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L’idolatria come tradimento

Non ti farai immagine

1.3 L’idolatria come tradimento

Nei Profeti la metafora dell’adulterio è ripresa e ampliata. In Osea il popolo d’Israele è rappresentato come una sposa infedele che insegue gli amanti che le offrono più doni materiali (pane, acqua, lana, lino, olio e bevande): «Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora”»19. Il peccato di idolatria è letto

come una forma di prostituzione, per cui l’idolatra si rivolge al dio che gli offre di più. Ezechiele riprende la metafora ricostruendo l’intera storia della relazione matrimoniale: Gerusalemme era nata sporca, nuda e impura. Un giorno Dio la vide e giurò alleanza con lei: la lavò, la unse, la vestì e la coprì di gioielli, al punto che la sua bellezza la rese famosa tra le genti.

Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante. […] Ad ogni prostituta si dà un compenso, ma tu hai dato il compenso a tutti i tuoi amanti e hai distribuito loro doni perché da ogni parte venissero da te per le tue prostituzioni. Tu hai fatto il contrario delle altre donne, quando ti prostituivi: nessuno è corso dietro a te, mentre tu hai distribuito doni e non ne hai ricevuti, tanto eri pervertita20.

L’idolatra è persino peggiore di chi si prostituisce. Non svende solo il suo corpo, ma usa i doni che gli sono stati offerti per comprare il proprio successo. La mentalità dell’idolatra è quella del dare per avere, della retribuzione, dimentico del valore del dono. E tuttavia, dopo aver tanto offerto agli altri dèi, non ottiene niente in cambio. Perché non esistono, perché sono deboli e inefficienti o perché non gli sono fedeli come lo è solo JHWH? Halbertal e Margalit non escludono l’ipotesi conosciuta come

monolatria21, secondo cui in uno stadio primitivo, di cui si trovano ancora tracce nella Bibbia, gli ebrei non avrebbero escluso l’esistenza di altri dèi: ciò che li opponeva al paganesimo era l’elezione esclusiva di JHWH e il divieto di rivolgersi a qualsiasi altro dio. In questo senso il principio anti-idolatrico sarebbe precedente alla nascita del monoteismo vero e proprio e ne costituirebbe il fondamento. Secondo

19 Os 2, 9.

20 Ez 16, 15; 33-34.

21 Cfr. M. Smith, «The common Theology of the Ancient Near East», Journal of Biblical Literature,

un’altra ipotesi, invece, i riferimenti agli altri dèi potrebbero semplicemente essere parte della metafora e servire a descrivere l’atteggiamento degli idolatri e il loro tradimento di Dio.

Al di là della questione strettamente teologica, ciò che ci interessa di questi passi, per quanto riguarda il problema dell’idolatria, è il comportamento dell’idolatra e la mentalità che lo sostiene. Per descriverlo Flusser usa, non a caso, la metafora della prostituzione. Come in Ezechiele, a prostituirsi non sono gli idolatri, ma gli idoli:

Appaiono così, semplicemente, a portata di mano, prostituiti e pronti a essere appresi e compresi da me. Sono qualcosa di compatto, pieno di sé, qualcosa di iscrivibile e manipolabile. Permettono che sia io a governarli e questo mi provoca disgusto. La prostituzione dei modelli, la richiesta degli idoli di essere utilizzati: è questo il paganesimo. L’adorazione di Ishtar è, di fatto, una manipolazione di Ishtar da parte mia, è magia. La magia è costruzione di modelli che sono presi per reali e poi utilizzati per la manipolazione di questa supposta realtà. L’idolatria è questa e perciò è disgustosa22.

Noi dipendiamo da Dio – è Lui che ci ha lavati e vestiti – mentre gli idoli dipendono da noi. La radice del peccato di idolatria è l’illusione di poter manipolare il mondo come fosse a nostra disposizione e pensare di poter fare a meno dell’assolutamente altro. Per questo il peccato originale e la costruzione della torre di Babele possono essere visti come forme di idolatria23: si considera ciò che si è

prodotto con le proprie sole forze come sufficiente.

Insieme alla metafora matrimoniale è presente nei testi sacri anche una metafora politica, per cui secondo Halbertal e Margalit l’alleanza stabilita con Dio è modellata sui patti tra i re e i loro vassalli. All’adulterio si accosta il tradimento politico: la ribellione. Questa può essere esplicita, laddove si disobbedisca esplicitamente a un ordine divino, o implicita, quando si pensa di non aver bisogno dell’aiuto divino. Nel racconto della campagna di Gedeone a ovest del Giordano, per esempio, in un primo momento Dio non gli permette di vincere proprio perché il suo esercito è troppo forte: «Il Signore disse a Gedeone: “La gente che è con te è troppo numerosa, perché

22 V. Flusser, «Não imaginarás», cit., p. 212, trad. mia.

23 Il Midrash Genesi Rabbah (38, 8) interpreta così il passo sulla torre di Babele, Gn 11, 4: «“E ci

io metta Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: ‘La mia mano mi ha salvato’”»24.

