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Capitolo 1. Alfabetizzazione e istruzione elementare: un excursus storico e storiografico tra l’Europa, l’Italia e la

11. Il caso toscano.

E’ in questo quadro che si colloca il presente lavoro, volto ad illuminare i rapporti tra offerta pubblica (presenza di scuole sul territorio, in primo luogo, ma anche di maestri, di attrezzature didattiche) e domanda privata (partecipazione popolare alla vita scolastica e sue motivazioni) di istruzione. Le riflessioni che sono state svolte fino ad ora giustificano la dimensione locale della ricerca, orientata all’analisi del comune di Prato in Toscana. E proprio sulla Toscana è il caso di spendere qualche parola.

Durante il periodo degli eventi rivoluzionari che condussero all’unificazione politica e statuale della penisola, la legge Casati, che regolava l’istruzione pubblica nel Regno di Sardegna, non venne recepita in egual misura dai governi provvisori dei diversi territori, come si è già avuto modo di accennare. In Toscana il governo provvisorio guidato da Ricasoli non solo non accolse in nessuna sua parte la Casati, ma promulgò una legge (10 marzo 1860) che se ne discostava in alcuni dei suoi punti fondamentali, non prevedendo alcun tipo di obbligo all’istruzione per i bambini e stabilendo che in ciascun comune, a prescindere dalla sua dimensione, si dovesse aprire soltanto una scuola elementare maschile e una femminile143.

La classe dirigente toscana ed in particolare alcuni dei suoi uomini di spicco come Ricasoli, Ridolfi e Lambruschini144 avevano infatti una concezione del ruolo dello stato ben diversa da quella che si esplicitava nella Casati, la quale, pur demandando ai comuni l’impegno finanziario per la scuola primaria, stabiliva tuttavia il diritto dello stato ad intervenire nell’educazione dei bambini obbligando le famiglie a fornire loro una specifica forma di istruzione. Per i liberali toscani, invece lo stato doveva avere un ruolo minimo nella società. Come diceva Ricasoli, “un Governo deve porre la sua gloria nello scomparire il più possibile”145, e se questo valeva per l’economia, nel cui ambito l’interventismo statale era considerato come una “politica intrusiva, rapace, ipocrita, socialista”, valeva anche nell’educazione146. Se la scelta della classe politica piemontese nella costruzione del sistema scolastico pubblico era caduta sul modello “belga” di

143 Si precisava poi che il Ministro della Istruzione Pubblica avrebbe potuto imporre l’apertura di altre

scuole, se una non fosse stata giudicata sufficiente.

144 Ridolfi fu Ministro dell’Istruzione Pubblica nel governo provvisorio toscano; Lambruschini,

pedagogista ed esponente del cattolicesimo liberale, divenne successivamente Regio Ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione italiano.

145 Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di Giulia Camerani e Clementina Rotondi, vol. XXVIII, Roma

1978, n. 507 (lettera del 30 novembre 1875 a Marco Minghetti), 489, cit. in Raicich M., 1981, p. 32.

libertà media, rispetto ai modelli inglese e tedesco, caratterizzati rispettivamente da una netta prevalenza dell’attività privata il primo e da un netto interventismo statale il secondo147, i toscani prediligevano senza alcun dubbio l’esperienza anglosassone, nella quale l’istruzione si era diffusa per il libero gioco delle forze sociali, per l’iniziativa di enti caritatevoli o religiosi, per l’attività di privati cittadini: l’ideale dei moderati toscani era quello che Ricasoli chiamava il “principio santo della scuola anglo-toscana”148. Questo atteggiamento diede luogo ad una serie di controversie e dispute tra i “toscani” e i “piemontesi”149 che riguardavano innanzitutto una revisione della Casati, che per i primi avrebbe dovuto lasciare maggiore spazio all’iniziativa privata e all’autonomia locale.

