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Come viene narrato nell’incipit, la statua raffigurante Flaubert che domina la scena è una copia di quella originale che era stata portata via dai tedeschi nel 1941 per poi essere fusa. In seguito ne furono fatte tre copie, una più resistente in metallo e altre due in pietra, che si dimostrano piuttosto fragili. Il passare del tempo rivela che

“[n]othing much else to do with Flaubert has ever lasted” (Barnes 2009: 12); persino oggetti ‘resistenti’ come le statue sono soggette ad un evitabile declino, ad una ‘morte’ inesorabile che, come profetizzò Percy Bysshe Shelley in Ozymandias (1818), non lascia scampo nemmeno al più potente:

I met a traveller from an antique land

Who said: Two vast and trunkless legs of stone Stand in the desert... Near them, on the sand, Half sunk, a shattered visage lies, whose frown, And wrinkled lip, and sneer of cold command, Tell that its sculptor well those passions read Which yet survive, stamped on these lifeless things, The hand that mocked them, and the heart that fed: And on the pedestal these words appear:

‘My name is Ozymandias, king of kings: Look on my works, ye Mighty, and despair!’ Nothing beside remains. Round the decay Of that colossal wreck, boundless and bare

The lone and level sands stretch far away14. (Shelley 1970: 550).

Il declino dell’uomo è inevitabile; Maurizio Ascari osserva pertinentemente che “[l]a statua – costruita per resistere nel tempo, ma soggetta all’assalto della guerra – ci ricorda le insidie che ostacolano la trasmissione della memoria culturale, e dalla vulnerabilità della statua alla solidità della parola il passo è breve” (Ascari 2009: 52). Se i segni dell’esistenza materiale sono stati cancellati, sopravvivono invece gli scritti: “[h]e died little more than a hundred years ago, and all that remains of him is paper. Paper, ideas, phrases, metaphors, structured prose which turns into sound” (Barnes 2009: 12). Per riprendere l’ambientazione antico-egiziana proposta da Shelley, vale la pena ricordare una frase pronunciata da Flaubert nel 1857, secondo quanto riferisce Braithwaite:

Books aren’t made in the way babies are: they are made like pyramids. There’s some long-pondered plan, and then great blocks of stone are placed one on top of the other, and it’s back-breaking, sweaty, time-consuming work. And all to no purpose! It just stands like that in the desert! But it towers over it prodigiously. Jackals piss at the base of it, and bourgeois clamber to the top of it, etc. (Barnes 2009: 35-36).

Ciò che effettivamente conta, e sembra non risentire più di tanto del passare del tempo, è l’opera letteraria, che costituisce il vero ‘corpo’ e vera immagine dell’autore, riproponendo l’equazione uomo-libro posta alla base della poetica nabokoviana:

Why does the writing make us chase the writer? Why can’t we leave well alone? Why aren’t the books enough? Flaubert wanted them to be: few writers believed more in the objectivity of the written text and the insignificance of the writer’s personality; yet still we disobediently pursue. The image, the face, the signature; the 93 per cent copper statue and the Nadar photograph; the scrap of clothing and the lock of hair. What makes us randy for relics? Don’t we believe the words enough? (Barnes 2009: 12).

Il narratore si interroga su questo punto, e sul fascino magnetico esercitato dagli oggetti posseduti dall’autore. Per quale motivo vengono percepiti come maggiormente rivelatori rispetto ai libri? A volte, come nel caso di Enid Starkie, sarebbe meglio lasciar perdere le speculazioni relative alla vita dell’autore tratte da oggetti a lui connessi. Infatti, secondo la narrazione di Braithwaite, la donna

chose as frontispiece to her first volume a portrait of ‘Gustave Flaubert by an unknown painter’. It’s the first thing we see; it is, if you like, the moment at which Dr Starkie introduces us to Flaubert. The only trouble is, it isn’t him. It’s a portrait of Louis Bouilhet, as everyone from the gardienne of Croisset onwards and upwards will tell you. So what do we make of that once we’ve stopped chuckling? (Barnes 2009: 79).

