La profonda discordanza dei teorici sul concetto di ‘postmoderno’ è visibile anzitutto a livello terminologico. Già nel 1870 John Watkins Chapman aveva utilizzato l’espressione ‘postmodern painting’, riferendosi ad ogni tipo di arte che si poneva in maniera rivoluzionaria come superamento dell’Impressionismo3. Qualche decennio più tardi, nel 1917, lo stesso aggettivo viene scelto da Rudolf Pannwitz per descrivere la nuova forma di cultura militarista e anti-umanistica che si era sviluppata nel contesto dell’Europa postbellica, derivando le sue osservazioni dall’analisi filosofica di Friedrich Nietzsche4. Questa connotazione negativa del termine si perde nell’uso che ne fa lo statunitense Bernard Iddings Bell (1926) tra gli anni Venti e Trenta. Secondo il teologo questo nuovo atteggiamento emerge in colui che rifiuta il mondo moderno razionale per immergersi nella fede religiosa, che di per sé è irrazionale. In seguito, nel 1934, il termine compare in un saggio di Federico de Onís5 che funge da introduzione alla Antologia de la Poesia Española y Hispanoamericana, per indicare una fase successiva al modernismo in letteratura. Nel contesto delle discipline storiche sarà Arnold Toynbee a menzionare il postmoderno in A Study of History (1954) per indicare un periodo di declino culturale in seguito alle due guerre mondiali. Nell’articolo “The New Mutants” (1965) Leslie Aaron Fiedler riporta invece l’origine del termine all’universo dei movimenti rivoluzionari sessanteschi e alla nascente controcultura americana ed europea, come spiega Krishan Kumar (2005: 148). L’architetto Joseph Hudnut, invece, conia il termine ‘ultra-modern’ (‘ultramoderno’)6, che identifica un atteggiamento dell’uomo privo di sentimentalismo e orientato alla scienza come unica possibilità di miglioramento per la propria esistenza. Il termine ‘postmoderno’ fa dunque la sua comparsa ben prima rispetto alla canonica data del 1972, ed è già impiegato in ambiti diversissimi tra loro, come quello artistico, culturale, spirituale, storico e sociale. Il minimo comune denominatore semantico sembra essere quello di un nuovo atteggiamento rispetto al passato; tuttavia, non c’è coesione nel giudizio in merito, che oscilla tra l’estremo positivo e quello negativo. A parte questi sporadici riferimenti, sarà però nel contesto architettonico che la parola ‘postmodernismo’ avrà maggior fortuna, diffondendosi poi, in maniera piuttosto rapida, ad altri settori, come quello critico, economico e politico.
3 (Sim 2005: VIII).
4 Per approfondimenti vedi Pannwitz (1917). 5 Per approfondimenti vedi Onís (1934). 6 (Sim 2005: VIII-IX).
Remo Ceserani è ritornato a più riprese in questi ultimi anni sul problema della definizione di ‘postmoderno’ (1997, 2002), esprimendo un radicato scontento per la parola ‘postmodernismo’, allora (e tuttora) la più utilizzata per riferirsi all’attuale fase storico-culturale: “[n]on ci piaceva molto il termine, perché sembrava semplicemente indicare che esso veniva dopo la modernità e appariva incapace di definire i tratti specifici della nuova condizione sociale e umana” (Ceserani 2010: 11). L’insoddisfazione deriva principalmente dal fatto che questo termine era stato inizialmente proposto in ambito architettonico. “Ci affannammo, allora,” continua Ceserani, “a tenere ben distinti i tre diversi concetti di postmodernità, come etichetta storica che cercava di individuare i caratteri specifici di un’epoca; postmodernismo, come movimento di idee, programma di poetica e militanza artistica; e postmodernizzazione, come processo che vedevamo in atto nelle nostre società a capitalismo avanzato” (Ceserani 2010: 11). Se poi si volge lo sguardo in Russia, si può trovare, tra le tante, l’opinione di Marjorie Perloff, secondo cui l’accezione ‘postmodernismo russo’ è solamente un ossimoro, in quanto possiede unicamente un carattere segnico di simbolo ed etichetta:
the question remains, at least for me, whether the homologies between the two poetries are really as prominent as they are claimed to be. And a related question would be: given the enormous political, social, and cultural differences between our two countries over the past century, and given the long midcentury hiatus of the Stalinist years, which largely suppressed the ‘Modernism’ to which recent developments are supposedly ‘post,’ can we expect to find comparable poetic paradigms? (Perloff 1993)7.