Il rapporto tra Israele e Dio come di un suddito verso il suo monarca («il Signore vi ha presi […] perché foste un popolo che gli appartenesse»), nel cui contesto dev’essere letto il secondo comandamento, risulta ancora più evidente se si fa riferimento al paradosso della sovranità di cui tratta Giorgio Agamben in Homo

Sacer, il quale fonda la sua riflessione sulle nozioni di eccezione, decisione e

sovranità elaborati da Carl Schmitt, che a sua volta scrive: «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati»25. Uno dei maggiori problemi della ricostruzione di Halbertal e Margalit sta proprio nel considerare il rapporto con Dio modellato sulla base dei patti con il sovrano, senza prendere in considerazione quanto il monoteismo biblico abbia influenzato a sua volta il concetto di sovranità della tradizione occidentale.

«Il sovrano è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico»26: è in questo senso che Dio, l’assolutamente altro, stabilisce una norma fondata sull’esclusione degli altri – gli idolatri. Dio ordina di costruire un altare di legno d’acacia, rivestito d’oro (Esodo 30) e allo stesso tempo di distruggere gli altri altari (Esodo 34).

Rispetto alle culture pagane che sono capaci di trovare il divino ovunque, l’ebraismo sembra caratterizzato da una riduzione del sacro all’eccezionalità, ma – diversamente da come avverrà con il cristianesimo – questa riduzione è finalizzata ad attribuire al poco che resta di sacro un carattere di autenticità che ne aumenta la gloria e lo rende fondativo. Si tratta di un movimento simile a quello del dubbio cartesiano, la cui funzione è quella di individuare l’unica verità indubitabile, che permetta a sua volta di estirpare ogni dubbio e ogni errore – così come i Profeti intendono estirpare ogni idolo. Perciò Agamben può parlare di un’ambivalenza del sacro valida anche per il mondo ebraico e non solo per quello latino arcaico, dove

homo sacer era colui che il popolo aveva giudicato per un delitto: chi era considerato

24 Gdc 7, 2.

25 C. Schmitt, «Teologia politica», in Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 2014 (1932), p.

61.

sacro non poteva essere sacrificato, perché già apparteneva agli dèi, ma poteva

essere ucciso da chiunque senza che ciò fosse considerato omicidio.

Accanto a tabù che corrispondono esattamente a regole di santità e che proteggono l’inviolabilità degli idoli, dei santuari, dei preti, dei capi e, in generale, delle persone e delle cose che appartengono agli dèi e al loro culto, troviamo un’altra specie di tabù che, in ambito semitico, ha il suo parallelo nelle regole di impurità27.

Gli idoli, come tutte le cose impure, non vanno avvicinati perché possono contaminarci, mentre noi non dobbiamo avvicinarci troppo a ciò che è sacro perché possiamo contaminarlo («Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano», Esodo 20, 7)28. Perciò si può parlare anche per alcuni aspetti della tradizione ebraica di un’ambiguità del sacro, «che esclude includendo»29 e ha sempre bisogno di

fronteggiare il sacrilego.

1.4 L’invisibilità

A questo punto la questione che Flusser aveva ironicamente definito estetica, quella della rappresentabilità di Dio, acquisisce un senso nuovo. «Il Dio di questo monoteismo è inimmaginabile e lo è in un duplice senso: non può essere immaginato, e non deve essere immaginato»30. Secondo Halbertal e Margalit la

rappresentazione visiva di Dio non è sbagliata, ma inappropriata. Si tratta cioè di un problema politico, quello dell’autorità e della sua esposizione, e non di un problema metafisico, quello della sua eventuale invisibilità. Il potere avrebbe due modi di manifestare la propria autorità: il primo attraverso la distribuzione capillare di immagini del sovrano, come avveniva per esempio nella Roma imperiale31; il

27 R. Smith, Lectures on the religion of the Semites (1889), citato in G. Agamben, Homo sacer, cit., p.

84.

28 «Sacer designe celui ou ce qui ne peut etre touché sans etre souillé, ou sans souiller». Dictionnaire

étymologique de la langue latine, in G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 88.

