Né adorare né distruggere
5.5 La crisi iconoclasta
Il culto delle icone si diffonde prima a Bisanzio e in seguito anche a Occidente, all’inizio in ambito privato, poi in quello ecclesiastico, per via della funzione di controllo esercitata dalla chiesa. È a questo punto che a Bisanzio scoppia la cosiddetta crisi iconoclasta. Nel 727 l’imperatore Leone III fa rimuovere l’icona di Cristo dalla porta principale del palazzo imperiale di Costantinopoli. Poco dopo un
48 Ivi, p. 49. 49 Ivi, p. 76.
decreto impone di rimuovere e distruggere tutte le immagini. La ragioni di questa decisione sono in primo luogo di ordine politico e sociale, come afferma, oltre a Menozzi e Bettetini50, lo stesso Flusser: «quella iconoclasta era un’ideologia che mascherava interessi economici, sociali e politici inconfessi (come conviene a ogni ideologia)»51. Se le immagini sono un’arma e queste sono sotto il controllo dei
monaci, si può comprendere il timore dell’imperatore, ma anche dell’esercito e persino dei vescovi, di vedere il proprio potere limitato e l’unità dello Stato incrinata. Le icone vengono infatti sostituite, in quasi tutti i luoghi pubblici, con la croce, simbolo tradizionalmente imperiale. Come fa notare Freedberg52, persino gli iconoclasti non cercano un aniconismo completo, perché anch’essi hanno bisogno di simboli, quand’anche poco o non figurativi: vogliono però ridurre le immagini tanto da poterle mantenere sotto il proprio controllo.
Il successore di Leone III, Costantino V, sposta il confronto su un piano più dottrinale, anche in risposta alle elaborazioni teoriche degli iconofili come Giovanni Damasceno, e nel 754 convoca a Costantinopoli un concilio che si apre nel palazzo di Hieria, dove sono presenti 338 vescovi, ma nessun rappresentante degli altri patriarcati. Qui si dichiarano idolatriche le icone e si condannano coloro che le producono e che le venerano. Chi rappresenta Cristo «o ha circoscritto l’incircoscrivibile carattere della divinità, secondo quel che sembrava buono alla sua fantasia, disegnando i contorni della carne creata; oppure ha confuso l’inconfusa unione, cadendo nell’iniquità del confuzionismo»53. Non si può rappresentare Gesù
Cristo senza cadere nell’eresia, perché o se ne rappresenta una sola natura, quella umana, come non ce ne fosse un’altra, o si cerca di rappresentare le due nature insieme come fossero confuse in una sola. Nel 780, dopo la morte di Costantino V e di Leone IV, sale al potere Irene, reggente per il figlio Costantino VI. Di posizioni iconofile, convoca nel 787, a Nicea, un nuovo concilio, questa volta invitando anche
50 D. Menozzi, La chiesa e le immagini, cit., p. 21; M. Bettetini, Contro le immagini, cit., pp. 92-93. 51 Lettera di Flusser a Dora Ferreira da Silva del 25/09/1977, trad. mia.
52 D. Freedberg, Il potere delle immagini, cit., pp. 87-92, 569.
53 Definizione del concilio di costantinopoli (754), in J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et
amplissima collectio, XIII, Firenze 1747, pp. 245-328, trad. it. in D. Menozzi, La chiesa e le immagini, cit., p. 98. Le posizioni iconoclaste ci sono conosciute solo attraverso alcuni brani degli atti
del concilio di Hieria ripresi a fini polemici da quello di Nicea, dal momento che tutti gli altri testi iconoclasti sono stati distrutti dagli iconoduli dopo la loro vittoria. Flusser nota, nella lettera già citata, come la distruzione di testi sia un fenomeno abbastanza ricorrente nei regimi più iconofili e che in qualche modo si tratta di un gesto simmetrico all’iconoclastia.
rappresentanti da Roma e dagli altri patriarcati, dove viene stabilita la liceità del culto delle immagini e gli iconoclasti sono condannati. La crisi si riapre nell’815, quando Leone V convoca un nuovo concilio a difesa delle posizioni iconoclaste, dove la parentesi iconofila è attribuita alla «semplicità femminile»54 di Irene e vengono riprese le tesi del concilio di Hieria, attenuandone le conclusioni: le icone sono da condannare, «ci tratteniamo, tuttavia, dal chiamarle idoli, dal momento che c’è una distinzione tra i diversi tipi di male»55. A questo ritorno dell’iconoclastia
replica il patriarca Niceforo, i cui Antirretici sono tra i testi fondamentali della teoria iconofila, insieme alle omelie di Giovanni Damasceno e agli atti del concilio di Nicea II. A partire dall’842, con il regno di Michele, gli iconoduli56 ottengono una
vittoria definitiva, confermata poi dai concili successivi, quello di Roma dell’863 e quello di Costantinopoli del 870.
