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Significare e sostituire

Essere assoggettati al segno

4.5 Significare e sostituire

Se fino a Tertulliano la figura si limitava a essere un dispositivo ermeneutico, per quanto fondamentale, con Agostino diventa il modello di ogni significazione. Come l’amore di Dio è condizione e fine di ogni sapienza, allo stesso modo l’interpretazione biblica è il modello per una teoria dei segni che ha come proprio fine ultimo quello di fare da fondamento a una teoria dell’esegesi dei testi sacri. Nel

De magistro si afferma che «nulla si insegna senza segni»74, ma allo stesso tempo la conoscenza della cosa dev’essere presupposta perché si comprenda il significato del segno che la esprime. In modo simile, la verità è annunciata dalle figure, che sono pienamente comprensibili solo alla luce dell’evento che le compie. Non si può mostrare o fare riferimento ad alcunché senza ricorrere a segni, verbali o gestuali che siano: persino indicare l’oggetto in questione o imitare l’azione che si vuole esprimere sono dei segni. Per chi non ne conosca già il significato, tuttavia, questi segni sono incomprensibili75.

Una figura è in funzione del proprio adempimento: è necessariamente più oscura, parziale e imperfetta della verità che la compie. Senza questa differenza di grado non

72 È quest’indice storico a distinguere nettamente la figura dall’allegoria. La lettura allegorica dei testi

sacri, molto utilizzata per esempio da Filone di Alessandria, ricerca dei profondi significati morali o mistici, che hanno un valore extra-storico e sono semplicemente veicolati dal racconto, ma potrebbero essere espressi altrimenti.

73 Nu 21, 7-9; Tertulliano, L’idolatria, 5, 1. 74 Agostino, De magistro, 10, 31.

75 Chi insegna quindi non trasferisce conoscenza nell’alunno, ma le sue parole sono un’occasione

perché il discepolo rifletta dentro di sé, intuisca la verità di ciò che è stato detto e lo apprenda interiormente (intus). Cfr. Agostino, De magistro, 14, 46.

c’è rimando, ma una somiglianza inerte. Nei Soliloquia si distingue la somiglianza tra cose uguali, che è reciproca (le uova, i gemelli, le impronte), e quella tra cose di grado diverso, dove qualcosa di inferiore e meno perfetto (deterior) si dice essere simile a qualcosa di superiore (un riflesso allo specchio rispetto al corpo di cui è immagine, un’impronta rispetto a ciò che l’ha causata). Nel secondo caso tutti gli elementi della cosa inferiore si trovano in quella superiore, ma non viceversa: perciò non si può dire che un uomo somigli al suo ritratto, ma solo il contrario. Per lo stesso principio, la somiglianza quasi perfetta di due uova ci impedisce di usarne uno come segno dell’altro. Nel De magistro si stabilisce che tutto ciò che è in funzione (propter) di altro «è necessariamente inferiore a ciò di cui è in funzione»76. Quest’inferiorità non risponde a una gerarchia ontologica, ma a una scala di valori determinata dal soggetto giudicante. È lui che usa qualcosa in funzione di altro e seleziona i suoi mezzi in base all’obiettivo che intende raggiungere.

Nelle prime pagine del De doctrina christiana è teorizzata con chiarezza una tale organizzazione del mondo secondo mezzi e fini, che viene posta a fondamento di tutta la teoria del segno.

Ci sono alcune cose di cui dobbiamo godere [frui], altre che dobbiamo usare [uti]; ce ne sono poi altre che godono e usano. Quelle di cui dobbiamo godere ci rendono felici; quelle che dobbiamo usare ci sono di aiuto nel tendere alla felicità e, per così dire, ci sostengono perché possiamo giungere a quelle che ci rendono felici e unirci a loro77.

Più ancora che comprendere quali siano i mezzi adeguati a raggiungere determinati fini, la difficoltà sta nell’individuare ciò di cui dobbiamo godere. Non tutto, infatti, è degno di essere amato per se stesso. Trattando quotidianamente con le cose di cui dovremmo solo fare uso siamo tentati di volerne anche godere: in questo modo, tuttavia, «siamo impediti nel nostro procedere e talvolta anche sviati, così che impigliati nel desiderio delle cose inferiori siamo ritardati e anche richiamati indietro dal conseguimento delle cose di cui dobbiamo godere»78. Secondo M. Simonetti la distinzione agostiniana tra uti e frui, tra cose transitive e cose intransitive, risente dell’opposizione platonica tra mutabile e immutabile e avrebbe come fonte diretta il

