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Idolatria e intersoggettività

Non esiste alcun idolo al mondo

3.4 Idolatria e intersoggettività

92 Per riferirsi alla scissione della coscienza Girard usa l’espressione double bind, doppio vincolo, che

riprende da G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1980, pp. 244-270, e dalla scuola di Palo Alto, P. Watzlavick, J. Beavin, D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, cit., pp. 72-226. L’esempio riportato da Bateson è di una madre che rivede il figlio ricoverato da tempo per disturbi psichiatrici: il figlio tenta di abbracciare la madre, che si irrigidisce. Il figlio esita, al che la madre gli dice che non deve avere paura dei suoi sentimenti, come se quella del figlio non fosse una reazione al suo gesto, ma fosse determinata da ciò che prova. Da parte della madre sono presenti due livelli di comunicazione: uno gestuale, che esprime freddezza, da lei rimosso, e uno verbale, che intende esprimere affetto, ma in realtà accusa il figlio di essere responsabile dell’incomunicabilità.

93 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 228.

94 V. Flusser, «Do estranho», cit., p. 130, trad. mia. In questo contesto Flusser cita anche Hitler, in un

implicito riferimento alle tesi che H. Arendt esprime in Id., La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2013, opera che lo ha influenzato moltissimo (cfr. V. Flusser, «Sulla banalità del male», in Flusser

Studies 19, maggio 2015 [1969]). Demonizzare il nazismo è pericoloso, perché si rischia di fare del

popolo tedesco un capro espiatorio, riaprendo la spirale mitica della violenza. Non è un caso che il primo lavoro di Arendt sia dedicato al concetto di amore in Agostino.

Lo sforzo di non cedere alla tentazione di tornare al mito dev’essere esercitato in ciascuno di noi, quotidianamente. All’obiezione che abbiamo bisogno di identificarci e quindi di passare attraverso il processo necessariamente violento della differenziazione, Flusser risponde che il modello dell’amore o, come preferisce chiamarlo, dell’intersoggettività, permette un’identificazione, per quanto diversa da quella mitica. L’estraneo che inevitabilmente ricerchiamo in una situazione di caos indifferenziato non deve essere un oggetto di differenziazione, un “lui”, bensì un “tu”.

Flusser si riferisce qui al principio dialogico di M. Buber, che in Io e tu, considera due atteggiamenti fondamentali dell’essere umano, determinati da due coppie di parole: io-tu e io-esso. Il presupposto fondamentale è che «non c’è alcun io in sé»95, ma solo un “io” che si rivolge a un “tu” e un “io” che si rivolge a un “esso”, dove la relazione è considerata precedente all’individuazione. Il regno dell’esso è quello fondato da un atteggiamento transitivo nei confronti del mondo, dall’io che si pone come soggetto di un oggetto («Percepisco qualcosa. Provo qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso qualcosa»96). Il regno del tu è quello dell’amore, che non è un sentimento, ma una relazione in cui si sta («L’amore è tra l’io e il tu»97), fondata sulla reciprocità (Gegenseitigkeit): «l’amore è responsabilità di un io verso un tu»98. Lévinas commenta così il testo di Buber: «Il rapporto tra io e tu consiste in questo, che l’io si pone di fronte a un qualcosa di esterno, cioè a un ente che è radicalmente altro e lo conferma come tale»99. Nei termini utilizzati finora si può dire che una volta individuato l’estraneo, questo non viene conquistato e ridotto a oggetto di comprensione, ma ci si rivolge a lui come a un tu capace di rivolgersi a noi: non lo si prende come anormale che delimita la nostra normalità, ma ci si rivolge al “tu” come occasione per scoprirsi estranei dell’estraneo, altri dell’altro. Nonostante la relazione fondamentale sia quella tra l’io e il Tu eterno, per chi sta nell’amore tutti gli esseri umani possono liberarsi «dal

95 M. Buber, «Io e tu», in Il principio dialogico, cit., p. 59. 96 Ivi, p. 60.

97 Ivi, p. 69.

98 Ivi, p. 70. La reciprocità non è reversibilità (Umkehrbarkeit), perché il mio tu non è identico all’io

dell’altro e viceversa: ogni risposta è autonoma e solo per questo si può parlare di responsabilità.

99 E. Lévinas, «Martin Buber und die Erkenntnistheorie», in Aa.Vv., Martin Buber, Kohlhammer,

groviglio dell’ingranaggio; i buoni e i cattivi, i savi e i folli, i belli e i brutti, l’uno dopo l’altro diventano per lui reali, diventano un tu»100.

