• Non ci sono risultati.

Roma e il potere delle immagin

Essere assoggettati al segno

4.1 Roma e il potere delle immagin

Gli idoli non esistono, ci insegna Paolo. Sono una semplice illusione dovuta a una superstizione, a una consuetudine. Ma quasi due secoli dopo, i primi filosofi cristiani scrivono ancora contro l’idolatria e mettono in guardia i fedeli dalle immagini. Perché l’idolatria è ancora un pericolo? E se ciò che conta è ciò che sta nel cuore (i buoni o i cattivi propositi, la presenza o l’assenza dell’amore), perché mettere in guardia dalle immagini e dagli altri prodotti umani? Le cose esterne non erano state rese indifferenti?

Una prima risposta di ordine storico alla domanda “cosa resta dell’idolatria dopo Cristo?” deve riguardare il contesto in cui scrivono i Padri della chiesa e può essere ricercata in alcune opere sul ruolo delle immagini nel tardo ellenismo e in particolare nell’impero romano1. Gli autori che a partire dal secondo secolo possono oramai dire

di professare la fede del christianismos, in opposizione allo ioudaismos, sono cittadini romani di cultura tardo ellenistica ed è in risposta alla crisi di questa cultura che molti si sono convertiti. L’inclinatio, il declino culturale, politico, economico e morale di Roma, soprattutto dopo la morte di Marco Aurelio (180 d.C.), era percepito da tutti: i cristiani si differenziavano semplicemente perché lo leggevano come l’approssimarsi della fine dei tempi2. Già molto prima di questa crisi politica,

verso la fine della repubblica, si registrava la percezione di una decadenza dei costumi, che in molti casi portava a rimpiangere l’austerità della religio e della moralità arcaiche3. A questo sentimento di crisi si accompagnava un generale senso

1 P. Zanker, Un’arte per l’impero, Electa, Milano 2002; Id., Augusto e il potere delle immagini,

Bollati Boringhieri, Torino 2006 [1989]; T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, Einaudi, Torino 2003 [1987].

2 S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Bollati Boringhieri, Torino 2008 [1959].

3 A sua volta il senso di decadenza morale del II secolo a.C. era stato preceduto dalla crisi agraria che

aveva colpito l’Italia dopo le grandi conquiste. Qui non si vuole indicare quale crisi sia stata originaria, ma dove e quando emersero la percezione della crisi e il concetto di decadenza. Cfr. Ivi, p. 18.

di disillusione e di distacco verso tradizioni a cui non si riusciva più a credere, tanto che Cicerone poteva scrivere in un famoso passo del De divinatione: «Assai spiritoso è il vecchio motto di Catone che affermava di meravigliarsi che un aruspice non si mettesse a ridere ogni volta che vedeva un altro aruspice. Quante sono le cose predette da essi che sono poi accadute?»4. Prima ancora della crisi politica, una crisi

dei valori segna la cultura tardo ellenistica dell’impero precedente al definitivo affermarsi del cristianesimo come religione di Stato, uno smarrimento che Yourcenar, citando Flaubert, descrive così: «Quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo»5.

Il primo segno evidente della trasformazione della cultura di quest’umanità abbandonata a se stessa è nella funzione delle immagini. In un impero vastissimo e culturalmente eterogeneo che aveva un profondo bisogno di coesione queste sono rapidamente diventate il principale strumento di comunicazione pubblica6. «Siamo ancora tutti nell’impero, e tutte le strade portano a Roma»7, afferma Flusser, il quale

è convinto che il potere dell’impero romano fosse dovuto al suo sistema infrastrutturale e alla sua capillare organizzazione comunicativa, che sarebbe resistita alla cristianizzazione dell’impero e poi alla sua caduta, arrivando a informare la società medievale e moderna. Roma è per Flusser il modello di un’organizzazione centralizzata fondata su un emittente principale (auctoritas) a cui i destinatari sono connessi grazie alla loro religio (che Flusser riporta a religare8), garantendo la

traditio (la trasmissione fedele delle informazioni provenienti dall’alto). Non è un

caso quindi che la maggiore autorità religiosa si chiamava pontifex maximus9: i ponti e le strade sono tanto essenziali per la cultura e la società romana quanto i teatri e le piazze per quella greca. È a partire dalla loro funzione comunicativa che devono

4 Cicerone, De divinatione, II, 24.

5 M. Yourcenar, «Taccuini d’appunti», in Memorie di Adriano, […]

6 Questo discorso è valido, prima ancora che per Roma, per l’impero di Alessandro Magno, dove si

può rintracciare l’inizio di questo processo.