Ma la posizione della classe dirigente toscana aveva anche conseguenze pratiche nel rallentare la crescita del tessuto di scuole pubbliche, almeno stando alle rilevazioni del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1862, per esempio, il ministro Matteucci lamentava che sul terreno della pubblica istruzione i comuni toscani si muovessero con più lentezza rispetto a quelli delle “provincie napoletane e siciliane” e li esortava a rispettare almeno le direttive della legge toscana del 1860 che prevedevano l’apertura di una scuola maschile e di una femminile per comune, senza far troppo affidamento sulle scuole private, dal momento che “queste non [potevano] giovare alle classi ultime, le quali [mancavano] di mezzi per pagarle”150.

147 “Tre sistemi principali si offrivano da abbracciare: quello d’una libertà piena ed assoluta, la quale,

come in Inghilterra esclude ogni ingerenza governativa; quello in cui, come nel Belgio, è concesso agli stabilimenti privati di far concorrenza cogli istituti dello Stato; quello infine praticato in molti paesi della Germania, dove lo Stato provvede all’insegnamento non solo con istituti suoi propri, ma ne mantiene eziandio la direzione superiore, ammettendo però la concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali. A quale di questi sistemi volesse darsi la preferenza, non fu argomento di molte dubbiezze. Una libertà illimitata che è conveniente e opportuna in Inghilterra, dove i privati sono da tanto tempo avvezzi a fare da sé ciò che altrove è lasciato al governo, non potrebbe senza pericolo esperimentarsi da noi. Anche al secondo sistema possono essere offerte gravi difficoltà da chi si preoccupi di certe condizioni peculiari del nostro paese. Restava pertanto da abbracciare il partito più sicuro, vale a dire un sistema di libertà media, sorretta da quelle cautele che la contengano entro i dovuti confini e da quelle guarentigie che l’assicurino e la difendano contro i nemici palesi ed occulti i quali la farebbero traviare e ne guasterebbero il frutto”. Relazione del ministro Casati sulla legge, pubblicata nella “Gazzeta Ufficiale” del 18 novembre 1859, n. 285, cit. in Talamo G., 1960, p. 73.

148 Carteggi di Bettino Ricasoli, a cura di Giulia Camerani e Clementina Rotondi, vol. XXVIII, Roma

1978, n. 507 (lettera del 30 novembre 1875 a Marco Minghetti), 489, cit. in Raicich M.1981, p. 32.

149 Raicich M, 1981 pp. 32 e sgg.; De Fort E., pp. 69 e sgg.

150 ASF, Ministero della Pubblica Istruzione, filza n° 782, “Affari in proposizione” Richieste di privati da

espletarsi da parte del Ministro o del Direttore della Segreterie di Firenze - Scuole Comunali, 1862,

Circolare del Ministro della Pubblica Istruzione Matteucci ai Prefetti, Sottoprefetti, Regii Delegati per l’istruzione pubblica, Regii Ipettori delle scuole e Gonfalonieri dei Comuni nelle Provincie Toscane, del 2 giugno 1862.

Tabella 1.4. Proclamazione dell’obbligo nei comuni delle diverse regioni italiane nell’anno scolastico 1876-77.

Percentuale dei comuni in cui è proclamato l'obbligo non è proclamato l'obbligo Piemonte 99,26 0,74 Lombardia 96,35 3,65 Liguria 96,10 3,90 Umbria 93,08 6,92 Veneto 92,32 7,68 Emilia 87,31 12,69 Lazio 83,70 16,30 Marche 82,73 17,27 Sardegna 72,60 27,40 Abruzzi e Molise 65,57 34,43 Toscana 58,12 41,88 Calabria 56,06 43,94 Campania 50,06 49,94 Puglie 43,88 56,12 Sicilia 30,64 69,36 Basilicata 23,39 76,61

Fonte: Buonazia G., SULL’OBBLIGO DELLA ISTRUZIONE ELEMENTARE NEL REGNO D’ITALIA.

ATTUAZIONE DELLA LEGGE 15 LUGLIO 1877, Roma, Tipografia Eredi Botta, 1877.

