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René Girard: il capro espiatorio e l’anti-mito

Non esiste alcun idolo al mondo

3.3 René Girard: il capro espiatorio e l’anti-mito

L’amore per il prossimo o tutt’al più per lo straniero che vive nel proprio paese rafforza un’identità che è contrapposta all’alterità radicale del nemico. L’amore per il nemico, per qualcuno che è effettivamente altro da noi, è la strada che conduce a un autentico amore per l’Interamente altro, ossia a un’apertura verso una realtà che non si pretende di conquistare, ma da cui ci si lascia pervadere, scoprendo se stessi come altro dell’altro69. Come afferma anche Agamben in Homo sacer70, le regole di purità,

intese a proteggere l’inviolabilità dei luoghi e delle cose sacre, hanno una funzione discriminatoria: separano ciò che fonda una comunità regolata – che deve trovarsi almeno in parte fuori da essa per poterla fondare – dai membri profani di questa comunità. Con la sua tipica lucida semplicità, al limite della banalità, Vilém Flusser ricorda che «la questione dell’identificazione implica quella della differenziazione: l’identità implica la differenza»71. Ma ogni distinzione, ogni discriminazione, ha

qualcosa di criminale, continua Flusser giocando con l’etimologia: crisi, critica, criterio e crimine sono tutti termini legati al greco krinein («che significa non solo

68 Mt 5, 38-48.

69 V. Flusser, «Ame teu outro como a ti proprio», cit. 70 G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 84.

giudicare, distinguere, differenziare, ma anche accusare e condannare una vittima»72). Ogni separazione costituisce una forma di violenza.

È nell’opera di René Girard che Flusser vede finalmente trattato con lucidità il problema dell’aspetto criminale dell’identità, attraverso una rilettura originale del messaggio evangelico73. Nella prima grande opera su questo tema, La violenza e il

sacro74, Girard introduce il problema del sacrificio facendo riferimento alla teoria di Hubert e Mauss sull’ambivalenza del sacro: è criminale uccidere la vittima perché è sacra, ma questa non sarebbe sacra se non la si uccidesse. Indicare quest’ambivalenza, come hanno fatto gli antropologi e poi lo stesso Agamben, è convincente e affascinante nella sua formulazione, ma secondo Girard non si è ancora detto niente: «dopo lo stupefacente abuso che se ne è fatto nel Novecento, è forse tempo di riconoscere che nulla di illuminante emana da esso, che non costituisce una vera spiegazione»75. Il problema attende ancora una soluzione.

Analizzare il dispositivo sacrificale può insegnarci qualcosa: se la vittima può essere sostituita da un'altra, vuol dire che in se stessa è indifferente. Ciò che è insostituibile e che in un modo o nell’altro sembra dover trovare un’espressione è la violenza stessa. Girard chiama «rivalità mimetica» o «mimesi acquisitiva» il processo per il quale i membri di un gruppo desiderano ciò che gli altri hanno acquisito e imitano i loro comportamenti generando una spirale di violenza. Tutti i miti e le religioni avrebbero la funzione di regolare questa aggressività primitiva attraverso divieti e rituali: da un lato si proibiscono i comportamenti imitativi («Non desidererai la donna d’altri»), dall’altro si riproduce la crisi mimetica nei rituali, che consistono prevalentemente in violazioni dei divieti e permettono quindi di esprimere a un livello sublimato le tensioni represse (il sacrificio)76. La domanda che sembra porsi Girard è: come si può mettere fine a questo circolo della violenza?

Nell’opera sul capro espiatorio, che Flusser riprende e commenta nel breve saggio «Do estranho», Girard individua una struttura fondamentale che sarebbe propria di ogni mito, uno «schema persecutorio». Attraverso l’analisi comparata di una

72 R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 44.

73 Il capro espiatorio di R. Girard, che faceva parte della Reisebibliothek di Flusser, deve aver avuto

una profonda influenza sul suo pensiero, come sembra indicare l’entusiasta comunicazione della scoperta in una lettera a M. Vargas.

