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La storia delle fabbriche

Un’antropologia della tecnica

3.1 La storia delle fabbriche

Il 5 marzo del 1991 Flusser interviene a un convegno di imprenditori dell’AGIPLAN (la società per azioni tedesca della pianificazione industriale) per parlare della stretta relazione tra i luoghi di lavoro e le forme della produzione. Il testo, poi pubblicato postumo nel 1993 con il titolo Die Fabrik1, può essere considerato, insieme alle lezioni di Bochum2, la versione più aggiornata della sua riflessione sulla tecnica, cominciata sin dagli anni ’60.

Anche in questo caso, secondo Flusser, la paleontologia ha qualcosa da insegnarci. L’unico modo che abbiamo di avvicinarci a una comprensione delle forme di vita preistoriche è studiare i giacimenti di ossa e pietre che ci sono rimasti. Nei primi strumenti tecnici siamo in grado di riconoscere dei «gesti congelati» e in quei giacimenti i primi luoghi di produzione, le prime “fabbriche”. Da questo punto di vista Flusser si pone sulla linea di una lunga tradizione che considera l’essere umano come Homo faber prima ancora che come Homo sapiens sapiens, considerando anche che «al cospetto di quanto abbiamo combinato» la nostra doppia sapienza «è per lo meno discutibile»3. Ora, se in paleontologia riconosciamo che i modi di produzione informano profondamente il nostro modo di essere nel mondo e che allo stesso tempo i nostri gesti si registrano nei nostri manufatti, cosa ci vieta di usare questo metodo anche per le epoche storiche? La storia dell’essere umano può essere riconosciuta nella storia dei suoi mezzi di produzione, nella storia della tecnica.

Chi, dunque, si interroga sul nostro passato, dovrebbe anzitutto scavare tra le rovine delle fabbriche. Chi si interroga sul nostro presente dovrebbe anzitutto

1 V. Flusser, «La fabbrica», in Id. La cultura dei media, cit., pp. 177-185. 2 V. Flusser, Kommunikologie weiter denken, cit.

criticare le fabbriche odierne. E chi solleva il problema del nostro futuro pone la questione della fabbrica del futuro4.

L’analisi delle ceramiche neolitiche ci permette di fare ipotesi molto avanzate sulla società, sul pensiero e sulla vita quotidiana di gruppi di persone di cui altrimenti non sapremmo nulla. E potendo studiare la bottega di un calzolaio del XIV secolo in un comune dell’Italia settentrionale si comprenderebbero meglio le radici dell’umanesimo, del Rinascimento e persino della Riforma, che attraverso la lettura di molti testi di filosofia. Le “fabbriche” non sono solo luoghi in cui gli esseri umani hanno prodotto: «sono luoghi in cui si producono forme sempre nuove di uomini»5. Flusser, quindi, non può che concordare con McLuhan quando quest’ultimo scrive: «Ogni tecnologia tende a creare un nuovo ambiente umano. […] Un ambiente tecnologico non è soltanto un contenitore passivo di uomini, bensì un processo attivo che rimodella gli uomini»6. Flusser non intende affermare che la tecnica determini univocamente la natura degli esseri umani, ma che, insieme ad altri media come il corpo, i gesti, il linguaggio e la religiosità, informi il loro modo di stare al mondo. La storia della tecnica è quindi una delle storie dell’essere umano, ma è una storia che, secondo Flusser, è stata fin troppo trascurata e ha ancora molto da insegnarci.

Nelle diverse varianti di questa storia della tecnica proposte dal filosofo di Praga, si ritrova sempre un’articolazione in tre momenti principali: la produzione preindustriale attraverso semplici strumenti, quella industriale che fa uso di macchine e quella postindustriale caratterizzata da apparecchi. Nel saggio sulla fabbrica, però, viene aggiunto il riferimento a un ulteriore dispositivo tecnico, che anticipa tutti gli altri: le mani. Non esiste, tuttavia, nessun’epoca di produzione esclusivamente manuale, perché da quando si può parlare di esseri umani esistono strumenti tecnici. Perché, allora, questo riferimento alle mani? L’obiettivo di Flusser è quello di mostrare come gli oggetti tecnici siano “trasudati” dalle mani e che debbano essere compresi come loro esternalizzazioni: «strumenti, macchine e apparati possono essere considerati come simulazioni che prolungano le mani come protesi e

4 Ivi, p. 178.

5 Ivi, p. 179.

ampliano, di conseguenza, l’informazione ereditata con informazione culturale, acquisita»7.

Nell’ottavo capitolo di Il gesto e la parola, intitolato «Il gesto e il programma», Leroi-Gourhan aveva proposto una simile storia della tecnica intesa come storia dell’esteriorizzazione dell’attività tecnica della mano a cui corrisponde una sua parallela liberazione da questa stessa attività. Mentre le azioni di prensione, manipolazione e impasto restano a lungo opera della mano, con lo sviluppo dei primi strumenti «le operazioni di sezionamento, di frantumazione, di modellatura, di raschiamento e di scavamento si trasferiscono negli utensili. La mano cessa di essere utensile e diventa motore»8. La pietra scheggiata funge da artiglio protesico, ma la mano è ancora occupata a muovere lo strumento.