7 V. Flusser, Kommunikologie weiter denken, cit., p. 138, trad. mia.

8 Secondo E. Montanari religio non deriva da religare (legare), interpretazione nata con Lattanzio per

poi essere attribuita agli antichi, ma da religere (raccogliere nuovamente) o relegere (rileggere). Cfr. E. Montanari, «Il concetto di "religio" a Roma», in G. Filoramo (a cura di), Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino 1993, p. 642.

essere comprese non solo le principali infrastrutture, ma anche e soprattutto le epigrafi, i monumenti, le statue, le monete e tutti gli altri media visivi.

Paul Zanker, in Un’arte per l’impero, descrive questo processo come una «strumentalizzazione politica delle immagini»10. Con quest’ultimo termine si devono intendere, in senso ampio, «non solo le opere d’arte, gli edifici e le visioni poetiche, ma anche i rituali religiosi, l’abbigliamento, le cerimonie di Stato e gli atteggiamenti del sovrano: insomma tutte le forme di rapporto sociale suscettibili di assumere una valenza visiva»11. Si potrebbe quasi fare un parallelo con le pratiche moderne della

pubblicità e della propaganda politica, se non si rischiasse perdere di vista una questione fondamentale: non si aveva a che fare con un’istituzione unica (l’impero come un’impresa o un partito) che intendeva influenzare direttamente il suo pubblico, ma con un articolato intreccio di relazioni che includeva il senato e le classi più agiate. Ogni rappresentazione dell’imperatore commissionata da un privato cittadino era insieme un’autorappresentazione della propria posizione sociale e una glorificazione di Roma stessa. «Il potere delle immagini si concretizza secondo uno schema circolare: anche i potenti finiscono per soggiacere alla suggestione dei propri simboli»12.

Erano in tanti a partecipare all’elaborazione di una strategia comunicativa da rendere difficile pensare che non fossero almeno in parte coscienti della funzione che avevano le immagini. Si può pensare che in molti fossero consapevoli che queste non

rappresentavano la divinità dell’imperatore, ma lo rendevano divino e allo stesso

tempo questa coscienza era repressa perché non vanificasse gli effetti voluti. Fenomeni come lo Zeitgesicht, il «volto d’epoca», per cui i ritratti di privati tendono ad assomigliare ai ritratti degli imperatori del momento, rendono chiaro come la funzione principale delle immagini non fosse più quella di ricercare un modello (per esempio, nella statua di un soggetto maschile, un ideale di uomo), come avveniva almeno fino al IV secolo a.C., bensì di costruire un personaggio utilizzando modelli

10 P. Zanker, Un’arte per l’impero, cit., p. 7. 11 Ivi, p. 5.

12 P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, cit., p. 6. Un discorso di questo tipo può essere forse

considerato valido anche per la propaganda e la pubblicità moderna, ma è bene che Zanker faccia il distinguo, per evitare che si riduca tanto il sistema comunicativo antico, quanto quello moderno, a un modello semplificato e stereotipo.

già disponibili, quelli offerti dalla tradizione13. Alla funzione conoscitiva delle immagini, che ancora si può individuare nei dialoghi platonici, per quanto svalutata, e che si ritrova in modo eminente nella Poetica di Aristotele, si è sostituita una funzione comunicativo-performativa: chi fa immagini non guarda più all’archetipo, a ciò di cui l’immagine è immagine, ma solo agli effetti che questa potrà avere sul suo pubblico.

Secondo Tonio Hölscher14 il nuovo linguaggio figurativo sviluppatosi nel tardo

ellenismo non è semplicemente un nuovo stile, che succede a quelli che lo anno preceduto, ma comporta una fondamentale rottura. Il presupposto da cui partiva tanto l’arte arcaica, quanto quella classica e persino quella del primo ellenismo, «era che il mondo potesse essere afferrato nei suoi aspetti sostanziali come realtà fisica concreta; ogni cambiamento delle possibilità formali dell’arte andava quindi inteso anche come acquisizione di una nuova parte di realtà»15. In altri termini si credeva che la physis potesse essere almeno parzialmente compresa imitandone, o meglio ri-

presentandone16, alcuni tratti essenziali. La selezione di alcuni aspetti a scapito di altri permetteva di vedere meglio la forma di qualcosa, trascendendo la mera contingenza di ciò che appariva: la differenza tra gli stili delle diverse epoche era solo dovuta a quali tratti si riteneva necessario selezionare e quali trascurare.

Il nuovo linguaggio figurativo, pur utilizzando gli stessi schemi formali – o meglio proprio per questo –, ne trasforma radicalmente il senso, andando in direzione di un’«astrazione dei contenuti» e di una «tipizzazione delle forme»17. Una volta

persa la fiducia nella capacità delle immagini di fungere da via d’accesso alla verità delle cose, a queste non resta che la funzione comunicativa: la realtà visibile non è più rappresentata per permettere di avvicinarsi al suo fondamento invisibile, ma diventa «sempre più segno di idee non empiriche»18, veicolo di concetti astratti finalizzati principalmente alla comunicazione politica. «La coerenza della realtà era

13 Cfr. D. Guastini, Prima dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., «Mimesis, apotheosis, kenosis.

Arte poetica e fede religiosa nell’antichità», in Acta Philosophica, II, 24, 2015, pp. 247-264.

