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Corpo, Stimmung, Gestimmtheit

Un’interfaccia tra interno ed esterno: il corpo e i gest

2.3 Corpo, Stimmung, Gestimmtheit

Più importante delle classificazioni interne è la distinzione tra ciò che è gesto e ciò che non lo è. Non ogni movimento del corpo, infatti, può essere considerato tale. Per quali ragioni, per esempio, chiunque tenderebbe a escludere da una lista di gesti «il movimento peristaltico dell’intestino e la contrazione delle pupille»22? Verrebbe

da rispondere: perché non sono movimenti intenzionali. Flusser tuttavia esita a definire i gesti «espressioni di un’intenzione»23. Anche se ci può avvicinare alla comprensione di un aspetto essenziale, parlare di espressione di un’intenzione è problematico perché significa presupporre uno stato mentale preesistente al gesto, che lo causa e di cui quest’ultimo non è che un riflesso in superficie. Che sia determinato da uno stimolo esterno o da uno stato interno, qualsiasi movimento che possa essere pienamente spiegato riconducendolo alle sue cause non è che un

sintomo. Il gesto, al contrario, non può essere ridotto alla manifestazione esterna di

un processo che avviene altrove. La definizione che Flusser propone, abbastanza cauta, è così formulata: «il gesto è un movimento del corpo o di uno strumento collegato a esso per il quale non esiste una spiegazione causale soddisfacente»24. In

«Toward a General Theory of Gestures», scritto l’anno prima di «Geste et sentimentalité», in modo meno cauto, Flusser definisce il gesto come «un movimento

21 Ivi, pp. 167-170. Questi ultimi possono essere genuinamente disinteressati, e si tratta dei rituali

della tradizione giudaico-cristiana, o finalizzati a ottenere qualcosa in cambio, e si tratta di rituali magici e idolatrici.

22 V. Flusser, «Geste et sentimentalité», cit., p. 249. 23 Ibid.

attraverso cui si esprime una libertà»25. Il senso della definizione resta comunque lo stesso: il gesto ha un carattere arbitrario e artificiale.

Leroi-Gourhan, in Il gesto e la parola, distingue secondo un simile criterio i gesti tecnici umani e le operazioni solo apparentemente tecniche degli altri primati. Movimenti come quelle di uno scimpanzé, che infila diversi bastoni l’uno nell’altro per riuscire ad attirare a sé una banana sospesa in alto, «compaiono spontaneamente sotto l’effetto di uno stimolo esterno e […] scompaiono altrettanto spontaneamente o non compaiono affatto, quando la situazione esterna che li aveva fatti scattare cessa di manifestarsi o non si manifesta per nulla»26. Al contrario i gesti tecnici compiuti da esseri umani, anche di specie primitive, si distinguono per il fatto di anticipare il momento del bisogno. Le operazioni necessarie per fabbricare degli strumenti «preesistono all’occasione di usarli e l’utensile dura in vista di azioni ulteriori»27.

Per Flusser i gesti, che siano comunicativi, tecnici o rituali, presentano sempre una qualche codificazione e per questo sono legati a un determinato modo di essere nel mondo. Se una risata spontanea dev’essere considerata un riflesso sintomatico, e infatti è spesso presa a esempio di un’azione che supera ogni barriera culturale, un sorriso presenta già un elemento di artificialità e di codificazione che ci permette di riconoscerlo come un gesto: a seconda del contesto storico-sociale lo stesso sorriso può essere letto come timido o ammiccante, bonario o ironico. Si tratta del problema dei gesti che rappresentano degli stati d’animo (Stimmungen)28. Se per esempio vedo qualcuno piangere «che criterio ho per dire che si tratta della rappresentazione di uno stato d’animo (di un simbolo codificato) e non della manifestazione di uno stato d’animo (di un sintomo)»29? Non si tratta qui di opporre un sentimento falso, soltanto

25 V. Flusser, «Toward a General Theory of Gestures», cit., p. 163, trad. mia. Flusser ha più volte

modificato questa frase nelle diverse ritraduzioni e vale la pena confrontarle. La prima versione inglese: «a motion which articulates freedom». La versione portoghese: «um movimento no qual se articula uma liberdade». La versione tedesca: «eine Bewegung, durch die sich eine Freiheit ausdrückt».

