È naturale che l’uomo, sin dagli albori della civiltà, abbia tratto ispirazione dai suoi simili per modellare il personaggio in letteratura e nelle arti. Attraverso l’autorappresentazione in un codice fondamentalmente inventato, come la costruzione narrativa, l’uomo non solo ha dato sfogo alla sua fantasia, ma ha anche imparato a comprendere meglio la propria esistenza. In questo particolare esercizio di autotraduzione, gli scrittori hanno narrato, e continuano ancora a raccontare frammenti di realtà attraverso lo specchio della letteratura.
La letteratura come specchio è una metafora che parla manifestamente di una visione imitativa della realtà. Questo è infatti stato l’orientamento che ha dato vita ai modelli mimetici che vedono il personaggio come una figura simile a quella umana. Ad oggi, la maggioranza dei modelli proposti per l’analisi del personaggio si basa sulla conoscenza del mondo reale; questo stesso atteggiamento era particolarmente diffuso in Russia durante il periodo sovietico.
Lo studio più significativo sul personaggio dal punto di vista ‘mimetico’ è indubbiamente il classico Aspects of the Novel di Edward Morgan Forster (1927), il cui nome è indissolubilmente legato alla distinzione tra flat (piatto) e round (a tutto tondo) character. “Flat characters [...] are constructed round a single idea or quality” (Forster 2004: 47) mentre “round characters are […] more highly organized” (Forster 2004: 52) e sono “capable of surprising in a convincing way” (Forster 2004: 54). Questa
legata alla percezione dei personaggi: il lettore percepisce in maniera maggiormente familiare figure più riccamente descritte e profonde. L’elemento della percezione viene inoltre menzionato a proposito dell’‘effetto di realtà’: i personaggi sembrano reali non tanto perché ci assomigliano fisicamente, ma perché sono convincenti. A sua volta, il fatto di esser convincenti dipende, secondo Forster, da quanto il romanziere sa di loro; per essere efficaci, l’autore deve sapere tutto: “we can get a definition as to when a character in the book is real: it is real when the novelist knows everything about it” (Forster 2004: 44). A questo punto vien solo da chiedersi se i personaggi conducano una vita segreta ignorata dall’artista che li crea, o se sia davvero possibile che l’autore non conosca i propri personaggi8.
Al di là dell’effetto di realtà, la distinzione9 proposta da Forster è tuttavia estremamente vaga: come comportarsi in situazioni limite? Seguendo la sua definizione, i personaggi postmoderni devono essere, nella maggior parte dei casi, considerati come flat, data la frequente scarsità di dettagli utili per la loro caratterizzazione. In realtà, i personaggi appartenenti a questo specifico gruppo di narrazioni, nonostante sembrino piatti ad una prima lettura, mostrano caratteristiche tali da rendere la loro caratterizzazione persino più ricca di quella classico-mimetica. Mi riferisco, ad esempio, all’intertestualità, qualità che viene loro conferita dall’autore implicito principalmente tramite il nome e una serie di peculiarità rintracciabili attraverso un’indagine di stampo tematico.
Forster ha inoltre proposto la diversificazione tra il cosiddetto ‘homo sapiens’ e ‘homo fictus’; con queste due espressioni si vuole significativamente diversificare due ‘specie’, che tuttavia sono geneticamente imparentate tra loro e nemmeno tanto lontane: l’uomo e il personaggio. Attraverso questa comparazione, Forster arriva a concludere che la seconda categoria sia ben più elusiva:
Here we must conclude our comparison of those two allied species, homo sapiens and
homo fictus. Homo fictus is more elusive than his cousin. He is created in the minds of
hundreds of different novelists, who have conflicting methods of gestation, so one must not generalize. Still, one can say a little about him. He is generally born off, he is capable of dying on, he wants little food or sleep, he is tirelessly occupied with human
8 Questa riflessione può portare alla mente i sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello.
9 La distinzione in due tipologie diverse porta a considerare il sotto-problema delle categorie di personaggio. Rimmon Kenan presenta tre dimensioni per differenziare i personaggi: “complexity, development, penetration into the ‘inner life’” ([1983] 2002: 41). Hochman invece ne propone otto, sotto forma di coppie dicotomiche; per ricordare i più importanti: “stylization—naturalism; complexity—simplicity; dynamism—staticism” (1985). In questo contesto va citato anche lo stereotipo, da sempre considerato come flat. Dyer (1993) distingue tra ‘social ‘type’, riconosciuto in quanto appartenente a determinate categorie sociali familiari al lettore, e ‘stereotype’, che è una sorta di immagine prefabbricata non sempre appartenente al contesto storico-culturale del lettore.