Lipoveckij, inoltre, sostiene l’inapplicabilità di un simile concetto alla realtà russa, poichè troppo differente da quella occidentale; tuttavia, “the inability to apply Western concepts of postmodernity to Soviet and post-Soviet culture hardly means that there is no such thing as Russian postmodern condition; rather, [...] Russia simply has a different teleology” (Lipoveckij 1999: 4). Viene dunque evidenziata, in ambito russo, una sostanziale intraducibilità non solo formale, ma anche contenutistica, del termine, nonostante la sua velocissima adozione retroattiva. Infatti, essendo nata in Occidente, difficilmente la nozione potrà adattarsi ad una realtà culturale così diversa; sulla stessa linea di pensiero russa si situeranno, come si vedrà, anche i critici polacchi, che a tutt’oggi ritengono inadatto l’uso di un simile aggettivo. Andrà poi sottolineato che,
analogamente a quanto avviene in Occidente, anche in Russia il concetto di ‘postmoderno’ assumerà variegate accezioni.
Nel corso degli anni sono stati molti i tentativi per sostituire il termine ‘postmoderno’8: Jean-François Lyotard, ad esempio, ha proposto La condition postmoderne (1979), titolo dell’omonimo libro; il sociologo inglese Anthony Giddens (1998) ha invece parlato di ‘late modernity’, ‘tarda modernità’. Dall’antropologia francese, e precisamente da George Balandier (2005) e Marc Augé (1992) arriva il termine ‘surmodernity’, ‘sur-modernità’, mentre sempre in ambito francese, ma nel contesto dell’urbanismo e dello studio dello spazio, Paul Virilio (2000) avanza l’ipotesi dell’ ‘hypermodernism’, ‘iper-modernità’. Più cauto, e meno deciso sembra invece il sociologo tedesco Ulrich Beck (1996), al quale si sono poi allineati anche Giddens e Scott Lash, nel suggerire un ampio ventaglio di possibilità: ‘zweite Moderne’ (‘seconda modernità’, Beck 1996) o ‘reflexive modernization’ (‘modernizzazione riflessiva’, Beck, Giddens, Lash 1994). Infine, Arjun Appadurai intitola il suo studio Modernity at Large (1996). Da questa rapida rassegna emerge chiaramente un problema di senso: pur accogliendo la proposta di Carravetta (2009) nel preferire l’aggettivo ‘postmoderno’ al sostantivo ‘postmodernismo’, è chiaro che esso non riesce ad esprimere la forza e la portata del rinnovamento di questa fase storico-culturale. Inoltre, non riesce a render conto di quelle linee di continuità che si possono riscontrare con il periodo precedente. Per avere un’idea chiara del post- il prerequisito imprescindibile è delimitare limpidamente il perimetro del pre-. Infatti, se ‘postmoderno’ indica la fase successiva al ‘moderno’, bisognerà capire cosa si intenda per ‘moderno’. Dalle posizioni illustrate emerge distintamente un profondo disaccordo in merito.
Partendo dalla premessa secondo cui, in lingua inglese, ‘modern’ significa ‘contemporaneo’, Robert B. Ray si chiede “[h]ow, after all, can something which exists now be said to come after the present?” (1990: 131). È vero che nella terminologia critica il termine ‘modern’ identifica uno specifico movimento artistico, prosegue Ray, tuttavia ciò non toglie a questo termine-contenitore un’indubbia ambiguità con precise connotazioni apocalittiche e nichilistiche, per non parlare del suo intrinseco aspetto ossimorico. Oltre a ciò, continua Ray, “[t]he information apparatuses are voracious; mechanical reproduction accelerates their assimilative powers to the point that, by 1987, postmodernism as a topic had already become old hat” (1990: 136).