74 R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2003 [1972]. 75 Ivi, p. 13.

letteratura amplissima, che va dai testi omerici, alle tradizioni scandinave, a quelle azteche, fino ai poemi medievali europei, individua tre o quattro stereotipi riconoscibili quasi sempre: una situazione di crisi che disintegra l’ordine sociale, provocando una generale indifferenziazione (ossia una crisi di identità); l’individuazione di un colpevole a cui attribuire lo stato di crisi, che a volte coincide con l’eroe; dei segni di selezione vittimaria (il colpevole è riconoscibile perché è

diverso); un atto di violenza collettiva nei confronti del colpevole, che si conclude

normalmente con la sua morte o il suo esilio. Laddove una testimonianza orale o scritta documenti una violenza direttamente o indirettamente collettiva è possibile ritrovare, secondo Girard, almeno due o tre di questi stereotipi, ed è quindi possibile parlare di persecuzione e di capro espiatorio. Da queste premesse possono essere tratte alcune ipotesi. La prima, come aveva intuito Freud in Totem e tabù77, è che dietro la violenza mitica si nasconda una violenza reale e che l’intero processo nasca da una crisi reale; la seconda è che la vittima non sia selezionata per una colpa effettiva, ma per i suoi tratti distintivi – perché è diversa. Ciò che conta non è trovare la causa del disastro, ma il colpevole.

La folla si lancerà sul colpevole per ucciderlo. Questo permetterà alla folla di distinguersi da lui: il colpevole è l’altro della folla, l’estraneo, lo straniero. Ristabilita la differenza, può essere ristabilita l’identità. La crisi può essere superata. L’assassinio collettivo è la funzione del nuovo ordine78.

A quest’analisi il colpevole si rivela essere in realtà la vittima di un crimine collettivo e fondatore. È questo doppio ruolo a conferire al capro espiatorio la tipica ambiguità del sacro: in quanto è ritenuto responsabile della crisi è nemico pubblico, in quanto il suo sacrificio è alla base del nuovo ordine è eroe. La vittima è sempre selezionata per la sua diversità (zoppica, balbetta, ha i capelli rossi, è straniero): è l’anormale a fondare la norma, è l’altro a permetterci di identificarci. Possiamo definirci normali solo in quanto diversi dall’anormale.

Affermare che tutti i miti funzionano secondo il meccanismo vittimario del capro espiatorio significa criticarli, demistificarli, decostruirli. Nei miti, infatti, tutti sono convinti della responsabilità del colpevole, lui per primo, e tendono a considerare

77 S. Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri, Torino 1985. 78 V. Flusser, «Do estranho», cit., p. 127, trad. mia.

giustificata la sua punizione. L’elemento fondamentale di tutti i miti – e del pensiero mitico che soggiace alle comunità che da essi nascono – è l’occultamento del meccanismo vittimario stesso. «La cultura umana è votata alla dissimulazione perpetua delle proprie origini nella violenza collettiva»79. Secondo Flusser la pensée

sauvage è caratterizzata da una rimozione della consapevolezza della propria azione

criminale, che consiste nella condanna del capro espiatorio: «la coscienza magico- mitica è “cattiva coscienza”»80.

Individuare ed eliminare il colpevole, il nemico, permette di ritrovare un’identità, ma l’omicidio collettivo, quandanche sia riconosciuto come crimine, è pensato sotto la categoria della colpa, riaprendo così il circolo della violenza. Questo può essere spezzato solo porgendo l’altra guancia, includendo e amando il nemico stesso: convertendo «la cattiva reciprocità della violenza» nella «buona reciprocità dell’amore»81. «Se tutti gli uomini amassero i loro nemici, non vi sarebbero più

nemici»82. Secondo Girard i vangeli, anticipati in parte dall’Antico Testamento83, sarebbero il primo racconto ad avere il capro espiatorio come significato e non come significante: «sono anti-miti»84. La Bibbia rivela l’illusione persecutoria nel momento in cui dichiara l’innocenza delle vittime senza condannare i carnefici. I vangeli presentano secondo la prospettiva delle vittime lo stesso schema che i miti presentano secondo la prospettiva dei persecutori. Edipo è colpevole di parricidio, di incesto e di essere per questo responsabile della peste; gli ebrei accusati da Guillaume de Machaut nel XIV secolo sono colpevoli di aver avvelenato i fiumi e di aver così disseminato la piaga; Remo è colpevole di aver passato la linea tracciata da suo fratello. Abele e Gesù sono innocenti. E quello che più conta: non chiedono vendetta. Girard fa molta attenzione a non considerare la passione di Cristo come un sacrificio per l’umanità. Nei vangeli il termine non è mai utilizzato se non per opporsi alla pratica stessa del sacrificio, concepita come idolatria. Il valore