Le tre orazioni Contro i calunniatori delle immagini di Giovanni Damasceno, scritte intorno al 730 (dopo i primi atti iconoclasti, ma prima del concilio di Hieria), possono essere considerate il fondamento dottrinale della posizione ortodossa sulle immagini. Vengono riprese alcune delle argomentazioni oramai tradizionali: il valore didattico, l’aiuto alla memoria, la comprensibilità da parte degli illetterati, l’idea che l’immagine sia per la vista ciò che la parola è per l’udito. A queste si aggiunge però un’accesa difesa non solo della rappresentabilità di Cristo, ma anche della venerazione delle immagini, che è distinta nettamente da un comportamento idolatrico. A chi nega la possibilità di fare immagini citando il secondo comandamento, Giovanni risponde citando Paolo: «la lettera uccide, lo Spirito dà vita»57. Se si cerca lo spirito dietro la lettera del comandamento si comprende che il suo senso più autentico è quello di impedire comportamenti idolatrici, di adorare un’immagine come fosse Dio stesso. «Se a causa della Legge tu proibisci le immagini, allora è tempo che tu osservi il sabato e ti faccia circoncidere»58. Prima
54 Definizione del concilio iconoclastico di Santa Sofia, trad. it. in D. Menozzi, La chiesa e le
immagini, cit., p. 114.
55 Ibid.
56 Il termine greco doulia, traducibile con il latino servitus, indica la sottomissione e l’onore da
tributare alla Vergine, ai santi e, per gli iconoduli, alle immagini.
57 2 Cor 3, 6.
58 Giovanni Damasceno, Primo discorso apologetico contro coloro che calunniano le sante immagini,
in B. Kotter (a cura di), Die Schriften des Johannes von Damaskos, III, Contra imaginum
calumniatores orationes tres, Berlin-New York 1975, pp. 75-93, trad. it., in D. Menozzi, La chiesa e le immagini, cit., p. 96.
dell’incarnazione non si poteva effettivamente raffigurare Dio, incorporeo, senza forma, incommensurabile e non circoscritto, ma con l’Evento, per l’economia della carne, «colui che è incorporeo è diventato uomo a causa tua» ed è ora possibile raffigurare «ciò che di Dio è stato visto»59. L’immagine è una copia che riproduce l’archetipo mantenendo alcune differenze: è possibile, perciò, dedicarle una venerazione rivolta per onore, distinta dalla venerazione di culto. Solo Dio è venerabile di per sé, mentre gli angeli, i santi, i luoghi di una qualche manifestazione divina, gli oggetti consacrati e le stesse icone, sono venerabili, in misura diversa, solo per la loro relazione con Dio.
Le basi teoriche poste dal Damasceno vengono sviluppate un cinquantennio più tardi, al secondo concilio di Nicea, dove grazie alla distinzione tra adorazione (latreia), riservata solo a Dio, e venerazione (proskynesis), destinata a ciò che da Dio ottiene la propria sacralità, si arriva ad accettare esplicitamente un culto delle immagini.
Infatti, quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, di una vera adorazione, riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto60.
È perché è esistita un’immagine naturale di Dio, Gesù Cristo nell’economia della sua carne, che è possibile farne un’immagine artificiale, aggiunge Niceforo il Patriarca una trentina d’anni dopo, all’epoca della seconda ondata iconoclasta. L’icona imita la natura, ma non vi si identifica: la si può chiamare icona solo perché in una relazione di dipendenza da un archetipo, di cui condivide il nome, ma non la sostanza. L’iconoclasta, negando la possibilità di farsi immagini di Cristo, sta negando la stessa incarnazione ed è quindi «ateo», «bestemmiatore», «giudeo di cuore» e soprattutto «idolatra»61: «è perché è idolatra che guarda l’icona con gli
59 Giovanni Damasceno, Primo discorso apologetico…, cit., p. 95.
60 Definizione del concilio Niceno II, in D. Menozzi, La chiesa e le immagini, cit., p. 102. 61 M.-J. Mondzain, Immagine, icona, economia, cit., p. 142.
occhi dell’idolatra»62. Molti studiosi moderni, come Latour, Mitchell e Freedberg,
hanno notato che gli iconoclasti condividono con gli iconoduli più accesi una simile concezione dell’immagine: entrambe le parti credono in un suo statuto speciale, credono nel suo potere, con la sola differenza che gli uni lo temono, gli altri lo riveriscono. «Perché amore e paura delle immagini, come dimostrano con tanta chiarezza le argomentazioni bizantine,» – scrive Freedberg – «sono di fatto le due facce della stessa medaglia»63.