sgorga dunque dalla sorgente dell’assenza, nel suo significato di perdita e di morte, o come si esprime

porre tanta enfasi su questa scala di misura? Una risposta plausibile potrebbe celare un’allusione al fatto che Réamur, come Nabokov, era un affermato entomologo.

Dureau, “[i]l y a, d’une part, del formes d’absence qui sont présentées comme irréductibles, et causes de souffrance, et d’autre part des formes d’absence, qui sont une source d’inspiration et de création”20 (Dureau 2001: 406). “Sotto il sole nero del modermismo letterario”21 lo spazio vuoto lasciato dal lutto viene colmato da uno specifico tipo di scrittura22 che, come sottolinea Filippo Secchieri (2005: 68), serve per alleviare il dolore: “[n]on vedo, non sento, non sono nessuno e non ho nulla, quindi sogno, immagino, scrivo”.

In realtà, la rottura del patto con il lettore che si aspetta di leggere la biografia di un artista, distanzia ulteriormente l’oggetto del desiderio, già estremamente lontano sin dalle prime battute del romanzo (essendo morto). La figura di Sebastian diventa dunque sempre più evanescente man mano che la narrazione diventa inattendibile23, cioè nei casi in cui le informazioni raccolte da V. sono inutili, oppure vengono rimpiazzate dalle sue riflessioni, sebbene V. affermi che “I have tried to put into this book as little of my own as possible” (Nabokov 2001: 117).

Al contempo, V. è consapevole di non poter mai arrivare alla verità sull’enigmatica figura del fratello, condizione che si verificherebbe unicamente in caso di un annullamento della propria personalità. Se ci si vuole avvicinare all’essenza dell’artista, la sua esistenza deve essere cancellata, deve eclissarsi, come un attore quando interpreta un personaggio. La sua identità deve quindi essere come una conchiglia vuota: V. è ciò che gli manca24. Sebastian è uno zero, è assente quando V. è in primo piano; ma ecco che la silhouette di Sebastian compare, mentre la figura di V. si dissolve nell’ombra:

Whatever his secret was, I have learnt one secret too, and namely: that the soul is but a manner of being – not a constant state – that any soul may be yours, if you find and follow its undulations. The hereafter may be the full ability of consciously living in any chosen soul, in any number of souls, all of them unconcious of their interchangeable burden. Thus – I am Sebastian Knight. I feel as if I were impersonating him on a lighted stage, with the people he knew coming and going – the dim figures of the few friends he had, the scholar, and the poet, and the painter – smoothly and noiselessly paying their graceful tribute; and here is Goodman, the flat-footed buffoon, with his dicky hanging out

20 Trad. Ita.: “[d]a un lato, ci sono forme di assenza che sono presentate come irriducibili, e quindi come cause di sofferenza; dall’altro, ci sono forme di assenza che costituiscono una risorsa di ispirazione e creazione”.

21 Questa espressione è stata usata da Julia Kristeva in Black Sun: Depression and Melancholia.

22 Come sostiene tra gli altri Monica Farnetti (2005: 41-47) in relazione al caso di Anna Maria Ortese e Virgina Woolf.

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of his waistcoat; and there – the pale radiance of Clare’s inclined head, as she is led away weeping by a friendly maiden. They moved round Sebastian – round me who am acting Sebastian – and the old conjuror waits in the wings with his hidden rabbit: and Nina sits on a table in the brightest corner of the stage, with a wineglass of fuchsined water, under a painted palm. And then the masquerade draws to a close. The bald little prompter shuts his book, as the light fades gently. The end, the end. They all go back to their everyday life (and Clare goes back to her grave) – but the hero remains, for, try as I may, I cannot get out of my part: Sebastian’s mask clings to my face, the likeness will not be washed off. I am Sebastian, or Sebastian is I, or perhaps we both are someone whom neither of us knows (Nabokov 2001: 172-173).

