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Tertulliano e l’asservimento alle immagin

Essere assoggettati al segno

4.2 Tertulliano e l’asservimento alle immagin

La prima opera cristiana dedicata interamente al problema dell’idolatria, scritta da Tertulliano a Cartagine verso l’inizio del III secolo, è il De idololatria. Tertulliano è nato pagano e conosceva bene la suggestione di quei riti contro cui si sarebbe scagliato. Ha praticato l’attività forense tra il Nord Africa e Roma, una formazione

21 P. Zanker, Un’arte per l’impero, cit., p. 20. Sul legame tra immagine e temporalità ciclica si

sofferma più volte V. Flusser, infra, II 4.

che ha lasciato segni profondi sulla graffiante retorica dei suoi scritti apologetici, e si è convertito intorno al 195. È stato il primo teologo cristiano ad aver sistematicamente scritto in latino: le parole che usa «si imporranno nel vocabolario teologico con una forza tale che l’Occidente intero si riconoscerà, fosse anche senza saperlo chiaramente, in questo personaggio fuori dal comune»23. È l’unico tra gli

apologeti cristiani antichi, insieme a Origene, a non essere stato insignito del titolo di Padre della chiesa: dopo aver tanto lottato contro pagani, gnostici ed eretici «arrivò al punto di cadere egli stesso, si dice per eccesso di rigorismo – ma ci si potrebbe accontentare di dire: per eccesso e basta –, nell’eresia che combatteva con un accanimento senza uguali»24. Quando scrive il De idololatria è già vicino a entrare nella setta dei montanisti, se non ne fa già parte25: bisogna tenere conto di questo rigorismo per tentare di rispondere, questa volta dal punto di vista teorico, alla domanda su cosa resti dell’idolatria dopo Cristo.

Lo scritto di Tertulliano non si rivolge ai pagani, ma ai cristiani che vivono in mezzo a essi, nel tentativo di regolare i loro rapporti e di indicare un limite netto tra una convivenza accettabile e una collusione con gli idolatri che trascinerebbe inevitabilmente il credente cristiano là dove non vorrebbe andare. Il De idololatria sembra oscillare tra il punto di vista del Paolo di 1 Cor 8, dove si afferma che gli idoli non sono niente, e una posizione vicina a quella veterotestamentaria che mette in guardia dal pericolo di contagio con gli idoli e considera l’idolatria come un «peccato modello». Il testo esordisce proprio in questo senso:

L’idolatria è il principale crimine del genere umano, la più grave colpa del secolo, tutta insieme ed allo stesso tempo è la causa del processo e del giudizio. Infatti, benché ogni delitto abbia la propria specifica definizione, tuttavia ogni delitto è una manifestazione del crimine di idolatria26.

Omitte titulos, lascia perdere i nomi, le etichette, continua Tertulliano: opera recognosce, esamina i fatti. Al di là dei nomi che si possono attribuire ai diversi

peccati, legati ciascuno a una particolare azione, l’idolatria è la disposizione d’animo

23 G. Didi-Huberman, L’immagine aperta, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 60. 24 Ivi, p. 62.

25 R. Braun, «Chronologia Tertullianea: le De carne Christi et le De idololatria», in Annales de la

Faculté des Lettres et Sciences Humaines de Nice, 21, 1974, pp. 271-282.

che si trova alla base di ognuno di essi. Idolatria è omicidio e omicidio è idolatria: chi rende culto agli idoli uccide se stesso, condannando la propria anima, e chi uccide ha voltato le spalle a Dio.

Tertulliano sembra riconoscere, con Paolo, che l’idolatria è nel cuore: è nel valore che si attribuisce a un fenomeno e non è provocata meccanicamente dalla cosa stessa. Si immagina infatti un esempio simile a quello di 1 Cor 8, la partecipazione a un evento in cui si celebra un sacrificio. Rituali di questo tipo erano diffusi in quasi tutte le funzioni pubbliche, come per esempio i matrimoni, e non solo in cerimonie strettamente religiose. Qui la differenza, ancora una volta, sta nella disposizione d’animo con cui si partecipa all’evento: «se, invitato per un sacrificio, vi assisterò, sarò partecipe dell’idolatria; se un’altra causa mi mette insieme a colui che sacrifica sarò soltanto spettatore del sacrificio»27. Se il fine per il quale si è presenti non è il sacrificio stesso, ma altro – come le nozze di un amico pagano – «possiamo considerarci al servizio dell’uomo e non dell’idolo»28.