La posizione di Ray è legittimata dall’etimologia stessa della parola. ‘Modernus’ è un termine basso latino comparso alla fine del V secolo d. C., derivato dall’aggettivo classico ‘hodiernus’, che a sua volta discende da ‘hodie’ (‘oggi’) e quindi dall’avverbio
‘modo’ (‘appena’, ‘ora’). L’uso di questo termine era principalmente negativo, poichè designava qualcosa di nuovo in contrapposizione all’antico, che al contrario era esempio di perfezione, un modello al quale ci si doveva riferire. Il concetto di ‘modernitas’ compare invece durante il Medioevo cristiano (attorno al XII sec.), per discernere tra passato pagano e presente cristiano, assumendo per certi versi una connotazione positiva9. Appare quindi piuttosto evidente che il prefisso ‘post-’ non aggiunge molto rispetto a quanto in realtà il termine esprima già; semmai, una sua applicazione può al massimo portare ad una situazione paradossale10. Significativamente, Ceserani ricollega l’uso del prefisso ‘post-’ ad una sostanziale incapacità dei teorici nel dare un nome al fenomeno; Ceserani parla infatti di
a widespread incapacity to give a distinguishing name to the period, and probably also an intrinsic difficulty in any attempt at selecting the most important feature of the new period to characterise it [...] with the implicit suggestion that it tends at the same time to break away from Modernity and to maintain a certain continuity with that period (Ceserani 2002: 94).
Sembra molto più interessante il versante delle proposte che presentano l’idea di un diverso tipo di modernità; anche qui però si incontrano delle difficoltà. La modernità può esser ‘tarda’ per Giddens (1998): rispetto a cosa, però? Se questa condizione ‘postmoderna’ continuasse, per descrivere le fasi successive si dovrebbe usare un grado comparativo o assoluto (più tarda, tardissima)? La stessa complicazione si presenta anche con l’aggettivo ‘large’, e con i prefissi ‘sur-’ e ‘iper-’, per i quali si incontrerebbero peraltro evidenti barriere linguistiche: ad esempio, è impossibile formare un grado comparativo o assoluto con il suffisso ‘iper-’. L’ipotesi di Beck
9 Il termine ‘modernità’ rimane comunque avvolto da un’aura di negatività durante tutto il Medioevo e il Rinascimento. Kumar propone un interessante excursus a questo riguardo: “È proprio come gli antichi tendevano a guardare indietro all’età dell’Oro, vedendo nel loro tempo il segno della corruzione della vecchiaia, così anche i pensatori medievali sono giunti a considerare il cambiamento una rovina.
Mundus senescit (il mondo invecchia), era la ricorrente sentenza di un cronista merovingio del VII
secolo. ‘Tutto ciò che muta perde di valore’, recita un poema del XII secolo. La novità era equiparata alla banalità, e anche peggio; essa rifletteva la superficialità dell’ordine terreno rispetto a quello divino. […] Così il pensiero medievale cristiano si è riavvicinato a quello dell’antichità classica. Contrariamente a quanto potremmo ritenere, i pensatori cristiani del Medioevo non hanno screditato i loro predecessori pagani in quanto creature ottenebrate, prive della luce della rivelazione cristiana, se non nella prima fase di intenso impegno. Al contrario, la venerazione per gli illustri pensatori dell’antichità – Platone, Aristotele, Virgilio, Cicerone – è stata grande nel Medioevo quanto nel Rinascimento, anche nei casi in cui le principali fonti erano arabe. […] La svalutazione dei moderni e della modernitas è proseguita anche nel Rinascimento, periodo in cui tali termini e i loro affini sono entrati nelle lingue volgari europee con il significato di appartenente o riconducibile al tempo presente o più recente, che ha origine nell’epoca o nel periodo attuale. Ma essere moderno in questo senso non era motivo di
(‘zweite Moderne’, 1996) fa invece temere la possibilità di una terza, quarta, quinta, n+1, modernità, ‘riflessiva’ e ‘riflettente’.