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Belting: corpo, immagine, medium

Un’interfaccia tra interno ed esterno: il corpo e i gest

2.4 Belting: corpo, immagine, medium

Una triade di concetti relativamente simile è stata proposta in tempi abbastanza recenti da Hans Belting in Antropologia delle immagini, ripresa poi nel breve saggio «Immagine, medium, corpo». L’analogia con la teoria dei gesti di Flusser non sta tanto nella scelta dei tre termini, dove l’immagine corrisponderebbe alla Stimmung e il medium al gesto, ma nella funzione che in questa triade ha il corpo. Può non essere un caso che in entrambi i testi Belting citi Flusser. Lo fa, a dire il vero, in termini polemici, limitandosi ad alcuni riferimenti critici alla sua teoria delle immagini tecniche, nonostante ammetta che la sua «intuizione» sull’idolatria della società dei nuovi media «è corretta»49. Tuttavia sappiamo che Belting conosce l’opera di Flusser e se anche non lo cita a proposito dei diversi punti in cui le loro teorie si avvicinano è possibile che le idee del filosofo di Praga siano state, se non una fonte d’ispirazione, almeno un importante stimolo di riflessione.

Belting considera le immagini da un punto di vista antropologico e, come vale anche per Freedberg e per lo stesso Flusser, non gli interessa lo statuto ontologico delle immagini, ma il rapporto tra queste e le persone. Anzi – e in questo consiste uno dei punti di maggiore originalità dello studioso tedesco – «il concetto di immagine può essere soltanto un concetto antropologico»50, perché presenta sempre

49 H. Belting, «Immagine, medium, corpo», in A. Pinotti e A. Somaini (a cura di), Teorie

dell’immagine, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 93. Si discuteranno le posizioni di Belting sulla

teoria di Flusser delle immagini tecniche e dell’idolatria nei prossimi capitoli.

una doppia dimensione, interiore ed esteriore. L’immagine è resa tale dallo sguardo che le rivolge un corpo vivente: un’immagine esiste solo per qualcuno51. Come per Agostino, se scomparissero gli esseri umani, per quanto continuerebbe a esistere la verità, non ci sarebbero più cose vere, perché non ci sarebbe più nessuno a giudicarle tali52, così per Belting senza esseri umani non esisterebbero più le immagini, ma solo

quadri, statue, maschere, cioè solo oggetti. Le immagini materiali sono immagini solo in quanto e fino a quando sono viste, e cioè richiedono la coordinazione con delle immagini mentali. È per questo che Belting può affermare:

Le immagini non sono né su una parete (o su uno schermo) né soltanto nella mente. Esse non esistono di per sé, ma accadono; hanno luogo sia che si tratti di immagini in movimento (nel cui caso è ovvio) sia che invece si tratti di immagini statiche53.

Parlare di immagini interne e di immagini esterne può continuare a essere un utile strumento euristico, solo a patto che si superi un rigido dualismo. Le rappresentazioni endogene ed esogene interagiscono su più piani e «potrebbero essere considerate due facce della stessa medaglia»54. Tanto le une quanto le altre hanno bisogno di un corpo vivo, dotato di organi e di un sistema nervoso che permetta la rievocazione o la percezione di immagini.

Il corpo è il luogo delle immagini, come per Flusser è il luogo delle Stimmungen: le ricorda, le percepisce, le proietta e le esibisce. È un medium vivente, che offre il proprio sistema nervoso come supporto. Ma il corpo è un medium per le immagini anche al proprio esterno, anzi è probabilmente uno dei primi media usati dall’umanità: «non solo un “luogo dell’immagine” ma, anche attraverso la sua apparenza, un trasmittente figurativo. Il “corpo dipinto” delle culture cosiddette primitive ne è d’altronde la più antica testimonianza»55. Ne sono un esempio i visi

truccati, i tatuaggi, le maschere, ma ancora di più i gesti. Secondo Leroi-Gourhan, nonostante sia impossibile in assenza di prove immaginarsi con precisione il comportamento estetico degli esseri umani anteriore alle più antiche raffigurazioni

51 Ivi, p. 13.

52 Agostino, Soliloqui, cit., II 4, 5.

53 H. Belting, «Immagine, medium, corpo», cit., p. 75. 54 Ivi, p. 76.

pittoriche su parete (risalenti a circa 30.000 anni fa), si può pensare che i gesti di mimica e di danza precedano la nascita della musica (non certo del ritmo) e della poesia56. Gli esseri umani si sarebbero fatti immagini coi propri corpi, per poi fare immagini sui propri corpi e infine su corpi estranei: pezzi di legno, pietre, ossa, pareti.