L’elemento dello scambio e dell’errore, già presente in maniera ironica a proposito del nome del romanziere francese, viene riproposto qui in chiave più seria. Persino la fotografia non viene tuttavia ritenuta dal narratore come un elemento particolarmente funzionale ai fini biografici in quanto ‘muta’ e incapace di trasmettere informazioni essenziali:

I was going to put my photograph in the front of the book. Not vanity; just trying to be helpful. But I’m afraid it was rather an old photograph; taken about ten years ago. I haven’t got a more recent one. [...] [H]ow real, how reliable is that evidence? What would the photos of my twenty-fifth wedding anniversary have revealed? Certainly not the truth; so perhaps it’s as well they were never taken (Barnes 2009: 103).

Si sottolinea così un evidente controsenso: la fotografia15, arte squisitamente mimetica in virtù dell’impressione esatta dell’immagine sulla pellicola, viene considerata ormai inutile. La foto, strumento di verità per eccellenza, si perde nel mare di immagini associate in maniera più o meno corretta a Flaubert; le effigi si incollano, sovrapponendosi, l’una all’altra, andando a ingrossare lo spesso blocco di quelle già esistenti. Alla sommità di questo blocco comparirà il francobollo francese del 1952 denominato 8F+2F, in cui compare ancora una volta l’immagine di Flaubert (Barnes 2009: 177). Va notato inoltre che le raffigurazioni citate da Braithwaite sono di stampo mimetico; ancora una volta, la narrazione sembra voler minare l’utilità di questo tipo di strumenti per la rappresentazione del personaggio che, in ultima istanza, non è conoscibile.

***

La serie di repliche che si accorpano come grumi attorno al segno vuoto di Flaubert introduce la questione dell’autenticità, fondamentale nucleo tematico attorno al quale ruota il romanzo. L’abbondanza delle imitazioni della statua originale di Flaubert viene duplicata da un altro sistema di oggetti e immagini, che trovano il loro centro nella figura del pappagallo Loulou, il feticcio che funge da catalizzatore per la narrazione. Ossessionato dalla ricerca di informazioni relative al suo scrittore prediletto, Braithwaite porta dunque avanti un secondo tipo di indagine: cerca di scoprire la verità riguardo il pappagallo utilizzato come modello per la stesura del racconto “Un cœur simple” (1877). La sua quest, dal sapore nabokoviano, si concluderà con un esito negativo. Braithwaite, infatti, non riuscirà a trovare l’originale tanto agognato; la sua indagine, motivata dal desiderio di sentirsi più vicino al suo ‘feticcio’ Flaubert attraverso un oggetto concreto, non arriverà a risolversi. Similmente a quanto ritiene Baudrillard (1981), l’originale non esiste: si può solo navigare in un mare di repliche.

Il primo pappagallo che il narratore incontra sul suo cammino fa parte dell’esposizione allestita all’Hôtel-Dieu, luogo dove il padre di Flaubert esercitava la professione medica e il figlio aveva passato la sua infanzia. Questo pappagallo diventa quindi il punto di contatto del personaggio con l’autore:

Loulou was in fine condition, the feathers as crisp and the eye as irritating as they must have been a hundred years earlier. I gazed at the bird, and to my surprise felt ardently in touch with this writer who disdainfully forbade posterity to take any personal interest in him. [...] But here, in this unexceptional green parrot, preserved in a routine yet

mysterious fashion, was something which made me feel I had almost known the writer (Barnes 2009: 16).

L’appassionata ricerca del narratore si complica ulteriormente quando nell’orizzonte delle sue considerazioni compaiono anche altri pappagalli, questa volta vivi, con i quali Flaubert poteva essere entrato in contatto durante la sua vita16 (Barnes 2009: 18). Il primo, quasi mistico incontro con l’animale impagliato all’Hôtel-Dieu acquista un’aura particolare che viene ben presto rimpiazzata da una sconcertante scoperta: “Then I saw it. Crouched on top of a high cupboard was another parrot. Also bright green. Also, according to both the gardienne and the label on its perch, the very parrot which Flaubert had borrowed from the Museum of Rouen for the writing of Un cœur simple” (Barnes 2009: 21). A Croisset Braithwaite si imbatte quindi in un altro pappagallo che, a detta del custode, è quello autentico. “Was any of these four birds, in whole or in part, the inspiration behind Loulou? And did Flaubert see another living parrot between 1853 and 1876, when he borrowed a stuffed one from the Museum of Rouen?” (Barnes 2009: 18). Rispondere a questa domanda non è facile per il narratore, che si imbarcherà in una quest che piuttosto che generare risposte darà vita ad ulteriori ‘questions’. In questa variopinta galleria di personaggi17, che convivono armoniosamente nella creazione letteraria, come capire quale pappagallo è stato realmente utilizzato dall’autore?