79 R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 163. 80 V. Flusser, «Do estranho», cit., p. 129, trad. mia.

81 R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 277. 82 Ivi, p. 270.

83 Nelle parti più antiche dell’Antico Testamento si possono riconoscere i tre grandi momenti di ogni

costruzione mitica: la crisi indifferenziante (Babele, le piaghe d’Egitto…), la violenza collettiva (la strage degli idolatri che hanno venerato il vitello d’oro), l’elaborazione dei divieti e dei rituali (la Legge). Tuttavia già in questi testi può essere individuato all’opera il principio dell’amore: nella storia di Caino, in quella di Giuseppe, diffusamente nell’opera dei Profeti e in particolare in Isaia. Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste… cit., pp. 192-194.

liberatorio non sta nel sangue, ma nell’aver amato i propri carnefici anche nel momento del martirio: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno»85. Non solo la Passione non dev’essere letta come un sacrificio, ma persino «il sacro non svolge alcun ruolo nella morte di Gesù»86. La crocifissione non è la causa della divinità del Cristo che sarebbe in quel modo sacrificato, fatto sacro (separato), fondando una nuova identità e una nuova discriminazione. Al contrario la sua morte e la sua umiliazione sono una conseguenza della sua divinità, da sempre altra rispetto a «questa terra in preda alla violenza»87 e questo atto di amore radicale mette

fine al sacro e a ogni discriminazione.

I vangeli non mettono a nudo solo l’innocenza delle vittime, ma anche il meccanismo di rimozione da parte dei carnefici, che appunto «non sanno quello che fanno», rivelando così l’intero dispositivo del capro espiatorio. Quando i farisei dicono «se fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri, non saremmo stati complici nel versare il sangue dei profeti»88, si stanno distinguendo da loro, stanno individuando dei colpevoli per potersi rappresentare come innocenti: «e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti»89. Secondo Girard con il termine “figli” non si intende una trasmissione ereditaria, ma una solidarietà spirituale che si realizza nel ripudio dell’altro. «È nella volontà di rottura, paradossalmente, che ogni volta si realizza la continuità tra padri e figli»90. Il vero crimine consiste nella mancanza di consapevolezza di essere come i propri padri: il discriminare stesso è in questo caso criminale. Gli assassini di Gesù Cristo che non sanno quello che fanno sono simili agli ipocriti farisei che non fanno quello che dicono, o peggio che fanno senza amore, e ancora questi sono simili a ciascuno di noi quando, come afferma Paolo senza fare discriminazioni, facciamo ciò che detestiamo e non ciò che vogliamo91. Si passa quindi dalla discriminazione degli altri in quanto colpevoli all’interiorizzazione della distinzione nella coscienza stessa. Ammettere che ognuno di noi può essere colpevole è il primo passo per il superamento del concetto di colpa come categoria persecutoria e apre la strada al riconoscimento dell’alterità in se

85 Lc 23, 34.

86 R. Girard, Delle cose nascoste… cit., p. 293. 87 Ivi, p. 295.

88 Mt 23, 30. 89 Mt 23, 31.

90 R. Girard, Delle cose nascoste…, cit., p. 213. 91 Rm 7, 15.

stessi. Quando i vangeli denunciano l’ipocrisia dei farisei non stanno accusando un gruppo di una colpa che non appartiene ad altri, ma intendono mostrare, secondo Girard, come tutti gli esseri umani, persino i migliori, i pii farisei, dissimulino la violenza fondatrice che si ritrova non solo negli assassinî collettivi, ma in ogni quotidiano atto di discriminazione92.

Se ognuno di noi, ancora oggi, in un occidente moderno e cristiano, finisce per fare ciò che non vuole e poi reprime la sua cattiva coscienza, se la reciprocità della violenza è ancora viva, vuol dire che il pensiero mitico non è scomparso. Come può una cultura cristiana essere anti-mitica e allo stesso tempo continuare a cercare capri espiatori? Solo attraverso un’interpretazione restrittiva del messaggio evangelico, che porta fondamentalmente a rimitizzarlo: «Questa volta sono i cristiani a dire: Se

fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri giudaici, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue di Gesù»93. Non si comprende il monito di Gesù come rivolto all’umanità intera, ma come un’accusa ristretta agli ebrei, nuovo capro espiatorio. Ciascuno di noi, quando reprime la propria cattiva coscienza, rimuove la consapevolezza che «tutti hanno ucciso Gesù, che tutti continuano a uccidere Gesù, che nessuno sa quello che sta facendo, mentre lo fa, e che dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù è continuare a ucciderlo»94.