Leroi-Gourhan individua uno dei primi indizi della nascita di un pensiero simbolico nella pratica dei neandertaliani di seppellire i morti e sottolinea come siano di quel periodo le prime tracce della presenza di ocra rossa, materiale colorante, nei luoghi abitati da specie umane57. Anche per Belting il culto dei morti ha un ruolo centrale nello sviluppo della più antica cultura dell’immagine58. Risalgono al

neolitico i crani di Gerico, che testimoniano una particolare usanza: il teschio dei defunti veniva ricoperto da uno strato d’argilla, come fosse una nuova pelle, il viso era dipinto e gli occhi erano sostituiti da conchiglie. Il corpo veniva così rianimato dall’immagine. Più spesso le immagini sostituiscono e rappresentano gli avi già scomparsi. «Si hanno davanti agli occhi immagini così come si possono avere davanti agli occhi dei defunti, che non sono più con noi»59. Il legame con la morte, secondo Belting, è dovuto alla proprietà delle immagini di esibire «la presenza di un’assenza»: queste «sostituiscono l’assenza del corpo con un tipo diverso di presenza»60. Mentre il corpo è legato alla sua materialità, l’immagine può «migrare» di medium in medium: da un corpo fisico, all’occhio che lo percepisce, all’argilla attraverso la mano che la informa. L’immagine ha sempre bisogno di un luogo in cui accadere: se il suo corpo si perde, ha bisogno di un «corpo supplente che chiamiamo medium»61.

Il medium serve da corpo tecnico, così come il corpo funge da medium vivente. Nella terminologia di Belting le immagini non sono media, ma hanno bisogno di media. Questi sono «vettori», «agenti», «dispositivi» attraverso cui i nostri corpi e le immagini interagiscono: sostituiscono i corpi, ma funzionano solo se interfacciati a dei corpi vivi che offrano il loro sguardo. Un errore da non compiere è quello di

56 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 320. 57 Ivi, p. 132.

58 Si veda in particolare il capitolo «Immagine e morte», in H. Belting, Antropologia delle immagini,

cit., pp. 173-225.

59 Ivi, p. 173.

60 H. Belting, «Immagine, medium, corpo», cit., p. 87. 61 Ivi, p. 88.

pensare al medium come all’aspetto materiale dell’immagine: pur servendo come suo supporto, «il medium è una forma»62.

In «L’apparenza del materiale» Flusser scrive qualcosa di simile. Mettendo in discussione l’espressione “cultura immateriale”, fa notare come la cultura attuale non sia caratterizzata dall’assenza di materia – senza la quale non ha senso parlare di forma – ma da un legame debole tra l’immagine e il suo supporto: le immagini oggi tendono a migrare più spesso di quanto facessero prima. Per chiarire la questione contrappone due modi di concepire l’informazione della materia. Nel primo caso quest’ultima è pensata come un pezzo di legno (hyle) che viene intagliato fino a farlo corrispondere a una forma pensata. Nel secondo caso la materia è pensata come Stoff, un materiale informe con cui imbottire (stopfen) una forma disponibile. Pensiamo a un quadro utilizzando il secondo modello: voglio rappresentare un soggetto e decido di farlo stendendo dei colori su una tela. In questo caso non è il colore a rendere visibile una forma, ma la forma-pittura a rendere visibili delle proprietà di quel materiale che altrimenti non sarebbero emerse: «come ogni articolazione culturale, anche la pittura mostra che la materia non appare (è inapparente), a meno che non la si informi»63. Non c’è materiale senza forma, non c’è immagine senza medium.