I due volti che, secondo Buber, il mondo ha per l’uomo, il suo duplice atteggiamento (uno oggettivante, l’altro responsabile), richiamano le due vie a cui accenna Paolo (quella della carne e quella dello spirito) e le due reciprocità di cui parla Girard (quella cattiva della violenza e quella buona dell’amore)101. Da una

parte un mondo di cose ridotte a idoli «prostituiti e pronti a essere appresi e compresi da me»102, un mondo di soggetti che si rivolgono a oggetti che non possono

corrispondere e danno origine inevitabilmente a forme di rivalità mimetica; dall’altra l’amore per il prossimo e per il nemico, che è incluso senza essere esaurito, un’apertura intersoggettiva all’estraneo che è possibile perché si scopre in se stessi il punto di vista dell’altro. Da un lato l’idolatria, dall’altro l’agape; da un lato il dominio del soggetto, dall’altro l’intersoggettività.

Il fenomenologo Jean-Luc Marion, in Dio senza essere, elabora un’opposizione che ha molti punti in comune con quella fin qui tracciata, contrapponendo idolo e icona. Il primo non dev’essere inteso come un ritratto, ma come uno specchio «che rinvia allo sguardo la sua immagine o, più esattamente, l’immagine della sua mira»103. Secondo un principio simile a quello della profezia che si autoavvera, come si evince dal passo di Paolo sugli idolotiti104, lo sguardo finisce per dare forma a ciò che si aspetta di vedere. L’idolo restituisce allo sguardo la sua mira, perché è lo sguardo a fare l’idolo, o meglio è la coscienza (la syneidesis paolina). L’idolo è per di più uno specchio invisibile, perché riempie lo sguardo senza eccedenze, senza spazio per l’altro, neanche per una cornice, fino al punto da offuscare la propria funzione. Lo sguardo che fa l’idolo è sempre accompagnato dall’occultamento della propria cattiva coscienza, la consapevolezza di essere costruttori di idoli è sempre rimossa. L’idolo è ingannevole perché non si presenta mai come tale.

L’icona, al contrario, trasforma il nostro sguardo in uno specchio che riflette ciò che guarda. Ma ciò verso cui si volgono i nostri occhi, l’eikon, è a sua volta uno

100 M. Buber, «Io e tu», cit., p. 69.

101 Come abbiamo visto Buber riserva il termine reciprocità (Gegenseitigkeit) a quella buona e chiama

quella cattiva reversibilità (Umkehrbarkeit).

102 V. Flusser, «Não imaginarás», cit., p. 212. 103 J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 26. 104 1 Cor 8, 7-13.

sguardo rivolto a noi: «diventiamo specchio visibile di uno sguardo invisibile che ci sovverte commisurandoci alla propria gloria»105. Amiamo il prossimo scorgendo in lui l’immagine (eikon) di Dio e lui ricambia il suo amore e il suo sguardo, intravedendo in noi e in se stesso l’Interamente altro.

«Non giudicare il tuo prossimo, finché non sei giunto al suo posto», diceva Hillel, riformulando la regola d’oro106. Il carattere intersoggettivo della relazione agapica è

espresso pienamente in questa massima, che permette di capire come solo imparando a vedere dal punto di vista dell’altro si possa evitare l’errore di tentare di

comprenderlo e quindi di ridurlo a sé. È solo in quanto figlio, più o meno

consapevole, di questa tradizione che Kant può inserire tra le massime del comune intelletto umano, corrispondente alla facoltà di giudizio, quella di «pensare mettendosi al posto di ciascun altro»107.

Per Flusser, quando si imparerà a guardare dal punto di vista dell’altro, l’individuo non sarà più visto come elemento della società che può essere opposto ad altri, o venire escluso, ma come «nodo di relazioni intersoggettive»108 che ne precedono l’individuazione. Chi invece si pone come soggetto di un oggetto, in posizione di dominio, sta compiendo un atto di violenza. Ma «ogni violenza rivela ormai quello che rivela la passione di Cristo, la genesi debole degli idoli cruenti, di tutti i falsi dei delle religioni, delle politiche e delle ideologie»109. L’amore per il nemico abbatte gli idoli perché l’idolo non è altro che quel modello-ostacolo (skandalon) rappresentato dall’altro della rivalità mimetica. Dove le relazioni sono pensate in termini intersoggettivi, dove c’è agape, non c’è più idolo. Combattere l’idolatria significa quindi per Flusser, in primo luogo, costruire il dialogo.

105 J.-L. Marion, Dio senza essere, cit., p. 38. 106 Pirqé Avot, 2, 5; cfr. D. Flusser, Jesus, cit., p. 98.

107 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 130. 108 V. Flusser, «Do estranho», cit., p. 132, trad. mia.

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