26 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 137. 27 Ibid.

28 Nella versione francese in cui il saggio è stato pubblicato la prima volta Flusser usa il termine

sentiment, ma nel manoscritto tedesco usa il termine Stimmung. Come fanno i traduttori dell’edizione

inglese, preferisco recuperare l’ampiezza di senso del vocabolo tedesco, con l’espressione «stato d’animo», che mi sembra adattarsi meglio al contesto. Bisogna tenere conto del fatto che fino al ‘75 Flusser non si esprimeva in francese altrettanto fluentemente quanto in tedesco o in portoghese. Quando inviò questo saggio all’editore di arTitude, allegò una lettera, datata 6/10/1975, in cui si scusava per il suo «français zoulou».

simulato, a uno vero, ma di riconoscere nei gesti una dimensione culturale. L’artificialità di un gesto non implica che lo stato d’animo rappresentato sia falso, perché emancipa il corpo dalla referenzialità sintomatica di un esterno al suo interno. Quando, in contesti tradizionali mediterranei, le donne seguono il corteo funebre con lamenti strazianti stanno chiaramente eseguendo dei gesti codificati, ma questo non significa che non soffrano davvero. Stanno «agendo» il proprio stato d’animo, lo stanno emancipando dal suo contesto biologico, inserendolo in un contesto culturale. In modo simile Fernando Pessoa, citato da Flusser, scrive: «Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente»30. Flusser definisce un gesto di questo tipo Gestimmtheit, che potremmo definire come la condizione di esperienza di uno stato d’animo31: la Gestimmtheit,

«rendendo artificiali gli stati d’animo, si rivela in effetti uno dei metodi attraverso cui l’uomo tenta di dare un significato alla propria vita e al mondo in cui vive»32.

Questo non significa che un gesto non possa sembrare falso. Il criterio di giudizio, però, non deve riguardare l’adeguazione della rappresentazione allo stato d’animo interno, ma la qualità del gesto stesso. «La scala di valori per misurarlo non deve oscillare tra la verità e l’errore, né tra la verità e la menzogna, ma tra la verità e il kitsch»33. Un cattivo attore che voglia rappresentare l’amore paterno sembrerà falso «anche se l’attore è veramente un padre amorevole»34. Dal punto di vista di Flusser i

farisei accusati da Gesù di ipocrisia (cioè di recitare), quando pregano ostentatamente davanti al tempio, sono falsi perché i loro gesti sono “kitsch”, cioè logori e poveri di significato; e quando Gesù raccomanda di pregare di nascosto, non sta chiedendo di eliminare ogni artificialità del gesto – perché una codificazione resta comunque – ma di eseguire un gesto più elegante e significativo. Nonostante nei vangeli si affermi una non corrispondenza tra interiorità ed esteriorità (il bicchiere pulito fuori e sporco dentro), le indicazioni e gli ammonimenti sono rivolti ai gesti. Si nega la

30 F. Pessoa, «Autopsicografia», in Id. Il libro del genio e della follia, Mondadori, Milano 2012. Il

testo riportato da Flusser è in realtà una parafrasi: «O poeta é fingidor que finge tão perfeitamente que finge até a dor que deveras sente».

31 Il termine Gestimmtheit, di difficile traduzione, è una sostantivizzazione di gestimmt, participio di

stimmen (accordare), legato a Stimmung (atmosfera, sentimento, stato d’animo). Nella versione

francese Flusser parla di sentiment e di sentimentalité, in analogia alla coppia di vocaboli tedeschi. Cfr. le note della traduttrice dell’edizione inglese: V. Flusser, Gestures, cit., pp. 177-178.

32 V. Flusser, «Geste et sentimentalité», cit., p. 258. 33 Ivi, p. 259.

corrispondenza univoca tra ciò che viene dal cuore e il comportamento, ma il gesto viene riconosciuto, insieme alla parola, come la principale porta d’accesso all’interiorità.