Quindici anni dopo, nell’inchiesta che il toscano Girolamo Buonazia151 condusse sull’applicazione della legge sull’obbligo, la Toscana risultava la regione più arretrata tra quelle dell’Italia centrale, con una proporzione dei comuni, che per numero di maestri erano in grado di proclamare l’obbligo, nettamente più vicina a quelle dell’Italia meridionale che a quelle del settentrione (tabella 1.4).

E non solo. Tra le provincie toscane si riscontrava una grande varietà di situazioni: accanto a Livorno e Grosseto, in cui tutti i comuni avevano proclamato l’obbligo, c’era

151 “Girolamo Buonazia: studioso dei problemi dell’istruzione tecnica negli anni ’50 dell’altro secolo [il

XIX n.d.a.], ebbe un ruolo non secondario nel 1860 nelle trattative tra toscani e piemontesi relativamente al destino della Casati e all’ordinamento complessivo del sistema scolastico nel momento della costruzione dello stato, come dimostrano i suoi carteggi con Lambruschini e Tabarrini”, Raicich M., 1981, p. 37.

quella di Firenze in cui su 78 comuni soltanto 14 l’avevano fatto. “Nessuna delle provincie dell’Italia centrale ha da percorrere sì lunga strada per poter adempiere agli obblighi posti dalla legge che ebbe la data del 15 luglio 1877”, sottolineava amaramente Buonazia, aggiungendo:

“I sindaci di molti comuni cospicui, dove sono facili le comunicazioni, prospera l’agricoltura, fiorente l’industria, non si curano delle scuole. Non che manchi nella popolazione la volontà di istruirsi, il facile ingegno, il gentile costume; ma chi vuole imparare, bisogna si paghi il maestro, o si trovi l’istruzione nelle scuole private o nella famiglia. […]In mancanza di scuola pubbliche, le scuole private, e in particolare le clericali, si moltiplicano e contano 13.922 alunni.”152

Quando Camillo Corradini, dopo circa 30 anni, presentò la sua relazione sull’inchiesta condotta per verificare lo stato di diffusione dell’istruzione primaria e la sua qualità, la Toscana nuovamente non brillava per quantità di risorse destinate all’istruzione popolare e per numero di scuole in rapporto alla popolazione. I dati parlavano chiaro: la Toscana era ultima nella classifica della spesa comunale per l’istruzione come percentuale sulla spesa comunale totale, quintultima in quella della spesa per l’istruzione elementare per abitante, e sestultima in quella del numero di scuole per abitanti (tabella 1.5).

Ed in effetti la Toscana costituiva quasi sempre l’eccezione nell’analisi condotta da Corradini, volta a dimostrare come nonostante il relativamente cospicuo impegno finanziario dei comuni meridionali, questi si trovassero sempre in una situazione di assoluta insufficienza delle dotazioni scolastiche e, come conseguenza, in grave ritardo nella lotta contro l’analfabetismo. I comuni della Toscana facevano eccezione per il fatto di presentare una spesa per l’istruzione molto bassa, sia relativamente alle loro potenzialità finanziarie sia in assoluto, e un’offerta di scuole molto limitata; e tuttavia la regione aveva un tasso di analfabetismo perfettamente in linea con la media del Regno e decisamente più basso non solo di tutte le regioni meridionali, ma anche di alcune regioni del centro, come le Marche e l’Umbria, che spendevano di più per l’istruzione e che avevano più scuole (tabella 1.6).

152 Girolamo Buonazia, SULL’OBBLIGO DELLA ISTRUZIONE ELEMENTARE NEL REGNO

Tabella 1.5. Spesa comunale per l’istruzione e numero di scuole per abitante nelle diverse regioni italiane.