relationships. And — most importantly — we can know more about him than we can know about any of our fellow creatures, because his creator and narrator are one. Were we equipped for hyperbole we might exclaim at this point: ‘If God could tell the story of the Universe, the Universe would become fictitious’ (Forster 2004: 38).
Questa definizione sembra sottolineare la discrepanza che naturalmente intercorre tra personaggio e individuo reale. Nonostante questo pregio, Forster insiste nel descrivere il personaggio in termini di azioni umane, come mangiare, dormire, intrattenere relazioni umane, morire. Oltre a ciò, nelle sue linee generali la formulazione proposta da Forster rischia, in certi casi, di essere errata, come hanno notato Per Krogh Hansen (2008: 236) e, ancor prima, Scholes e Kellogg ([1966] 2006: capitolo 5).
Una corrispondenza più o meno immediata del personaggio con un essere umano emerge anche dal lavoro di Mary Doyle Springer, specialmente quando afferma che “[a] literary character is an artificial construct drawn from, and relatively imitative of, people in the real world” (1978: 14). L’utilizzo di griglie interpretative desunte dal comportamento delle persone reali è consigliato anche da Martin Price, quando spiega che i personaggi letterari “differ from real persons and yet must refer to them and draw their force from what we know their experience to be like” (1983: xiv). Le affermazioni di Springer e Price vanno tenute a mente come punto di partenza per alcuni degli approcci cognitivi illustrati in seguito, in quanto considerano queste figure di carta alla stregua di esseri viventi.
Questo è solo un piccolo campione del consistente numero di studi che si concentrano sulla (presunta) sostanziale identità tra personaggio finzionale e persona reale. Sembra evidente che queste teorie non siano particolarmente adatte ad illustrare la complessità del personaggio letterario. Mentre in alcuni casi, come ad esempio in romanzi realisti, una concezione mimetica di personaggio generalmente funziona, in altre situazioni, e soprattutto nei testi postmoderni, queste stesse premesse mimetiche non riescono a fornire un’interpretazione esaustiva dei personaggi sperimentali, che spesso trasgrediscono le regole e le convenzioni narrative.
Viene ad esempio da chiedersi come sia possibile rapportarsi, seguendo un approccio mimetico, ad un testo estremo come Worstward Ho (1983, la penultima prosa di Samuel Beckett), in cui i personaggi scompaiono? Rimanendo sull’esempio beckettiano, com’è possibile avvicinarsi ad alcuni suoi personaggi, all’interno dei quali ne convivono altri, in una sorta di mise en abyme?
Nonostante gli evidenti limiti teorici e applicativi che queste domande mettono in rilievo, accademici e lettori continuano a favorire una lettura mimetica della nozione di personaggio. Margolin identifica la causa di questa tendenza nel doppio significato
del termine inglese character, che denota sia il concetto narratologico di personaggio sia la personalità, il carattere di un individuo: “the homonimy of the technical and ordinary terms has sometimes led to the exclusive concentration of the psychological aspects of literary figures” (Margolin 2007: 52). Inoltre, il persistere di una simile visione va indubbiamente ricondotto anche alla diffusa opinione secondo cui la letteratura, e le arti in generale, abbiano come scopo primario la fedele riproduzione della realtà. A questo proposito, è sintomatico l’aneddoto di Braque, ricordato da Giuseppe Pontiggia nella sua introduzione all’edizione italiana del libro di Forster: il pittore, criticato da una poco convinta osservatrice dei suoi quadri, viene apostrofato dalla esclamazione: “Maestro, ma questa donna ha un braccio più lungo dell’altro”. Braque allora risponde: “Signora, guardi che questa non è una donna, questo è un quadro” (Pontiggia 2000: 10).