All’Hôtel Dieu documentano l’originalità con la presenza di un adesivo posto sotto all’animale, e con una fotocopia del certificato di prestito e restituzione firmato da Flaubert stesso. Ma questo, come giustamente nota il narratore, non è sufficiente a dare la sicurezza che il pappagallo fosse effettivamente quello giusto; una simile scena si verifica anche con il pappagallo di Croisset. In questo momento di crisi, il narratore decide quindi di ricorrere ad una fonte autorevole: in una scena dal sapore romantico, ai piedi della tomba di Flaubert, Braithwaite rilegge il passo del racconto dove è descritto l’animale, constatando che il primo era effettivamente più somigliante. Questa esperienza non riesce però a dissipare i suoi dubbi; non soddisfatto, decide quindi di mettersi in contatto con un eminente studioso, Monsieur Andrieu, il quale illustra le modalità di acquisizione degli animali impagliati da parte di entrambi i musei. I

16 “First there is Loulou, Félicité’s parrot. Then there are the two contending stuffed parrots, one at the Hôtel-Dieu and one at Croisset. Then there are the three live parrots, two at Trouville and one at Venice; plus the sick parakeet at Antibes” (Barnes 2009: 57).

17 Similmente a quanto avviene per le immagini, anche le opinioni sulle varie autenticità si moltiplicano all’interno della narrazione. Viene anche presa in considerazione la versione fornita dalla nipote di Flaubert, che però si rivelerà fuorviante: “Caroline, in her Souvenirs intimes, remarks that ‘Félicité and her parrot really lived’ and directs us towards the first Trouville parrot, that of Captain Barbey, as the true ancestor of Loulou” (Barnes 2009: 57).

curatori fanno domanda di acquisto allo stesso museo al quale si era rivolto lo scrittore per avere un pappagallo; la scelta era ampia, poiché il museo possedeva “[u]ne cinquantaine de perroquets!” (Barnes 2009: 187). A questo punto, però, nella mente del narratore si palesa una perplessità: se quello di Croisset aveva avuto per primo la possibilità di scegliere, perché ha optato per un esemplare che assomiglia meno a quello del racconto? La risposta dello studioso è decisa:

‘Well, you have to remember two things. One, Flaubert was an artist. He was a writer of the imagination. And he would alter a fact for the sake of a cadence; he was like that. Just because he borrowed a parrot, why should he describe it as it was? Why shouldn’t he change the colours round if it sounded better?

‘Secondly, Flaubert returned his parrot to the Museum after he’d finished writing the story. That was in 1876. The pavilion was not set up until thirty years later. Stuffed animals get the moth, you know. They fall apart. Félicité’s did, after all, didn’t it? The stuffing came out of it’ (Barnes 2009: 188).

A tutte queste incertezze nella mente di Braithwaite si somma un altro, atroce dubbio: “‘So you mean either of them could be the real one? Or, quite possibly, neither?’” (Barnes 2009: 188). Lo studioso risponde con una semplice alzata di braccia, che lascia presagire l’esito finale delle ricerche:

There, standing in a line, were the Amazonian parrots. Of the original fifty only three remained. Any gaudiness in their colouring had been dimmed by the dusing of pesticide which lay over them. They gazed at me like three quizzical, sharp-eyed, dandruff-ridden, dishonourable old men. They did look – I had to admit it – a little cranky. I stared at them for a minute or so, and then dodged away. Perhaps it was one of them. (Barnes 2009: 190).

Questi animali impagliati, irrimediabilmente consunti dal passare del tempo, non sono altro che il riflesso sbiadito degli ‘autentici’ precedentemente incontrati dal narratore. Il fallimento della ricerca di Braithwaite era tuttavia prevedibile sin dalle prime pagine del romanzo, in occasione delle sue critiche contro l’eccessivo interesse del pubblico per gli oggetti appartenuti all’autore piuttosto che per la sua opera. Al pari delle immagini, il pappagallo può restituire poco o nulla di Flaubert, considerando anche il fatto che, come giustamente osserva Monsieur Andrieu, nell’attività dello scrittore subentra inevitabilmente l’immaginazione. Nella finzione mai nulla corrisponde perfettamente alla realtà: questa deduzione pare sgretolare l’importanza del realismo

in letteratura. Così come si sbriciolano le certezze di Braithwaite e la statua di Flaubert, anche il vero pappagallo può esser andato distrutto a causa delle tarme.