La seconda tappa in questo percorso di liberazione della mano consiste nell’esteriorizzazione della funzione motoria, ma anche in questo caso si tratta di un processo molto graduale. In una prima fase vengono inventati strumenti che permettono il potenziamento del gesto motore della mano, che resta necessario. Ne è un buon esempio il propulsore, un’asta di legno che tramite un uncino si aggancia all’estremità della zagaglia (una sorta di giavellotto) e permette di accelerare il lancio grazie al prolungamento del braccio e a un’articolazione aggiuntiva. Archi (le armi da lancio) e leve appartengono a questa categoria: potenziano il gesto, ma non liberano la mano dalla motilità. Una seconda fase prevede l’impiego della forza animale e di quella del vento e dell’acqua. Nel primo caso, quello della macchina

animale, il gesto motorio è semplicemente spostato sull’azione di guida del motore

animale, che richiede un discreto sforzo fisico e continua a tenere occupato l’essere umano. Nel caso della macchina automotrice, invece, la mano interviene solo per dare l’avvio al movimento, alimentarlo, correggerlo o sospenderlo. Dall’età del bronzo alla fine del XVIII secolo la forza animale, e quella del vento e dell’acqua, sono state le uniche a poter sostituire il gesto motore umano. Ma è stata solo l’invenzione della macchina a vapore a consacrare «definitivamente l’esteriorizzazione del muscolo»9.

7 V. Flusser, «La fabbrica», cit., p. 179.

8 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 283. 9 Ivi, p. 290.

La terza tappa nel processo di liberazione della mano consiste nel superamento della necessità di correggere e guidare il funzionamento della macchina, limitandosi a un’operazione di controllo. Questo è possibile solo se il dispositivo tecnico è dotato non solo di organi esecutivi (come tutti gli strumenti) e della possibilità di usufruire di fonti di energia diverse dalla forza motrice umana (come tutte le macchine dal mulino alla locomotiva), ma anche di un programma che regola l’esecuzione dell’operazione nelle sue diverse fasi. In altre parole «l’evoluzione si accinge a compiere un nuovo passo, quello dell’esteriorizzazione del cervello, e dal punto di vista strettamente tecnologico la mutazione è già avvenuta»10. L’intera evoluzione tecnica può essere letta anche come un percorso che va dalla simulazione di singole parti del corpo, alla simulazione di un corpo intero, fino alla simulazione di corpi senzienti e pensanti. Sin dal XII secolo si sono registrati tentativi di animazione delle macchine ed è chiaro che l’animazione richieda un discreto sviluppo delle tecnologie motrici, ma bisogna distinguere gli automi, come i meccanismi a orologeria (che sono stati perfezionati prima dall’introduzione della molla a spirale, nel XV secolo, e poi dall’impiego di pignoni e camme, nel XIX secolo), dalle più recenti macchine programmate. Nei primi si esternalizza solo la memoria operazionale, ma non è presente niente che possa fungere da sistema nervoso: la loro memoria è rigida, non modificabile durante il suo utilizzo ed «è costituita da una concatenazione di movimenti semplici la cui successione è registrata negli stessi organi meccanici»11. I nuovi «cervelli artificiali»12, al contrario, sono dotati di una rete di coordinamento che permette al sistema centrale di trasmettere degli ordini e di controllarne l’esecuzione; la memoria è trasformabile in modo da accogliere le informazioni provenienti dagli organi sensori di cui la macchina è dotata, così da poter «orientare la propria azione, correggerla, interromperla»13.

La scansione della storia della tecnica in strumenti, macchine e apparati proposta da Flusser, benché molto meno specifica, presenta un’articolazione simile a quella elaborata da Leroi-Gourhan. Si può riconoscere una progressiva delega di operazioni

10 Ivi, p. 297. 11 Ivi, p. 294. 12 Ivi, p. 311.

13 Ivi, p. 295. L’analisi di Leroi-Gourhan delle tecnologie più recenti sembra debitrice dell’opera di

Norbert Wiener. The Human Use of Human Beings. Cybernetics and Society (vedi infra) è citato, infatti, nella bibliografia di Il gesto e la parola.

sempre più complesse ai dispositivi tecnici, un percorso di liberazione dell’essere umano dal lavoro. Gli strumenti, i più antichi dispositivi tecnici, «sono prolungamenti degli organi del corpo umano» 14 e «simulano l’organo che prolungano: la freccia il dito, il martello il pugno, la zappa le dita dei piedi»15. Per

simulazione si intende qui la selezione di tratti pertinenti a scapito di altri. Una

simulazione consiste necessariamente in una semplificazione e non in una copia esatta, altrimenti perderebbe tutta la sua efficacia. Se simulo un braccio in una leva è perché «in essa è potenziata la capacità di sollevare, mentre tutte le altre funzioni che il braccio possiede vengono trascurate. La leva è più “stupida” del braccio, ma arriva più lontano e solleva pesi maggiori»16.