Davanti a un idolo si può anche non essere idolatri, se non gli si presta servizio né coi gesti né con la mente. Allo stesso tempo, tuttavia, si deve tenere conto che «l’idolatria esiste anche senza idolo»29. Persino nell’antica società ebraica, aniconica,

dove «una volta, tanto tempo fa, non esisteva nessun idolo […], seppure non sotto il medesimo nome, nello specifico modo di agire si praticava l’idolatria»30. È evidente che qui Tertulliano usa il termine idolo in modo diverso da come lo usa Paolo in 1

Cor 8, 4: lì si intendeva un falso Dio («nessun idolo al mondo [ouden eidolon en kosmo] e nessun Dio, se non uno [kai oudeis Theos, ei me eis]»), mentre qui si

intende una semplice immagine. Tertulliano si rifà all’etimologia del termine:

Eidos in greco ha il significato del latino forma; ne consegue che il diminutivo eidolon da esso derivato ugualmente presso di noi suona formula. Pertanto ogni forma o formula chiede di essere chiamata idolo. Ne consegue che ogni forma

di devozione (famulatus) e di servile dedizione (servitus) nei confronti di un idolo sia idolatria31.

27 Ivi, 16, 1. 28 Ibid. 29 Tertulliano, L’idolatria, 3, 1. 30 Ibid. 31 Ibid.

Se davvero per idolo si deve intendere una qualsiasi immagine, senza fare differenza di contenuto («nessuno creda che debba essere ritenuto un idolo solo quello che, con sembianza umane, sia diventato oggetto di culto»32), né di materiale («non è importante che l’idolo sia fatto di gesso, o con dei colori, o di pietra, o di bronzo, o d’argento, o di filo»33), l’estensione di ciò che va temuto e per quanto è

possibile evitato, è simile a quella indicata dal secondo comandamento, che non a caso Tertulliano cita poco dopo per ricordare che «Dio proibisce sia che l’idolo venga prodotto sia che venga venerato»34. Chi fabbrica un idolo è idolatra anche se

non gli rende culto, perché qualsiasi forma di assoggettamento all’idolo è sufficiente per cadere nel principale peccato del genere umano. I termini famulatus e servitus usati da Tertulliano indicano una forma di schiavitù e dipendenza nei confronti delle immagini che può prendere diverse forme, ma che consiste fondamentalmente nel perdere parte della propria agentività a loro vantaggio, nel subire la loro influenza.

Alla base della denuncia dell’idolatria e della messa in guardia dalle immagini, si trova quindi il riconoscimento del loro potere. Se non si ravvisasse una qualche loro efficacia, sarebbero ritenute innocue. Lo stesso Paolo ritiene che la coscienza debole di chi ha consuetudine con gli idoli (la rappresentazione di falsi dèi come se fossero veri) finisca per essere affetta dalla loro presenza al punto da esserne «contaminata» (molunetai). Questo termine occorre solo una volta in Paolo e riguarda solo gli effetti del rapporto reiterato con gli idoli sulla coscienza (syneidesis), ma viene subito seguito dall’affermazione che mangiare o non mangiare qualsiasi cosa non ci avvicina ne ci allontana da Dio. Si ammette solamente che determinate esperienze possano avere effetti sulla nostra coscienza e soltanto questa può renderci più o meno vicini a Dio.