76 Agostino, De magistro, 9, 25.

77 Agostino, De doctrina christiana, I, III 3. 78 Ibid.

De officiis di Cicerone, che distingue tra utile e honestum, e il De philosophia di

Varrone, opera perduta. Nonostante l’impostazione e la terminologia chiaramente filosofica, si può tuttavia ipotizzare che si ha qui a che fare con una rielaborazione del concetto biblico di idolatria: solo di Dio si può davvero godere esclusivamente per se stesso. Chi gode di qualcosa di finito non può che trascurare Dio, riservando ad altri la dedizione solo a Lui dovuta. Quando il mezzo che si sceglie di utilizzare per raggiungere il proprio fine risulta eccessivamente piacevole, non si tratta più di uso, ma di abuso: lo strumento si interpone tra noi e il nostro obiettivo, oscurandolo invece di condurci a esso. Il mezzo, il cui godimento non può renderci altrettanto felici quanto il fine che ci eravamo posti, si sostituisce a quest’ultimo e noi restiamo «impigliati in una perversa dolcezza [perversa suavitate implicati]»79.

I segni sono strumenti per giungere ad altro, cose che servono a significare altro: fanno parte del regno delle cose sensibili e temporali a partire dalle quali «dobbiamo comprendere le realtà eterne e spirituali»80. Usano dei segni non solo coloro che li creano, ma anche chi li interpreta come tali. Possono essere usati «per effondere e trasferire nell’animo di un altro ciò che ha nel proprio animo colui che dà il segno», o come fanno gli animali quando «esternano gli appetiti del loro animo»81, e in questo caso si tratta di segni «intenzionali» (data)82. Ma possono anche essere usati quando «grazie all’osservazione e all’esperienza» siamo in grado di risalire da un fenomeno a ciò che lo determina, anche quando non c’è intenzionalità, e in questo caso si parla di segni «naturali»: il fumo rivela il fuoco, la traccia il passaggio di un animale, il volto lo stato d’animo. In tutti questi casi il segno è sempre subordinato a ciò a cui si riferisce. La stessa perversione che Agostino individua nel rapporto tra cose da usare e cose di cui godere, può essere ritrovata anche per quanto riguarda la relazione tra i segni e le cose significate.

Che questa teoria della perversione dei segni sia una rielaborazione del concetto di idolatria è reso esplicito da un passo dello stesso Agostino:

79 Ivi, I, IV 4.

80 Ibid. 81 Ivi, II, II 3.

82 M. Simonetti traduce data come “intenzionali” e non secondo la traduzione corrente come

“convenzionali”, «perché da tutto il contesto risulta chiaro che la distinzione tra signa naturalia e data è basata soltanto sulla volontarietà, cioè sull’intenzionalità, di chi dà il segno», Commento a

L’istruzione cristiana, Fondazione Lorenzo Valla, Roma 2000, p. 418. A comprovare quest’ipotesi si

consideri che Aristotele, il quale distingue tra segni naturali (physei) e convenzionali (thesei), considera le voci degli animali come appartenenti al primo gruppo, contrariamente ad Agostino.

Ciò che l’apostolo ha detto riguardo agli idoli e ai sacrifici che sono offerti in loro onore [1 Cor 8; 1 Cor 10], dobbiamo estenderlo a tutti i segni immaginari, che spingono o a prestare culto agli idoli o a venerare la creazione e le sue parti quasi fossero Dio ovvero a darsi cura di rimedi e altre regole83.

Gli idoli non sono nulla, ma per consuetudine le coscienze deboli considerano le carni a loro sacrificate come se questi esistessero davvero, ammoniva Paolo. Gli idolotiti erano segni immaginari, senza valore – come lo sono tutte le superstizioni ancora diffuse – «ma dato che sono stati notati e registrati, per questo hanno assunto valore, e producono effetti diversi sulle diverse persone a seconda delle idee e dei preconcetti di ognuno»84. Agostino, come già Tertulliano seguendo la linea paolina, tiene in particolare considerazione il contesto in cui si dà il giudizio, che non può limitarsi al valore che una determinata azione avrebbe in se stessa. Denudarsi durante un banchetto è scandaloso, mentre farlo in un bagno pubblico non lo è85. Come