14 T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, cit. 15 Ivi, p. 68.

16 È come «ri-presentazione, presentazione su un altro piano», che Guastini concepisce il concetto

classico di mimesis, D. Guastini, Prima dell’estetica, cit., p. 20.

17 T. Hölscher, Il linguaggio dell’arte romana, cit., p. 69. 18 Ibid.

meno importante della comprensibilità del significato concettuale»19. Per rendere la comunicazione più chiara, efficace e comprensibile a tutti, si ricorre alla tipizzazione delle forme. Il concetto di mimesis si depotenzia al punto che non si imita più la realtà, ma i modi tradizionali di rappresentarla: si emulano gli stili. Sull’altare augusteo di Arezzo, per esempio, si trovano insieme un rilievo di derivazione ellenistica che rappresenta la lupa con i gemelli in un ambiente bucolico, e sulle facce laterali due Vittorie in stile neoattico, di cui una arcaizzante. Quello che a prima vista appare un eclettismo dominato dall’arbitrio e da preferenze personali, si rivela essere una «selezione regolata su ciò che si intende comunicare»20. Le due figure allegoriche sono più chiaramente identificabili se isolate dal contesto, come avviene con le forme neoattiche, mentre per esprimere l’idillio del paesaggio naturale lo stile ellenistico risulta più adatto.

I diversi modi di rappresentazione sono tutti disponibili come in un repertorio, condiviso dal pubblico, a cui si può attingere liberamente, a seconda del messaggio che si intende trasmettere, degli effetti che si vuole produrre e dell’aspetto che si preferisce sottolineare. Perciò si può parlare, secondo Hölscher, di una semantizzazione degli stili, che finiscono per costituire le componenti di un sistema. I modi di rappresentazione che si erano succeduti diacronicamente dalla grecità arcaica, a quella classica, fino all’ellenismo, nel tardo ellenismo sono tutti disponibili sincronicamente. Nell’Atene del V secolo a.C. una scultura come il Laocoonte sarebbe stata considerata non verosimile, inadeguata alla rappresentazione del vero, mentre nella Roma del I secolo d.C. una statua simile poteva essere inadeguata solo a un determinato luogo e a un determinato contesto, cioè inadatta a produrre certi effetti desiderati.

L’esempio forse più eclatante della funzione comunicativa e insieme performativa delle immagini è quello del rituale dell’apoteosi, dove è quasi impossibile distinguere la rappresentazione dal rituale stesso. Il profondo legame tra rituale e immagine non è da sottovalutare e non è un caso, come nota Zanker, che la maggior parte dei rilievi dell’arte imperiale romana non rappresentino eventi unici, bensì «rituali che si

19 Ivi, p. 71.

ripetono ciclicamente»21, al punto che in casi di damnatio memoriae il ritratto di un imperatore poteva essere semplicemente sostituito con un altro, senza che la composizione del rilievo ne risentisse.

Quando un imperatore che il senato considerava degno di ricordo e venerazione moriva, aveva luogo il rituale dell’apoteosi, la sua assunzione al cielo, a cui la popolazione prendeva parte direttamente. Lungo le strade principali di Roma, dominate dai maggiori monumenti, si dispiegava un corteo chilometrico in cui sfilavano i senatori, le mogli con i loro lamenti, i rappresentanti di tutte le professioni, reparti scelti dell’esercito. L’intera processione era accompagnata da cori e immagini dei maggiori trionfatori del passato si levavano sulla folla. Doni venivano offerti dai rappresentanti di varie città dell’impero. La celebrazione culminava nella cremazione della salma, deposta in un tabernacolo d’oro, su una monumentale pira funebre ricca d’incenso e preziose piante aromatiche da cui si alzava una nuvola profumata che copriva la città per giorni. Un’aquila, infine, si levava in volo dalla pira portando in cielo l’imperatore divinizzato. «Nei grandi rituali di stato il mito imperiale diventava fino a un certo grado realtà per quelli che partecipavano, e queste esperienze si rinnovavano nel ricordo quando si guardavano le immagini dei monumenti imperiali»22. I rilievi che rappresentavano l’apoteosi sui monumenti conferivano credibilità a ciò che si era visto, mentre il ricordo di ciò che si era visto restituiva vita alle immagini. La potenza di quest’apparato visivo era capace di rendere divino un uomo. Questa era per i cristiani, nei primi secoli dell’impero, l’idolatria.