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Dalla pratica alla teoria delle immagin

Né adorare né distruggere

5.3 Dalla pratica alla teoria delle immagin

33 Giovanni Crisostomo, Il sacerdozio, Città nuova, Roma 1997, II, 1, 1-4.

34 Teodoro Studita, Antirretici, PG 99, 1661 C, tr. it. in M.-J. Mondzain, Immagine, icona, economia,

cit., p. 75.

35 Mondzain cita a riguardo il commento di Benoît Pruche a Basilio, contenuto nell’edizione francese

Le prime raffigurazioni che possono essere dette cristiane compaiono nel III secolo appena fuori Roma, nelle catacombe gestite da Callisto, poi divenuto papa, da cui prendono il nome. Nascono quindi spontaneamente, non commissionate e senza giustificazioni teoriche, ma nascono in un contesto istituzionale. Difficilmente le autorità della comunità cristiana potevano non accorgersene: se queste fossero state fortemente contrarie le avrebbero fatte distruggere – come in alcuni casi è poi avvenuto. Verso la fine del II secolo Clemente Alessandrino, per altri versi profondamente contrario all’uso delle immagini, ancora viste come idolatriche, fa rifermento, nel Pedagogo, a un elenco di figure che i cristiani possono rappresentare sui propri sigilli: la colomba, il pesce, la lira musicale, la nave, l’ancora, il pescatore. Menozzi nota che Clemente si sente in dovere di giustificare solo quest’ultima figura, rinviando al vangelo di Marco, forse per il suo carattere antropomorfico36. Tra le figure rifiutate esplicitamente compaiono solo gli idoli (intesi evidentemente come rappresentazioni di falsi dei e non come immagini) e le figure dell’arco e della spada, probabilmente per il loro carattere violento.

All’inizio del IV secolo risalgono alcuni documenti che indicano ancora una tendenza aniconica delle autorità religiose, ma testimoniano una pratica delle immagini sempre più diffusa. Il concilio di Elvira, del 306 circa, stabilì, con il canone 36, che non ci fossero «pitture nelle chiese, affinché non sia dipinto quel che viene riverito ed adorato»37, lasciandoci immaginare che tali pitture già esistevano e che dovevano essere per alcuni un problema tale da doverne discutere in un concilio. In una lettera databile tra il 313 e il 324, destinata a Costanza, la sorella di Costantino, Eusebio di Cesarea risponde a una richiesta dell’imperatrice di inviarle un’immagine di Cristo. La risposta è negativa e motivata: l’immagine può rappresentare solo la sua carne e non la sua natura divina. Il rischio è che si finisca per considerare divino l’aspetto materiale:

Questo accade proprio con i facitori di idoli, che vogliono rappresentare quel che credono un dio o quel che dicono un eroe o qualcosa di questo genere, ma in realtà non disegnano qualcosa di simile né qualcosa d’altro e rappresentano omuncoli38.

36 D. Menozzi, La chiesa e le immagini, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995. 37 Ivi, p. 84.

Un fondamentale cambio di prospettiva si verifica con i Padri cappadoci, verso la seconda metà del IV secolo: Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Non è un caso che si tratti di alcuni degli autori che più hanno fatto uso del concetto di

oikonomia. In nessuno di essi è presente una trattazione sistematica delle immagini,

ma in diversi luoghi si fa riferimento alla capacità espressiva e comunicativa delle immagini, che possono narrare storie quasi come fossero scrittura. Bettetini ritiene che l’equivalenza tra testo e figura possa trovare le proprie radici, in Oriente, nella stessa lingua greca, in cui graphe indica qualsiasi iscrizione – testuale o figurata che sia – e historia significa semplicemente narrazione, sia scritta che disegnata39. Secondo Basilio l’immagine è scrittura silenziosa e quest’ultima è un’immagine parlante40. Le raffigurazioni non sostituiscono i testi, ma li accompagnano rendendoli più chiari ed espliciti. Si può parlare di un valore didattico delle immagini, grazie alle quali, secondo Gregorio di Nazianzo, il pittore era capace di insegnare41. In un’orazione in onore di san Teodoro, Gregorio di Nissa descrive la bellezza delle decorazioni della chiesa in cui si trovano i resti del martire, elogiando le figure di animali scolpite nel legno e soprattutto la capacità del pittore che è riuscito a rappresentare sulla parete le gesta del martire, la sua fine e persino Cristo che presiede all’impresa. «Tutto questo l’ha fatto dipingendo artisticamente per mezzo di colori, come se fosse un libro che parla apertamente. […] Infatti la pittura, per quanto silenziosa su una parete, è in grado di parlare e di recare grandissimo giovamento»42. Nonostante si accenni a una rappresentazione di Cristo, questa è inserita nel contesto di una narrazione e la venerazione delle immagini è ancora esclusa. Gregorio di Nissa sembra essere più consapevole rispetto agli altri Padri cappadoci di un aspetto essenziale delle immagini, che seppure non le trasforma in idoli, né in oggetti degni di venerazione, le distingue dalla semplice narrazione oggettiva, anche se le accomuna alla scrittura figurata e alla retorica: le immagini hanno un potere emozionale. Commentando un dipinto che rappresenta il sacrificio

39 M. Bettetini, Contro le immagini, cit., p. 83

40 Ibid. Bisogna tenere conto che all’epoca tutti i testi erano sempre letti ad alta voce. Nella Galassia

Gutenberg di M. McLuhan sono contenute molte interessanti riflessioni su questo fatto.

41 Gregorio di Nazianzo, Carmina I, 2, 33.

42 Gregorio di Nissa, Oratio laudatoria sancti ac magni maryris Theodori, PG 46, 737-739, in D.

di Isacco, Gregorio scrive: «Spesso io ho visto su un quadro l’immagine di quest’avvenimento e non sono riuscito a passare dinanzi a questo spettacolo senza lacrime, poiché l’arte pone chiaramente il racconto dinanzi alla vista» 43 .

Rappresentando l’avvenimento come avvenisse davanti all’osservatore, l’immagine gli impone un coinvolgimento emotivo – e perciò si può parlare di potere. Questa forza di muovere gli animi è un’arma a disposizione di tutti, come scrive Agostino a proposito della retorica, è in medio posita e può essere impiegata tanto per scopi empi, come spingere a un rispetto divino per l’imperatore, quanto a fin di bene, suscitando una genuina esperienza religiosa.

Nei secoli successivi l’idea di un valore espressivo e didattico delle immagini si afferma e diffonde in tutto il mondo cristiano, a Oriente e a Occidente, al punto che lo stesso pontefice, Gregorio Magno, scrive una lettera al vescovo di Marsiglia che diventerà una pietra miliare della teoria cristiana delle immagini. Il papa ammonisce il vescovo per aver fatto rimuovere le pitture dalle chiese: pur comprendendo il rischio di idolatria nei confronti del quale bisogna sempre restare all’erta, Gregorio ritiene che un corretto uso delle immagini sia possibile e auspicabile. Queste possono avere una funzione didattica di grande rilievo per tre ragioni: sostengono la memoria, suscitano emozioni che permettono a ciò che si apprende di imprimersi con maggior forza nell’animo e, soprattutto, sono comprensibili anche da quanti non sono in grado di leggere.

Altra cosa è adorare una pittura, altra cosa è imparare per mezzo della pittura storica ciò che si deve adorare. Poiché la pittura insegna agli illetterati ciò che la scrittura insegna ai letterati: infatti gli ignoranti vedono nella pittura ciò che devono operare, in essa leggono coloro che non conoscono la lettura: quindi la pittura supplisce per i pagani la lettura44.