29 G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 85. 30 V. Flusser, «Não imaginarás», cit., p. 210. 31 P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, cit.

secondo negandone qualsiasi raffigurazione e tentando di ridurne al minimo la visibilità, come accadeva con i re di Persia della dinastia sasanide, che parlavano ai sudditi nascosti da uno velo32. Se una rappresentazione visiva di Dio è assolutamente proibita, è pensabile una sua parziale descrizione verbale, perché presenta un minore «degree of exposure» e per la stessa ragione è impossibile pensare di vederlo, ma se ne può ascoltare la voce33.

In Deuteronomio 4 si trova un’ulteriore ripresa del secondo comandamento incentrata questa volta sul problema della visibilità. In primo luogo Mosè, rivolgendosi al popolo, ribadisce di non aggiungere e non togliere nulla ai comandamenti del Signore. Poi elenca ciò che essi stessi hanno visto: «I vostri occhi videro ciò che il Signore ha fatto a Baal-Peor»34; «Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste»35. In seguito ciò che non hanno

visto: «Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non

vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce»36. E infine il comandamento:

Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l'immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l'esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore tuo Dio ha abbandonato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli37.

Le figure celesti sono lasciate agli altri, ma Dio non vuole che il suo popolo commetta un errore, e così si premura di manifestarsi solo attraverso la voce, senza nessuno veda alcuna figura. Halbertal e Margalit sono convinti che la concezione biblica di Dio sia fondamentalmente antropomorfica38 e che neanche la tradizione

32 G. Windengren, «The Sacral Kingship in Iran», in The Sacral Kingship, Brill, Leiden 1959, p. 247. 33 M. Halbertal e A. Margalit, Idolatry, cit., p. 52-53.

34 Dt 4, 3. 35 Dt 4, 9. 36 Dt 4, 12. 37 Dt 4, 15-19.

38 Secondo l’ipotesi documentale esistono quattro principali fonti della Torah: due più antiche,

Jahvista ed Elohista, una Deuteronomica e una più recente, la Sacerdotale, influenzata dalle prime due. Halbertal e Margalit sembrano condividere l’ipotesi e, appoggiandosi alle tesi di Moshe

rabbinica creda in un Dio senza immagine. Solo a partire da Maimonide si sarebbe affermata l’idea secondo cui Dio possiede una forma spirituale (selem: ciò grazie a cui qualcosa diventa ciò che è), in base alla quale viene creato l’uomo, ma non una configurazione (to’ar) che possa essere riprodotta39.

Halbertal e Margalit fondano la loro convinzione principalmente sulla lettura della teofania di Dio a Mosè sulla montagna. Alla richiesta di quest’ultimo di mostrargli la sua gloria, il Signore risponde che proclamerà il proprio nome davanti a lui, e aggiunge:

“Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”40.

Da questo passo sembra che Dio possa manifestarsi in un corpo antropomorfico, con tanto di mani e spalle e che semplicemente non sia consentito a Mosè vedere il suo volto.

Secondo Gerhard von Rad, al contrario, «è evidente che la condanna delle immagini presuppone una salda fede nella spiritualità di Jahvé, intesa […] come una realtà che sovrasta il potere conoscitivo umano»41. Tutti i riferimenti a elementi

corporei sarebbero tentativi di comunicare la gloria divina per analogia. Tanto l’impossibilità di vedere Dio quanto il divieto di farsi qualsiasi immagine sono fondati, sempre secondo von Rad, sulla fede nella creazione. Dio stesso non può essere visto perché qualsiasi gloria visibile, persino il cielo e il sole stesso, sono sue creature.

Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri? […] Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile42.

Weinfeld, ritengono la fonte Jahvista quella contenente concezioni più chiaramente antropomorfiche, mentre quella Deuteronomica presenterebbe un’idea più astratta di Dio.

39 Maimonide, Guida ai perplessi, 1:1, Utet, Torino 2005. 40 Es 33, 20-23

41 G. von Rad, «Il divieto delle immagini nell’Antico Testamento», in eikon, G. Kittel (a cura di),

Grande lessico del Nuovo Testamento, cit., pp. 139-146.

Se neanche gli astri possono essergli paragonati, tanto meno potrà esserlo l’immagine di un corpo, per quanto maestoso: «Tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui, come niente e vanità sono da lui ritenute. A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?»43. L’uomo non può farsi alcuna immagine

perché riproducendo una qualsiasi figura si sostituisce al Creatore: «Maledetto l'uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d'artefice, e la pone in luogo occulto!»44. L’immagine è un abominio

per il fatto stesso di essere prodotta da mano umana, opera di artigiano, frutto di una tecnica che si vuole autosufficiente.