questo sono tanti gli esempi di relatività dei valori: Agostino ne cita diversi, mostrando come le consuetudini di un popolo sembrano vergognose a un altro e viceversa, e come anche all’interno della stessa cultura – quella latina per esempio – le abitudini possano variare profondamente, al punto che molti si sono convinti che non esista una giustizia in sé, «ma che a ogni popolo sembra giusta la propria consuetudine»86. L’errore di chi la pensa in questo modo è di non riuscire a pensare una legge che non sia quella dell’universalismo astratto, che risulta dall’estendere a tutti un punto di vista particolare. «Non hanno capito, per non dilungarmi troppo, che il precetto “non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te” non può assolutamente variare in relazione alla diversità delle loro usanze pagane»87: è la legge dell’amore che permette di orientarsi tra le diverse consuetudini e regolare il proprio giudizio in base al contesto. Ed è sempre questa legge a permetterci di discernere ciò che è degno di amore per sé e ciò che non lo è: «definisco amore l’inclinazione dell’animo volta a godere di Dio per lui stesso e di sé e del prossimo per Dio; cupidigia invece

83 Agostino, De doctrina christiana, II, XXIII 36. 84 Ivi, II, XXIV 37.

85 Agostino, De doctrina christiana, III, XII 18. In un contesto inappropriato la nudità è scandalosa

anche senza che sia espressione di un’intenzione libidinosa, perché può provocare effetti nefasti sulle coscienze deboli, effetti che invece non si verificano in altri contesti.

86 Ivi, III, XIV 22. 87 Ibid.

l’inclinazione dell’animo volta a godere di sé e del prossimo e di qualsiasi essere corporeo non per Dio» 88 . La cupidigia, l’incapacità di amare, è quindi fondamentalmente un sinonimo dell’idolatria.

«Non tutto ciò che fingiamo è menzogna, ma solo quando fingiamo ciò che non significa nulla»: così è per gli idoli e per tutte le superstizioni, istituzioni umane prive di significato. Una costruzione che non serve ad avvicinarsi a ciò di cui è degno godere non è solo inutile, ma dannosa perché ci seduce e ci intrappola:

È assoggettato al segno chi compie qualche atto o venera qualche cosa che hanno valore di segni, senza sapere che cosa significhino. Chi invece compie o venera un segno utile istituito da Dio e ne comprende significato ed efficacia, venera non ciò che appare e passa ma proprio ciò cui tutti questi segni vanno riferiti89.

L’idolatra è assoggettato al segno: questa formulazione, in linea con il pensiero di Paolo e di Tertulliano, il quale considerava idolatria ogni forma di famulatus e

servitus nei confronti di un idolo, aggiunge al concetto un’accezione semiotica che lo

emancipa dal suo legame privilegiato con le immagini. In modo oramai sempre più evidente l’idolatria è considerata una perversione del modo in cui ci si rivolge agli elementi che mediano tra interno ed esterno, tra soggetto e soggetto: i segni, li chiama Agostino, i media, saranno chiamati dal pensiero critico del XX secolo. Le immagini, per la loro lenocinante disposizione alla similitudine, tendono a catturare lo sguardo e a impigliarci nella loro «perversa dolcezza» con una forza maggiore rispetto agli altri segni. Ma questo non significa che tutte le immagini siano in se stesse idoli: si potrebbe pensare a delle immagini dissimiglianti e oneste, che si presentino chiaramente come segni. Allo stesso tempo è possibile che l’occasione di caduta siano altri segni, come i rituali, il cibo o persino la scrittura, quando si rimane attaccati alla sua lettera e non al suo spirito. Sono idolatri i pagani che venerano «come dèi le immagini fatte dalla mano dell’uomo»90, ma anche quelli che

riconoscono che una statua di Nettuno è solo un segno che sta a significare tutto il mare: «perché per me non è dio sia qualsiasi statua sia tutto il mare»91. Pur

88 Ivi, III, X 16. 89 Ivi, III, IX 13. 90 Ivi, III, VI 11. 91 Ibid.

riconoscendo qualcosa come segno, scambiano la creatura per il creatore e non godono di Dio in essa, ma della creatura per se stessa. Agostino sembra accusare di idolatria persino gli ebrei che «apprezzavano i segni delle cose spirituali come se fossero le cose stesse, perché non sapevano a che si riferissero»92, nonostante si trattasse senza dubbio di un peccato minore, dato che questi, pur se assoggettati al segno, «erano graditi all’unico Dio dell’universo»93.

Gli errori possono essere ricondotti a due principali categorie: chi non riconosce un segno come tale e lo tratta come fosse qualcosa di cui godere per se stessa e chi riconosce qualcosa come segno, ma non è in grado di interpretarlo e ne fraintende il significato. «Chi invece non capisce che cosa significhi il segno e tuttavia capisce che è un segno» non è oppresso dalla schiavitù: in quel caso deve farsi guidare da coloro che, liberi, ne hanno compreso «significato ed efficacia»94.