Flusser cerca di comprendere la forma di vita che corrisponde a questo modo di produzione analizzando le condizioni poste dal medium, con una particolare attenzione alla spazialità che l’operazione comporta17. Per ragioni architettoniche,

prima ancora che economiche, il lavoratore dell’epoca preindustriale si trova al centro della sua “fabbrica”, circondato dagli strumenti di cui ha bisogno. Questo vale tanto per la produzione della selce nel paleolitico, come sappiamo dai reperti studiati dai paleoetnologi, quanto per gli artigiani del Basso Medioevo. Gli esseri umani sono al centro della produzione sia fisicamente che metaforicamente: sono le costanti e i loro strumenti sono le variabili dell’intero processo.

Con la rivoluzione industriale, tuttavia, gli strumenti non si limitarono più alla simulazione empirica, ma fecero ricorso alle teorie scientifiche: divennero “tecnici”. Diventarono perciò più potenti, più grandi e più costosi, le loro opere divennero meno care, più numerose, e da allora in poi gli utensili si chiamarono “macchine”18.

La prima rivoluzione industriale, il passaggio dalla produzione artigianale, attraverso strumenti, a quella attraverso le macchine, è considerata da Flusser come un frutto della rivoluzione scientifica. Questo gli serve soprattutto per mostrare la

14 V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, cit., p. 25. 15 Ibid.

16 V. Flusser, «La leva passa al contrattacco», in Filosofia del design, Bruno Mondadori, Milano 2003,

p. 43.

17 Il tredicesimo capitolo di Il gesto e la parola di Leroi-Gourhan, «I simboli della società», è quasi

interamente dedicato a un’analisi antropologica degli spazi abitati, dal paleolitico alla città moderna.

tendenza, tipica del meccanicismo, a valorizzare a ogni livello della cultura ciò che è quantificabile, traducibile in elementi chiari e distinti. Si preoccupa degli effetti dell’industrializzazione sugli esseri umani, trascurando il processo opposto di esternalizzazione del muscolo, su cui invece aveva posto l’accento Leroi-Gourhan. Per Flusser le macchine sono ancora genericamente delle simulazioni del corpo umano, dei suoi prolungamenti. Ma ad attrarre nuovamente il suo interesse è la prossemica della “fabbrica”, il modo in cui la spazialità che questo nuovo modo di produzione comporta finisce per agire sulle condizioni di vita umane. Per essere efficienti le macchine devono essere grandi e costose: sono queste adesso a trovarsi al centro, inamovibili, circondate da operai. La macchina è diventata la costante dell’industria, e gli esseri umani sono le variabili. Così come un calzolaio sostituisce un ago quando questo si rompe, nell’epoca delle macchine «se un uomo invecchia o si ammala, il proprietario della macchina lo rimpiazza con un altro»19. Osservando questo episodio si potrebbe pensare che è il proprietario della fabbrica a essere la costante, ma per Flusser è anch’egli una variabile: un altro capitalista può sempre arrivare a sostituirlo rilevando la sua proprietà.

A partire dalla fine del XIX secolo si può registrare un altro passaggio fondamentale, a cui si fa spesso riferimento come seconda rivoluzione industriale. Si tratta, secondo Flusser, di una rivoluzione ancora in corso, i cui esiti non sono pienamente prevedibili, il che rende particolarmente complesso comprendere cosa caratterizza questa nuova fase. «Le teorie si sono affinate e così le macchine sono diventate sempre più efficienti e allo stesso tempo più piccole e, soprattutto, più intelligenti»20. In primo luogo, in che direzione si sono affinate le nuove teorie scientifiche? Se ciò che sapevamo di meccanica era già abbastanza sviluppato all’epoca della prima rivoluzione scientifica, solo recentemente sono stati realizzati notevoli sviluppi per quanto riguarda le teorie sul mondo organico. Le “nuove macchine” sono caratterizzate dal fatto di essere progettate in base a «teorie e ipotesi neurofisiologiche e biologiche»21, tanto che la seconda rivoluzione industriale può

essere considerata una «Rivoluzione industriale “biologica”»22. Le nuove tecnologie

19 V. Flusser, «La fabbrica», cit., p. 180.

20 V. Flusser, «La leva passa al contrattacco», cit., p. 44. 21 V. Flusser, «La fabbrica», cit., p. 181.

si distinguono per il fatto di essere simulazioni neurofisiologiche del corpo umano, o addirittura «prolungamenti dei nervi e della mente umana»23. Anche qui, sebbene in modo meno lucido che in Leroi-Gourhan, può essere riconosciuta l’intuizione di concepire le tecnologie più recenti come esteriorizzazioni del cervello. La formulazione più chiara di quest’idea da parte di Flusser si trova, probabilmente, in un’intervista del 1988: «Finora la tecnologie hanno sempre simulato il corpo. Per la prima volta le nostre nuove tecnologie simulano il sistema nervoso»24. Sta

emergendo ora la possibilità di realizzare qualcosa di simile a delle «macchine “inorganiche intelligenti”»25. Perciò non si può negare di avere a che fare con

qualcosa di diverso da ciò a cui eravamo abituati prima: non più solo delle macchine, ma degli apparati26.