Quest’immagine ricorda da vicino quella di un ologramma, ovvero figure ottenute tramite l’impressione fotografica di un’immagine bidimensionale che, sfruttando il fenomeno dell’interferenza ottica, creano la parvenza della tridimensionalità; ne consegue che, a seconda dell’angolazione con la quale la luce colpisce l’immagine, questa potrà risultare piatta o a tre dimensioni.

Similmente avviene nella coppia di protagonisti di The Real Life of Sebastian Knight, indubbiamente legati a doppio filo: l’emergere di un’immagine tridimensionale dell’uno annichilisce inevitabilmente l’altro. I due personaggi sono come due metà di un unico elemento, un’immagine questa precedentemente utilizzata già da Platone nel Simposio. Nabokov utilizza di proposito la coppia di fratellastri nel modo in cui Platone si serve del suo mezzo-uomo: ogni parte va a colmare la lacuna dell’altra. V. e Sebastian sono fusi al punto da diventare due facce di un’unica medaglia: da un lato si ha V., scrittore alle prime armi che non raggiungerà mai la maturità del fratellastro; per converso, questa assenza di talento viene colmata dal genio di Knight, rivelato attraverso fedeli citazioni dei suoi romanzi. Dall’altro lato, la presenza prepotente di V. in una narrazione che dovrebbe essere incentrata sulla figura dell’artista bilancia completamente l’assenza corporea di Sebastian. L’immagine dell’uno sembra essere il negativo dell’altro, come testimonia la suggestiva immagine dei giocatori di tennis:

when I imagined actions of his which I heard of only after his death, I knew for certain that in such or such a case I should have acted just as he had. Once I happened to see two brothers, tennis champions, matched against one another; their strokes were totally different, and one of the two was far, far better than the other; but the general rhythm of their motions as they swept all over the court was exactly the same, so that had it been possible to draft both systems two identical signs would have appeared (Nabokov 2001: 28-29).

Come giustamente osserva Lanchester commentando lo status dei due personaggi, “[i]t is as if each of these lives is a dream of, or a misremembered version of, the other” (2001: 177-178).

L’assenza del singolo, congiuntamente all’impossibilità di una figura unitaria, monolitica, come quella mimetica, prelude ad una costruzione del personaggio inteso come amalgama di diverse identità. Difatti, la vera natura di V. e Sebastian si concretizza in quell’ibrido ‘Sevastian’, menzionato un’unica volta nel testo: nella stesura di un telegramma indirizzato a V., il dottor Starov sbaglia scrivendo ‘Sevastian’ al posto del nome corretto Sebastian: “‘Sevastian’s state hopeless come immediately Starov.’ It was worder in French; the ‘v’ in Sebastian’s name was a transcription of its Russian spelling; for some reason unknown, I went to the bathroom and stood there for a moment in front of the looking-glass” (Nabokov 2001: 160).

Effettivamente il nome ‘Sebastian’ in russo si legge proprio Sevastian, quindi l’anziano medico può essersi semplicemente confuso a causa dell’età. Tuttavia, bisogna tener presente che se nel nostro alfabeto i caratteri ‘B’ e ‘V’ contraddistinguono due suoni diversi, ciò non accade in russo, dove ‘B’ si pronuncia /v/. è anche da notare, però, che se in lingua inglese si verifica. Questo scambio consonantico è significativo se considerato congiuntamente all’azione che si svolge nella riga successiva: il narratore, per una ragione che non conosce, sente l’improvviso bisogno di andare a specchiarsi. L’atto di osservarsi davanti ad uno specchio presuppone la creazione di un doppio, di un’immagine di sé identica; il fatto che essa venga associata logicamente (i due periodi sono contenuti nello stesso brano, in un ordine consecutivo) all’errore di scrittura, rende possibile una diversa interpretazione del fenomeno apparentemente banale. Il suono (e la lettera) ‘V’, infatti, ha sempre contraddistinto la persona del narratore; facendo entrare questa lettera/suono all’interno del nome del suo fratellastro, l’autore implicito compie una sorta di operazione di innesto tra i due personaggi, almeno a livello linguistico. Questa loro “unione” contrasta fortemente con l’immagine di sdoppiamento suggerita dal volto di V. allo specchio; in un’ottica dicotomica di congiungimento – separazione, Nabokov arriva ad ottenere un effetto rinforzato di entrambe le immagini, che sublimano fondendosi proprio nel finale del romanzo.