Comparti- menti Percentuale di spesa comunale per l'istruzione sulla spesa comunale totale* Comparti- menti Quota di spesa per l'istruzione elementare per abitante* Comparti- menti Numero delle scuole per 1000 abitanti**

Veneto 19,46 Lazio 13,12 Piemonte 2,64

Marche 18,82 Liguria 6,50 Lombardia 2,50

Piemonte 18,71 Lombardia 5,23 Liguria 2,44

Basilicata 18,30 Veneto 4,58 Umbria 2,30

Sicilia 18,26 Emilia 4,58 Marche 2,23

Abruzzo e

Molise 17,84 Piemonte 4,01 Veneto 2,18

Puglie 17,82 Marche 3,83 Emilia 2,10

Umbria 16,44 Umbria 3,81 Lazio 2,00

Emilia 15,97 Campania 3,46 Sardegna 1,80

Calabria 15,55 Sardegna 3,36 Abruzzo e Molise 1,70

Lazio 15,20 Puglie 3,00 Toscana 1,60

Campania 14,44 Toscana 2,90 Puglie 1,60

Liguria 14,22 Sicilia 2,69 Campania 1,55

Sardegna 13,52 Abruzzo e Molise 2,61 Sicilia 1,55

Lombardia 13,15 Basilicata 2,38 Calabria 1,47

Toscana 11,09 Calabria 2,19 Basilicata 1,45

Fonte: Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale dell’Istruzione Primaria e

Popolare, “L’ISTRUZIONE PRIMARIA E POPOLARE IN ITALIA, CON SPECIALE RIGUARDO ALL’ANNO SCOLASTICO 1907-08, RELAZIONE PRESENTATA A S.E. IL

MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE DAL DIRETTORE GENERALE PER LA ISTRUZIONE

PRIMARIA E POPOLARE DOTT. CAMILLO CORRADINI”, Roma, Tipografia Operaia Romana

Cooperativa, 1910.Vol. I., pp. 546-547.

* I dati sono relativi ai bilanci presuntivi del 1909. ** I dati sono relativi al 1907.

Sicuramente doveva aver contribuito a determinare questa situazione il fatto che la popolazione toscana non faceva i conti con una delle difficoltà che invece incontrava la maggior parte dei cittadini del Regno, ovvero l’estraneità alla lingua italiana, in cui si doveva imparare a leggere e a scrivere153.

153 Secondo i calcoli di Tullio De Mauro, escludendo la Toscana e Roma dove i dialetti locali erano

particolarmente vicini nella struttura fonologica morfologica e lessicale alla lingua comune, nella penisola italiana intorno agli anni dell’unificazione il numero degli italofoni si aggirava intorno ai 160.000, ovvero

Tabella 1.6. Tasso di analfabetismo della popolazione con sei o più anni, per regioni al censimento del 1901 (%).

Compartimenti Percentuale di analfabeti Piemonte 17,7 Lombardia 21,8 Liguria 26,5 Veneto 35,4 Lazio 43,8 Emilia 46,3 Toscana 48,2 Regno 48,5 Umbria 60,3 Marche 62,9 Campania 65,1 Sardegna 68,3 Puglie 69,5 Abruzzo e Molise 69,8 Sicilia 70,9 Basilicata 75,4 Calabria 78,7

Fonte: la stessa della tabella 1.5.

Tuttavia la stessa realtà toscana non andava eccessivamente semplificata, come suggeriva Corradini, giacché questa regione presentava al suo interno i divari più ampi rispetto a qualsiasi altra, quanto a livello di analfabetismo: si andava dal 29,7% di Livorno al 61,3% di Arezzo. E non solo: la sua capitale, Firenze, costituiva in piccolo quella violazione della regola che l’intera regione rappresentava a livello nazionale. La provincia di Firenze, infatti, pur essendo seconda, dopo Livorno, per tasso di alfabetizzazione, era l’ultima per rapporto tra numero di scuole e abitanti (e penultima tra tutte le provincie del Regno: migliore solo di Siracusa)154.

all’8 per mille dell’intera popolazione, rispetto ai circa 400.000 toscani e 70.000 romani. De Mauro T., 1963.