Le immagini dei pappagalli dislocati nei vari musei subiscono però un’ulteriore moltiplicazione all’interno del romanzo18. A questi, il lettore dovrà aggiungere le acqueforti del 1974 di David Hockney19 (Barnes 2009: 19, Fig. 1), i ricami raffiguranti pappagalli nel romanzo di Flaubert Salammbô20 (1862), le polaroids che Braithwaite scatterà ai due musei. Vale la pena notare che queste tre raffigurazioni del pappagallo appartengono a livelli diegetici estremamente lontani tra loro, che arrivano a fondersi fluidamente in questa narrazione: se il primo fa parte al mondo reale, gli altri due fanno riferimento a universi finzionali, rispettivamente creati da Flaubert e da Barnes. Oltre a queste immagini va poi ricordata la storia di Henri K, che Flaubert riprende dal giornale L’Opinione Nationale del 20 giugno 1863: “Gradually he began to believe that he himself had turned into a parrot. As if in imitation of the dead bird, he would squawk out the name he loved to hear; he would try walking like a parrot, perching on things, and extending his arms as if he had wings to beat” (Barnes 2009: 58). Questo racconto colpisce molto Flaubert, tanto da spingerlo a scrivere la seguente annotazione: “After the line, ‘gradually the parrot began to take on a rare significance in his mind’, he made the following annotation: ‘Change the animal: make it a dog instead of a parrot’” (Barnes 2009: 58-59). Alla fine, però, non sarà l’animale a cambiare, bensì il suo possessore che diventa una donna, Félicité. La scelta di Flaubert sembra esser particolarmente significativa: lo scrittore predilige un animale che condivide con l’uomo la parola, una parola che sarà sempre ‘imitata’, artificiale, ma dall’apparenza realistica. Il pappagallo ripete di riflesso, meccanicamente; il suo è un uso inconsapevole della parola, che risulterà svuotata di senso.

Non mancheranno inoltre altri simulacri contenuti in riferimenti più o meno velati, come ad esempio nella menzione del pane inzuppato nel vino, detto “la soupe à perroquet, parrot soup” (Barnes 2009: 84) o nel ristorante Le Perroquet21. Loulou diventa addirittura emblema del passato, in una citazione che riprende il ‘bestiario’ connesso a Flaubert: “Sometimes the past may be a greased pig; sometimes a bear in its den; and sometimes merely the flash of a parrot, two mocking eyes that spark at you from the forest” (Barnes 2009: 112).

18 Questo procedimento ricorda ad esempio la moltiplicazione dei sosia nell’omonimo romanzo di Dostoevskij, Двойник [Il Sosia, 1846].

19 A questo proposito, Braithwaite commenta: “I wondered if he’d had one or the other of the parrots in mind when etching his portrait of the sleeping Félicité. If not, then perhaps he in his turn had borrowed a parrot from a museum and used it as a model” (Barnes 2009: 22).

20 “the trademark of the Carthaginian interpreters in Salammbô: each, as a symbol of his profession, has a parrot tattoed on his chest” (Barnes 2009: 20).

21 “Outside, on the pavement, a fretworked wooden parrot with garish green plumage was holding the lunch menu in its beak” (Barnes 2009: 112).

Lo scrittore viene infatti associato a diverse creature del regno animale, tra cui primeggia indubbiamente l’immagine dell’orso, ‘bear’22, che il narratore non manca di accostare ad una serie di modi di dire23. Naturalmente, al di là dell’orso, contribuisce alla caratterizzazione eclettica di Flaubert anche il pappagallo, al quale vengono persino attribuiti tratti umani:

Parrots are human to begin with; etymologically, that is. Perroquet is a diminutive of

Pierrot; parrot comes from Pierre; Spanish perico derives from Pedro. For the Greeks,

their ability to speak was an item in the philosophical debate over the differences between man and the animals” (Barnes 2009: 56-57).

Il nodo che unisce l’artista francese a questo animale viene ulteriormente stretto dalla presenza di una malattia comune, l’epilessia: “Flaubert knew of this fraternal weakness: the notes he took on parrots when researching Un cœur simple includes a list of their maladies – gout, epilepsy, aphtha and throat ulcers” (Barnes 2009: 57).