Halbertal e Margalit si pongono un problema simile: è possibile decidere di credere? Può una decisione da sola far sì che non si subisca più il potere degli idoli? Per i due professori di Gerusalemme, che si ispirano qui a Jon Elster35, credere è un atto necessariamente involontario che non ricade sotto il nostro controllo. Tuttavia, è possibile influenzare le proprie credenze in modo indiretto, così come si può intervenire indirettamente sul funzionamento dei nostri muscoli involontari («You can speed up your heart rate by running – that is, by using the muscles under your control»36). Chi esce a correre tutte le mattine aumenterà le sue possibilità di avere un cuore sano: allo stesso modo chi evita uno stile di vita idolatrico, tenderà ad avere credenze meno idolatriche. Questo metodo d’azione indiretta avrebbe degli elementi in comune con la teoria psicologica delle self-fulfilling prophecies: «beliefs in which the very act of belief significantly increases the chances that the beliefs will come true»37. Se queste sono credenze che producono circostanze, tuttavia, il primo caso analizzato riguarda la possibilità di intervenire sulle circostanze per agire sulle credenze.

Halbertal e Margalit non sembrano tenere conto che una simile concezione non può essere proiettata sull’Antico Testamento, almeno per quanto riguarda le sue parti più antiche, che includono il secondo comandamento. L’antropologia della coscienza, che distingue interiorità ed esteriorità, si afferma in modo pieno solo con le lettere di Paolo e con i vangeli, come si è cercato di mostrare nella prima parte di questa tesi, ed era estranea all’ebraismo antico. Per la Legge il gesto di farsi immagini e di prostrarsi davanti a esse era in se stesso idolatrico e non poteva essere separato dall’intenzione. Al contrario, con Paolo si comincia a distinguere tra un gesto che di per sé è indifferente, ma che può essere ammonito o approvato a seconda degli effetti che può avere sulla coscienza di chi lo compie e di chi ne fa esperienza.

35 J. Elster, Ulysses and the Sirens, Cambridge University Press, Cambridge 1979, pp. 47-54. 36 M. Halbertal e A. Margalit, Idolatry, cit., p. 174.

Attribuire un valore diverso allo stesso gesto (come il mangiare carni sacrificate agli idoli) a seconda del contesto, significa riconoscergli il carattere codificato di cui scrive Flusser. Si potrebbe affermare, così, che il gesto sta allo stato d’animo come la parola al concetto. Semplici movimenti del corpo ed emissioni vocali, che sarebbero

flatus vocis a meno che qualcuno non vi riconosca un significato. Una parola può

essere pronunciata senza che si intenda esprimerne il significato, come nel caso di un’analisi grammaticale, così come un gesto può essere eseguito solo per essere mostrato. E tuttavia un concetto ha bisogno di una parola per poter essere pensato, anche se questa non viene pronunciata. Allo stesso modo uno stato d’animo ha bisogno del suo gesto, anche se non viene eseguito: si ama il nemico porgendo l’altra guancia.

«Noi siamo i nostri gesti»38, scrive Flusser. Ma possiamo tentare di essere più specifici, senza timore di tradire il suo pensiero, e affermare che noi pensiamo con i nostri gesti. Sette anni dopo la pubblicazione di Gesten, in un contesto molto diverso, è uscito un famoso articolo di Andy Clark e David Chalmers, intitolato The extended

mind39. Secondo gli autori, che a loro volta si rifanno a un articolo di Kirsh e Maglio40, le nostre azioni (ma potremmo tradurre “i nostri gesti”) possono essere distinte in pragmatiche, se una trasformazione fisica del mondo è desiderabile, ed

epistemiche, se sono finalizzate prevalentemente ad aiutare e potenziare dei processi

cognitivi. Giocando a Tetris, per esempio, la maggior parte delle rotazioni delle figure che compiamo non serve davvero a posizionarle, ma ad aiutarci a determinare se sono compatibili con il buco da riempire: per arrivare alla stessa soluzione senza il supporto visivo-gestuale, cioè ruotando la figura mentalmente, si impiegano all’incirca sette decimi di secondo in più. Secondo Clark e Chalmers l’intera operazione, incluso il gesto e la percezione della risposta sullo schermo, potenziandolo entra a far parte del processo cognitivo: la mente è, almeno parzialmente, esternalizzata, estesa oltre i confini della scatola cranica. L’ambiente avrebbe quindi un ruolo attivo nel guidare i processi cognitivi41.