154 Camillo Corradini, “L’ISTRUZIONE PRIMARIA E POPOLARE IN ITALIA, CON SPECIALE

Nel suo complesso, dunque, la Toscana era una regione i cui i comuni, a partire dalla capitale, avevano fatto poco per l’istruzione, ma in cui l’alfabetizzazione era cresciuta più che altrove nonostante lo scarso impegno delle istituzioni pubbliche.

Questa situazione rompeva in modo evidente la rigidità dello schema con il quale spesso veniva riassunto il meccanismo di diffusione dell’istruzione e della cultura scritta in Italia e secondo cui il fattore istituzionale avrebbe giocato un ruolo propulsore, in ragione della sua maggiore o minore forza, rispetto all’atteggiamento delle classi popolari, che invece avrebbe agito tendenzialmente come elemento limitativo e ostacolante nei confronti della scolarizzazione. L’estrema debolezza dell’impegno istituzionale nell’istruzione popolare, d’altronde, apriva l’interrogativo su quali fossero gli altri fattori che agivano positivamente sulla crescita della scolarizzazione e dell’alfabetizzazione ed in particolare su quale fosse l’atteggiamento prevalente della popolazione nei confronti della cultura scritta e della scuola: si trattava, come molti osservatori dell’epoca suggerivano, soltanto di rifiuto, di fastidio per un’occupazione poco remunerativa e che oltretutto distoglieva i bambini dalle attività lavorative che incrementavano i redditi familiari? Si trattava di un’imposizione subita e mal digerita da parte di famiglie e di individui troppo occupati a fare i conti con la miseria per pensare ad un bene aleatorio come la conoscenza dell’alfabeto e dei numeri? Oppure l’attitudine delle classi popolari rispetto all’istruzione era più complessa, non necessariamente negativa, quando non apertamente positiva?

E’ per rispondere a questa domanda che nei capitoli che seguono verrà presentato il caso di Prato, un comune dell’area fiorentina che nonostante la sua estrema vicinanza alla capitale aveva sviluppato, specie nel corso del XIX secolo, una sua precisa identità culturale e una notevole vivacità economica155. Proprio in ragione del suo dinamismo economico e sociale, la città, situata nella fertile piana ad ovest di Firenze, aveva raggiunto un ruolo di rilievo regionale già nella prima metà dell’800, sotto il Granducato dei Lorena, e ne avrebbe assunto uno di rilievo nazionale nel periodo post- unitario, diventando, ai primi del 1900, il 31° comune della penisola per dimensione della popolazione e uno dei poli tessili trainanti dello sviluppo economico nazionale.

Grazie a queste sue caratteristiche Prato ha attratto su di sé un’attenzione crescente da parte degli studiosi, fino a diventare, nel corso degli ultimi decenni, un topos storiografico consolidato. Valga per tutti l’opera monumentale, condotta sotto la direzione di Fernand Braudel156, dedicata alla città e volta a ricostruire la vita della comunità pratese dal medioevo fino a nostri giorni, sotto vari punti di vista: da quelli economici a quelli demografici, da quelli politici a quelli religiosi, da quelli sociali a quelli urbanistici. Questo lavoro attinge largamente ai risultati di quella ricerca, soprattutto per quegli aspetti, come quelli economici, sociali e demografici, connessi con lo sviluppo dell’istruzione popolare e della scolarità, il cui studio, invece, non è stato ancora particolarmente approfondito.

Al rilievo nazionale della città, alla sua importanza in campo storiografico, alla mole documentaria già acquisita da altre ricerche su cui si è potuto contare come background per la ricostruzione dello sviluppo alfabetico e scolastico della comunità, si deve aggiungere, tra le ragioni che hanno suggerito la scelta di Prato, la ricchezza delle fonti archivistiche, conservate soprattutto presso la Sezione dell’Archivio di Stato di Prato e dell’Archivio Comunale postunitario, che hanno consentito di dipingere un quadro assai variegato e sfumato della diffusione della cultura scritta e della crescita del sistema scolastico pratese, come si avrà modo di vedere dai capitoli successivi.

Capitolo 2. Scuola e alfabeto nel periodo preunitario: un

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