A questo proposito Stonehill (1988: 90-91) sostiene che un simile uso incrociato di diverse lingue da parte dell’autore per creare nuove combinazioni e nuove possibilità d’espressione sia sintomo di un uso riflessivo del linguaggio, poiché le proprietà casuali della parola, come possono essere il suono e la veste grafica, vengono trattate dall’autore come se fossero elementi essenziali, con significati propri e peculiari.

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dimensione teatrale della messinscena. In questo senso, per la costruzione del personaggio liquido, convenzionalmente definito ‘anti-mimetico’, Nabokov ricorre manifestamente all’uso della maschera, che gli consente di creare al contempo un doppio del personaggio, ma anche una (con)fusione di identità, dove entrambe concorrono alla caratterizzazione del singolo.

A questo proposito, Marta Tolomelli propone un interessante parallelo tra la funzione della maschera, il concetto di assenza e quello del doppio:

Nella maschera la funzione di ‘testimonianza’ dell’assente è emblematica [...] La presenza dell’assente è segnalato, a chi guarda, non tanto dalle sembianze della maschera ma dal suo uso. Dal primo momento in cui viene indossata una maschera, chi le sta di fronte sa che l’autenticità non sta in ciò che è propriamente ‘visto’, ma in ciò che viene simbolizzato. Già nel teatro greco, e prima ancora nei culti religiosi primitivi, la funzione del travestimento era quella di evocare una situazione o una divinità non presente. [...] La maschera è il luogo del vuoto e del doppio. Contemporaneamente. Simbolo per eccellenza, si fa veicolo dell’assente per portarlo a presenza; la sua manifestata presenza per mezzo di un simbolo, rimanda alla reale assenza dell’oggetto rappresentato (Tolomelli 2002: 16-17).

Il tema dell’assenza diventa però particolarmente pregnante nell’architettura del protagonista, al contempo legato e slegato al suo doppio imperfetto, il fratellastro V. L’assenza fisica di Sebastian Knight costituisce il cuore del romanzo; come s’è detto sopra, The Real Life of Sebastian Knight deve la sua esistenza alla morte dell’artista. Altrettanto evidente è il fatto che la morte non è altro che assenza fisica del corpo di una persona come il testo testimonia in una ricca serie di riferimenti. Sebastian è spesso paragonato ad una figura parzialmente disegnata: “he will remain as incomplete as your picture” (Nabokov 2001: 99), “A book with a blind spot. An unfinished picture – uncoloured limbs of the martyr with the arrows in his side” (Nabokov 2001: 103). Occasionalmente, la sua rappresentazione pittorica viene sostituita da immagini ancor più evanescenti: “Dust was swarming in a slanting sunbeam; volutes of tobacco smoke joined it and rotated softly, insinuatingly, as if they might form a live picture at any moment” (Nabokov 2001: 140). L’invisibilità del poeta arriva ad essere comparata ad una figura fantomatica che aleggia su un ignaro V. impegnato nell’ars scriptoria: “Sebastian’s spirit seemed to hover about us with the flicker of the fire reflected in the brass knobs of the hearth” (Nabokov 2001: 38). Nonostante ciò, in alcuni casi l’immaterialità di Sebastian pare diventare in qualche modo visibile agli occhi di V.: “[f]or a moment I seemed to see a transparent Sebastian at his desk” (Nabokov 2001: 32). Inoltre, V. sembra percepire la presenza del poeta, sentendo la sua volontà di

aiutarlo nella sua missione e nel suo cimento letterario: “I am sustained by the secret knowledge that in some unobtrusive way Sebastian’s shade is trying to be helpful” (Nabokov 2001: 84); “[r]otting peacefully in the cemetery of St Damier. Laughingly alive in five volumes. Peering unseen over my shoulder as I write this (although I dare say he mistrusted too strongly the commonplace of eternity to believe even now in his own ghost)” (Nabokov 2001: 44).