38 V. Flusser, «Le geste de peindre», in Id., Les gestes, cit., p. 281.

39 A. Clark e D.J. Chalmers, «The extended mind», in Analysis, 58, 1998, pp. 10-23.

40 D. Kirsh e P. Maglio, «On distinguishing epistemic from pragmatic action», Cognitive Science, 18,

1994, pp. 513-549.

41 Gli autori proseguono riflettendo sull’interazione reciproca tra un soggetto pensante e un’entità

Flusser parla della teoria dei gesti come di una «Interface-Theorie», ma si può suggerire che per lui siano i gesti stessi a fungere da interfaccia tra interno ed

esterno42. Questo significa che il corpo, con i suoi movimenti, non può essere concepito come una macchina che risponde passivamente agli impulsi di un io agente43. È probabilmente la struttura del nostro linguaggio che ci porta a pensare la

relazione tra soggetto e oggetto in modo unidirezionale, come nella frase «io ho un corpo»44. Ma lo studio dei gesti ci costringe a vedere la questione da un altro punto

di vista: «quando osservo un gesto, non vedo affatto un corpo mosso da un “io” invisibile. […] quello che vedo è una serie di movimenti significativi, cioè il cui fine è decifrabile da parte di chi conosce il codice»45. Interno ed esterno sono in realtà delle astrazioni di cui facciamo uso per analizzare «delle relazioni intersoggettive concrete»46. È una semplificazione separare i processi mentali dal corpo che li ospita, quanto considerare un pesce solamente come un organismo vivente, senza tenere conto che lo stesso pesce è anche «organo di un organismo chiamato “lago”» ed «ecosistema in cui vivono degli organismi del tipo “batterio” o “leucocita”»47. Lo

stesso avviene nell’analisi sociale: «Non esiste alcuna società senza uomini, e non esistono uomini al di fuori di una forma di società. Perciò i concetti “uomo” e “società” non possono essere considerati separati l’uno dall’altro e se questo accade siamo davanti ad astrazioni»48. Esortandoci a non pensare stati d’animo senza corpi, né gesti senza un ambiente relazionale, la teoria dei gesti di Flusser si rivela essere una teoria del medium. Il gesto, infatti, non dev’essere concepito come un mezzo, abbiamo problemi a riconoscere il ruolo della memoria nell’elaborare riflessioni e nel prendere decisioni, non dovremmo neanche disconoscere il ruolo della memoria esternalizzata in altri supporti che non siano il nostro sistema nervoso. Un malato di Alzheimer che deve raggiungere un determinato indirizzo userà il suo taccuino come chi non soffre di questa malattia fa affidamento alla propria memoria. Privarlo del suo taccuino significa (oltre che essere crudeli) indebolirne le capacità cognitive.

42 Anche D. Marcantonio è dello stesso avviso. Id., «Verso una teoria dei gesti», Flusser Studies 19,

2015.

43 Queste riflessioni ricordano la critica all’idea di un fantasma nella macchina contenuta in The

concept of mind di Gilbert Ryle, testo che fa parte della Reisebibliothek di Flusser.

44 V. Flusser, «Conclusion», Les gestes, cit., p. 320, trad. mia. 45 Ivi, p. 321.

46 Ivi, p. 324.

47 Ibid. Clark e Chalmers, in «The extended mind», propongono un esempio simile: la straordinaria

efficienza dei pesci nel nuoto è dovuta alla loro capacità di sfruttare correnti e vortici, persino provocandoli con colpi di pinna: «the fish and surrounding vortices together constitute a unified and remarkably efficient swimming machine» (A. Clark e D.J. Chalmers, «The extended mind», cit., p. 14).

un’intermediazione, un compromesso tra due istanze preesistenti, ma al contrario come realtà concreta che è condizione necessaria perché possano darsi elementi come lo stato d’animo e il corpo. La gestualità è il medium in cui il corpo e gli stati d’animo esistono e non il mezzo attraverso cui un corpo esprime stati d’animo. Solo in questo senso si può affermare che il gesto è per Flusser un medium: perché noi siamo nel mondo nella forma dei nostri gesti. I nostri corpi sono umani solo se gesticolano, i nostri stati d’animo prendono corpo nei nostri gesti e questi ultimi sono tali solo in quanto articolano i nostri stati d’animo attraverso i nostri corpi.