Il campo semantico dell’immondo e della malattia, che era così comune nell’Antico Testamento, soprattutto in relazione agli idoli (gilulim), è quasi assente in Paolo, ma ritorna in Tertulliano: «non penso che noi si sia immuni dal contagio dell’idolatria [a contagio idolatriae vacare]»35; «ciò dovrà essere evitato a causa

dell’idolatria, […] anche se soltanto a parole viene detto che egli mangia del

32 Ibid. 33 Ibid. 34 Ivi, 4, 1. 35 Ivi, 8, 1.

sacrificio. Perché? È forse minore la contaminazione [inquinamenti]?»36; «piuttosto, evitiamo già da lontano ogni suo respiro come se si trattasse della peste»37. La metafora della malattia aiuta a comprendere una relazione, quella tra coscienza e immagine, su cui non si ha il controllo. Il respiro pestilenziale ci contagia prima che ci rendiamo conto di esserci avvicinati troppo. La potenza delle immagini sta nella loro capacità di agire sullo scarto che si apre nella coscienza scissa, tra il conoscere e il riconoscere, il sapere e il volere, l’agire e il giudicare. Nonostante ci si senta forti dell’aver acconsentito nel proprio intimo alla legge di Dio, le immagini agiscono sulla legge nelle membra «che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo»38. Si poteva davvero assistere al rituale di apoteosi, come ci viene descritto da Zanker, e continuare a dirsi “no, non sta succedendo niente, l’imperatore è solo un uomo”?

È qui che prende forma il vero paradosso di Tertulliano, segnato da un lato da un moralismo rigorista che pensa ancora in termini di immunità, dall’altro convinto che se Cristo ha amato l’uomo, «formato nelle immondizie dell’utero», ha amato «anche la sua nascita, anche la sua carne, perché è impossibile amare qualcosa escludendo ciò che determina il suo essere»39. Com’è possibile essere convinti della potenza dell’agape che tutto include e allo stesso tempo credere nella potenza delle immagini che ci assoggettano a esse? Fino a dove è in nostro potere rendere inefficaci gli idoli tramite il retto giudizio della nostra coscienza e quando invece sono loro ad avere la meglio su di noi?

4.3 Apparatus

Nel De corona, un altro testo in cui indirettamente viene affrontato il problema dell’idolatria40, Tertulliano utilizza – forse per la prima volta in ambito filosofico –

36 Ivi, 10, 1.

37 Ivi, 12, 1. 38 Rm 7, 23.

39 Tertulliano, De carne Christi, 4, 3.

40 Probabilmente intorno al 211 un soldato romano, cristiano, si rifiutò di indossare la corona che gli

imperatori Geta e Caracalla avevano fatto consegnare a tutti i membri dell’esercito in occasione di una cerimonia militare. Dichiarando di essere cristiano e di non coronarsi perché riteneva il gesto

un concetto che può aiutarci a comprendere il complesso intreccio tra l’azione dell’interno sull’esterno e quella dell’esterno sull’interno, un concetto che sarà centrale nel pensiero di Flusser e di molti degli autori che hanno riflettuto sui nuovi media: il concetto di apparato.

La contraddizione tra la posizione agapica paolina e quella immunitaria e rigorista, entrambe presenti in Tertulliano, viene fatta emergere in un breve dialogo interiore che lo porta a cercare finalmente una soluzione.

Tutto è puro per chi è puro (Tt 1, 15); e così tutto è impuro per chi è impuro. –

Niente però è più impuro degli idoli. – Ma le cose sono pure, in quanto realtà create da Dio, e in virtù di questa loro condizione sono di uso comune. – Però anche il modo concreto di usarne fa differenza [ipsius usus administratio

interest]41.

Si può parlare di un dialogo interiore perché Tertulliano è fondamentalmente d’accordo con tutte le affermazioni precedenti. Alla citazione di Paolo segue un’obiezione rigorista, vicina alle concezioni giudeo-cristiane; la terza affermazione, un’obiezione usuale da parte dei pagani42, riflette un atteggiamento razionale nei

confronti del divino ed è probabilmente quella da cui Tertulliano si sente più lontano; la risposta conclusiva utilizza nuovamente un argomento paolino, tratto sempre da 1

Cor 8, che contrappone un uso lecito e uno illecito. Se si accetta la premessa agapica

che tutto è puro per chi è puro, l’impurità degli idoli dev’essere determinata dall’impurità della coscienza. Da questa consapevolezza non si deve però trarre la conseguenza che se tutto ci è indifferente si può fare tutto, perché sebbene le cose in se stesse non abbiano effetti sulla coscienza, il modo di usarne può trasformare il nostro sguardo su di esse rendendole impure.

Infatti, io immolo un gallo a me stesso, come anche Socrate a Esculapio, e brucio qualche profumo d’Arabia, se mi disturba l’odore di qualche luogo, ma non col medesimo gesto rituale né col medesimo abbigliamento né col medesimo apparato [apparatu] con cui si sacrifica agli idoli.

idolatrico, il soldato era stato arrestato e condannato a morte. Era ancora vivo e in carcere quando Tertulliano scrisse questo trattato in difesa della scelta del soldato.

41 Tertulliano, De corona, 10, 1. 42 Cfr. Tertulliano, De spectaculis, 2, 1.

Il termine apparatus fa parte della famiglia semantica del verbo parare, preparare, disporre, nel senso di rendere pari (par, -is). Il prefisso ad- aggiunto a parare indica una finalità imminente: approntare, “allestire per”, “predisporre a”43. L’apparatus è

tutto ciò che viene “apparecchiato”: le posate disposte sulla tavola per il pasto; le armate disposte sul campo per la battaglia; le candele e gli incensi disposti sull’altare per il sacrificio; le parti di una catapulta montate e disposte per scagliare il masso; la grande pira, l’aquila, i ritratti, i cori e il corteo pronti per l’apoteosi. L’apparato è l’insieme degli elementi necessari a svolgere una funzione le cui componenti, singolarmente prese, sono inefficaci. Usando il termine apparatus Tertulliano si limita in questo caso a riferirsi agli oggetti presenti sull’altare, probabilmente incensi e piante profumate, ma considerando insieme questi oggetti, l’abito e il gesto rituale, sta identificando esattamente quel sistema capace di produrre effetti che sfuggono al controllo di chi, invece, poteva mantenere verso ciascuna delle sue componenti una distaccata indifferenza.

Nell’elenco di elementi in sé indifferenti ma pericolosi se articolati con altri in un apparato, compaiono l’abito, il gesto, i profumi d’Arabia e il gallo da immolare: sono assenti le immagini, che pure in un rituale pagano di epoca imperiale non dovevano mancare. Tertulliano sembra prendere alla lettera il secondo comandamento, definendo tutte le immagini come idoli44 e condannandone non solo la venerazione, ma anche la produzione e qualsiasi contatto che anche contro la propria volontà possa portare a dedicare loro una servile dedizione. Se sviluppiamo fino in fondo la considerazione per cui niente è in sé impuro, ma tutto può essere occasione di caduta – può avere cioè un effetto performativo e agire sulla nostra coscienza – quando ci si presenta “apparecchiato” con altri elementi, allora potremmo permetterci l’azzardo ermeneutico di pensare che le immagini stesse, secondo le basi poste da Tertulliano, possano funzionare come un apparato. I colori, le linee, i materiali, non importa

43 Da apparatus derivano in italiano sia “apparato” che “apparecchio”. In inglese apparatus traduce

anche il termine “dispositivo”. In francese oltre a appareil, che traduce sia l’apparato amministrativo che l’apparecchio tecnico, è presente il termine apparat, con cui si intende la pompa di una cerimonia (qualcosa di simile vale per il portoghese con i termini aparelho e aparato). Questo ci permette di pensare come l’aspetto amministrativo, quello tecnico, quello rituale e quello spettacolare siano tutti implicati nel concetto latino di apparatus.

44 Ci sono alcune rare eccezioni. In un passaggio del De idololatria (5, 1) Tertulliano fa riferimento al

serpente di bronzo che in Numeri 21, 8-9 Dio commissiona a Mosè per guarire chi è stato avvelenato dai serpenti veri nel deserto. Il serpente di bronzo non è un idolo, ma non è nemmeno un’immagine (imago, similitudo, effigies), bensì una figura, come si chiarirà più avanti.

quanto preziosi e decorativi, non sono idoli in se stessi, ma solo se disposti per rappresentare qualcosa45. In quel caso le componenti visive costituiscono qualcosa che potremmo definire un apparato mimetico: è quello a dare scandalo, portandoci a guardarlo come se fosse davvero ciò che non è.